L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla modificabilità della misura della penalità di mora in sede di chiarimenti al giudice dell'ottemperanza

L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla modificabilità della misura della penalità di mora in sede di chiarimenti al giudice dell'ottemperanza


Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza – Chiarimenti – Penalità di mora – Modifica relativa statuizione – Possibilità e limiti.

        E’ sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’art. 614 bis c.p.c., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato (1).

 

(1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. V, ord., 4 marzo 2019, n. 1457.

Il tema da indagare deve in particolare circoscriversi al rapporto tra le sopravvenienze e la sentenza che ormai irrevocabilmente abbia disposto l’astreinte. Esso si innesta su quello, più generale, della natura giuridica della sentenza resa all’esito del processo d’ottemperanza e della sua attitudine a formare giudicato.

Ha chiarito l’Altro consesso che la questione è la rilevanza delle sopravvenienze. Ritiene l’Adunanza Plenaria che tutte le volte in cui le misure strumentali - siano esse surrogatorie, ovvero compulsorie - siano incise, nella loro efficacia, da fatti o circostanze sopravvenute, esse debbano poter essere ricalibrate dal giudice dell’ottemperanza in modo da preservarne il predetto nesso di strumentalità.

E’ il caso, ad esempio, della temporanea o definitiva inesigibilità della prestazione secondo l’ordinaria diligenza. Ove l’amministrazione deduca che l’adempimento è divenuto temporaneamente o definitivamente impossibile per causa ad essa non imputabile, la funzione di stimolo e quella sanzionatoria, proprie dell’astreinte, non avrebbe più ragion d’essere, e ove non elisa o adeguata, si trasformerebbe in uno strumento di coattivo trasferimento di ricchezza privo di ogni valida causa, che vieppiù si aggiungerebbe al danno da inesecuzione del giudicato, comunque risarcibile a prescindere dal requisito soggettivo della colpevolezza (Cons. St., A.P., sentenza 12 maggio 2017, n. 2).

L’ordinamento non tollera spostamenti patrimoniali in assenza di una valida causa, e, anche ove questi siano ab origine consensualmente disposti, prevede l’immanente controllo giudiziario in guisa da riservare tutela giuridica agli stessi esclusivamente nei limiti dell’'interesse che il creditore aveva all'adempimento (così art. 1384 cc sulla clausola penale) e non oltre; a tutela di un interesse generale che trascende quello delle parti del rapporto (Cass., SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18128).

Questo interesse generale non viene meno ove la fonte dello spostamento patrimoniale sia una sentenza. Certamente non può discorrersi di controllo giudiziario concomitante, posto che nel caso dell’astreinte è lo stesso giudice a disporre lo spostamento patrimoniale in funzione compulsoria ed eventualmente sanzionatoria. E’ nondimeno corretto parlare di un ineludibile controllo successivo ove le sopravvenienze rendano lo sviluppo della condanna nel tempo non più coerente con la sua funzione (illuminante il raffronto con l’art. 1384 c.c. laddove esso fa riferimento ad es. alla parziale esecuzione dell’obbligazione principale).

A supporto dell’anticipata conclusione depongono ulteriori elementi, legati alle peculiarità all’ottemperanza ed alla configurazione normativa del relativo processo.

Può infatti dirsi che la stessa immanenza dell’alternativa surrogatoria, tipica del processo di ottemperanza, è ragione che porta a concludere circa la possibilità di modifica dell’astreinte, atteso che l’eventuale nomina del commissario, sempre possibile, è misura la cui applicazione non può che presupporre il permanere del potere giudiziale di intervenire sul regime della pregressa condanna.

L’insediamento del commissario ad acta, infatti, nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione inadempiente surrogata, priva quest’ultima della potestà di provvedere (Cons. St., sez. V, 16 aprile 2014, n. 1975)  integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta che rende non più funzionale ed utile l’astreinte, sì da imporne la soppressione ex nunc.

Potrebbe sostenersi che l’inadempimento è pur sempre riferibile all’amministrazione obbligata che non ha colpevolmente dato seguito alle statuizioni della sentenza, ma il mantenere l’astreinte, nonostante la nomina di un organo straordinario incaricato di adempiere, farebbe perdere alla stessa il carattere composito di stimolo e sanzione, lasciando inammissibilmente residuare solo quest’ultimo in una statuizione claudicante non più sussumibile nella nozione di astreinte.

Insomma, l’esigenza di una modifica in itinere dell’astreinte è insita nei principi dell’ordinamento, nella peculiare configurazione del processo di ottemperanza, ed è il frutto del carattere necessariamente condizionato della condanna, del novero e della modulazione degli strumenti attuativi a disposizione del giudice.

Sul versante processuale si rinvengono ulteriori indizi che confermano la tesi. L’esigenza che il giudice dell’ottemperanza continui a mantenere il governo delle statuizioni di carattere strumentale è senz’altro a base dalla previsione normativa che espressamente radica in capo al giudice dell’ottemperanza il potere di conoscere delle questioni inerenti agli atti del commissario ad acta (art. 114 comma 6 c.p.a.); nonché di quella ulteriore, del pari potenzialmente incidente sugli strumenti di esecuzione, di fornire chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del commissario.

Sono entrambi rimedi, quello del reclamo e dei chiarimenti, che presuppongono una statuizione giudiziale passata in giudicato e che si innestano nel processo di materiale esecuzione fornendo alle parti occasione processuale per la discussione anche degli eventuali effetti delle sopravvenienze.

Ha poi chiarito l’Alto Consesso che la Sezione rimettente perora una riforma con effetto ex tunc della statuizione, tale da travolgere gli atti di esecuzione forzata nelle more avviati dal creditore sulla base del titolo esecutivo costituto dall’astreinte ex art. 114 comma 4 lett. e).

A ciò osta, non tanto il “giudicato”, atteso che la statuizione è sicuramente suscettibile di adeguamento rispetto alle sopravvenienze, quanto l’esigenza di certezza e conseguente stabilità e irretrattabilità dell’astreinte, indispensabile perché essa possa svolgere efficacemente la sua funzione compulsoria. E’ infatti la finalità stessa dell’astreinte, quale misura volta a sollecitare l’adempimento della statuizione giudiziale, a postularne la stabilità e la irretrattabilità, poiché, a diversamente ritenere, verrebbe incisa la vincolatività del precetto ausiliario potendo in ogni tempo la parte soccombente confidare in una sua revisione, peraltro non senza una intuibile proliferazione di contenzioso.

Quest’ultima è disposta su domanda di parte, all’esito di un giudizio svolto nel pieno contraddittorio delle parti, sulla base di valutazioni poggianti sugli atti e i documenti di causa, alla luce di un prognosi informata a parametri necessariamente oggettivi. Dunque non v’è modo per l’emergere di iniquità “genetiche” se non postulando un doppio grado di giudizio.

Escluso che si possa chiedere e ottenere il mero riesame della statuizione di condanna, sono piuttosto le sopravvenienze a rivestire un ruolo fondamentale e a segnare il discrimine.

I “chiarimenti” sono la sede naturale ove valutare le sopravvenienze, posto che essi riguardano proprio le modalità applicative della minaccia, id est la concreta determinazione della sanzione alla luce del comportamento successivo delle parti e delle sopravvenienze fattuali e giuridiche. Oggetto pacificamente sussumibile nell’ampio concetto di “modalità d’ottemperanza” di cui all’art. 112 comma 5 c.p.a.

La questione che viene sottoposta a questa Adunanza è però del tutto peculiare e disvela come, anche a prescindere dal ricorrere di sopravvenienze, in alcuni specifici e ben circoscritti casi in cui è del tutto mancata la valutazione di non manifesta iniquità e, a monte, la fissazione di un tetto massimo cui riferire la valutazione suddetta, sia assolutamente necessario un presidio di garanzia e controllo del giudice dell’ottemperanza, utile ad evitare che l’evoluzione del meccanismo di calcolo provochi uno snaturamento dell’astreinte, privandola di ogni collegamento con i parametri oggettivi di cui agli art. 614 bis e 114 cpa e di fatto trasformandola in un trasferimento coattivo di ricchezza sine causa.

Ha ancora aggiunto l’Adunanza plenaria che i parametri oggettivi per la sua fissazione possono ben ricavarsi dall’art. 614 bis c.p.c., archetipo dell’astreinte, esprimente regole e criteri comunque ricavabili dai principi generali dell’ordinamento, ed in primis, dal principio di legalità rafforzato, sopra menzionato.

La circostanza che il codice del processo amministrativo, a differenza del codice di procedura civile, non abbia espressamente fatto riferimento all’art. 614 bis - né previsto, per la determinazione dell’ammontare della penalità, specifici criteri di collegamento al valore della controversia o al danno quantificato o prevedibile - limitandosi ad indicare, invece, il limite della “manifesta iniquità” o del ricorrere di “ragioni ostative”, non deve trarre in inganno, poiché siffatta circostanza è piuttosto la riprova che l’atteggiamento del legislatore è stato ancora più cauto, nella misura in cui ha preteso, oltre al rispetto degli ineludibili criteri oggettivi sopra richiamati, connaturati alla stessa definizione di astreinte ed alla sua valenza anche sanzionatoria, un’ulteriore valutazione di non manifesta iniquità.


Anno di pubblicazione:

2019

Materia:

GIUSTIZIA amministrativa, GIUDIZIO di ottemperanza

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri