Cumulo dei benefici erogati a carico del Fondo di solidarietà civile e regime transitorio

Cumulo dei benefici erogati a carico del Fondo di solidarietà civile e regime transitorio


Contributi e finanziamenti - Fondo di solidarietà - Cumulo con provvidenze erogate in favore delle vittime del dovere – Esclusione.

Contributi e finanziamenti - Fondo di solidarietà – Disciplina transitoria – Termine ex art. 18, d.m. n. 162 del 2013 – Natura perentoria.

 

 

        I benefici erogati a carico del Fondo di solidarietà civile di cui all’art. 2-bis, d.l. n. 187 del 2010 in favore delle vittime di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero di manifestazioni di diversa natura, non possono essere cumulabili con le provvidenze erogate in favore delle vittime del dovere di cui all’art. 3, l. n. 466 del 1980, ivi comprese quelle previste dall’art. 82, l. n. 388 del 2000 (1).

         Il termine stabilito dall’art. 18, d.m. n. 162 del 2013 – che disciplina il regime transitorio relativo alle situazioni riferibili a sentenze passate in giudicato nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della l. n. 217 del 2010, di conversione del d.l. n. 187 del 2010, e la data di entrata in vigore del d.m. n. 162 del 2013 - ha natura perentoria e, superato il predetto termine, si incorre nell’inammissibilità della domanda (2).

 

(1) L’art. 2-bis, d.l. n. 187 del 2010 ha istituito presso il Ministero dell’Interno il Fondo di solidarietà civile in favore delle vittime di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero di manifestazioni di diversa natura; tale strumento ha la finalità di assicurare un sicuro ristoro in favore dei soggetti che non hanno ricevuto alcuna forma di risarcimento direttamente dal responsabile del fatto illecito.
​​​​​​​Ha ricordato la Sezione che in giurisprudenza è stata discussa l’operatività della compensatio lucri cum damno in presenza di un fatto illecito da cui sono scaturiti benefici cosiddetti collaterali, ossia benefici provenienti da assicurazione, previdenza sociale, ecc.
​​​​​​​In questo caso, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato e un soggetto diverso (a sua volta) obbligato, per legge o per contratto, a erogare al primo un beneficio collaterale. Si rende necessario stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale, avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto a erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato, accumulandosi con il risarcimento del danno, o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.
​​​​​​​Secondo un primo orientamento, alle fattispecie rientranti in questa categoria non è applicabile la regola della compensazione tra indennizzo e risarcimento, ma piuttosto quella del cumulo. Si afferma che la diversità dei titoli delle obbligazioni e dei relativi rapporti giuridici sottostanti costituisce un’idonea causa giustificativa delle differenti attribuzioni patrimoniali e, conseguentemente, la condotta illecita rappresenta non la causa dell’indennità a vario titolo corrisposta, ma la mera occasione di essa. Sul piano funzionale non vi sono sovra-compensazioni economiche, proprio perché la diversità delle ragioni giustificative delle attribuzioni patrimoniali impedisce di assegnare valenza punitiva al risarcimento del danno (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 20548 del 2014; id. n. 4950 del 2010; Cons. Stato, Ad. Plen., n. 14 del 1985; id. n. 5 del 2009).
​​​​​​​Un secondo orientamento ritiene, invece, che anche in questi casi debba applicarsi la regola della compensatio. In particolare, sul piano strutturale, si afferma che la diversità dei titoli non giustifica l’esito cui perviene l’opposto indirizzo interpretativo, in quanto ciò che rileva è che la condotta (e non il titolo) sia unica e che essa costituisca la “causa” sia del risarcimento del danno sia dell’attribuzione di somme finalizzate a reintegrare il patrimonio leso. Sul piano funzionale, ammettendo il cumulo e non la compensatio, si assegna una funzione sovracompensativa al risarcimento del danno.
​​​​​​​Questi aspetti sarebbero resi ancora più complessi dal meccanismo della surrogazione prevista dall’art. 1916 c.c. e dalla legislazione speciale. Il danneggiante, infatti, potrebbe essere costretto a corrispondere la medesima somma, una prima volta, al danneggiato e, una seconda volta, al soggetto o ente che ha corrisposto l’indennità alla parte danneggiata, a seguito della successione dell’ente nel rapporto obbligatorio facente capo al danneggiato.
​​​​​​​Si verrebbe così ad attribuire – sul presupposto che i benefici collaterali corrisposti non abbiano valenza autonoma giustificativa delle relative attribuzioni patrimoniali – una funzione punitiva al risarcimento del danno in mancanza di una espressa previsione di legge che lo consenta. L’unica possibilità per evitare questo risultato sarebbe quello di ritenere che non operi la surrogazione. Ma tale esito sarebbe contraddittorio in presenza di norme imperative che la contemplano e che non potrebbero essere derogate con atto di autonomia delle parti (Cass. civ., sez. III, n. 6573 del 2013; id., sez. I, n. 9978 del 2016).
​​​​​​​La questione relativa all’applicazione del principio della compensazione in presenza di benefici collaterali è stata recentemente sottoposta all’attenzione tanto dell’Adunanza plenaria quanto delle Sezioni Unite.
​​​​​​​L’Adunanza Plenaria ha affermato: «la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2018).
​​​​​​​Le Sezioni Unite (n. 12564 del 2018; n. 12565 del 2018; n. 12566 del 2018; n. 12567 del 2018), dal canto loro, investite in particolare di quattro problematiche, prendono come riferimento l’orientamento emerso in seno alla dottrina civilistica europea. Infatti, sia i Principles of European Tort Law, all’art. 10.103, che il Draft Common Frame of Reference, all’art. 6.103 del Libro VI, prevedono che, nel determinare l’ammontare dei danni, i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell’evento dannoso devono essere presi in considerazione, salvo che ciò non sia inconciliabile con lo scopo dei vantaggi. In sintesi, in entrambi i testi normativi, in ossequio al c.d. principio dell’indifferenza, emerge l’invito ad accertare il danno ed il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, in vista di una ragionevole ed equilibrata applicazione del meccanismo compensativo.
​​​​​​​Pur con le distinzioni delle singole questioni in concreto esaminate, quale principio di diritto, la Corte di Cassazione statuisce che, ai fini dell’individuazione del vantaggio computabile, occorre verificare che tale vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto lesivo dell’illecito; deve sussistere, cioè, un collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria. Ne consegue che l’attribuzione patrimoniale collaterale erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito in conseguenza del verificarsi dell’evento, soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito.
​​​​​​​A supporto di detta indagine rilevano, altresì, meccanismi di surrogazione o rivalsa esistenti nell’ordinamento, in quanto consentono di stabilire l’effettiva incidenza del risarcimento, nonché di evitare che l’autore dell’illecito possa in qualche modo alleggerire la propria posizione obbligatoria, mediante il riconoscimento del ‘diffalco’ della posta erogata al soggetto leso da parte di un terzo, estraneo al fatto.
​​​​​​​Dopo una lunga evoluzione della giurisprudenza, questi criteri siano ormai pacifici e che, ad oggi, affinché il vantaggio patrimoniale sia computabile all’atto della liquidazione del danno occorre accertare, caso per caso: a) il nesso di causalità tra il fatto illecito e il beneficio, in base al quale danno e vantaggio devono essere eziologicamente collegati all'illecito; b) che tale vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto lesivo dell’illecito, cioè che abbia funzione analoga a quella risarcitoria; c) la presenza di meccanismi di surrogazione o rivalsa esistenti nell’ordinamento.
​​​​​​​Ha aggiunto la Sezione che, coerentemente alla natura indennitaria delle predette elargizioni, la somma riconosciuta non necessariamente dovrà coprire l’intero danno patito dalla vittima. Sotto tale ultimo aspetto è sufficiente considerare che il regolamento – dopo aver introdotto la regola generale per cui “si provvede attraverso elargizioni ed interventi di solidarietà civile in misura dell'intero ammontare del danno subìto e riconosciuto in sede giudiziaria” (art. 8, comma 2, d.m. cit.) – stabilisce, per un verso, un tetto massimo dell’elargizione (pari a tre milioni di euro) e poi prevede la possibilità di ridurre la somma corrisposta qualora la capienza del fondo sia insufficiente (art. 8, comma 3, d.m. cit.).
​​​​​​​La possibilità, dunque, di discostarsi dall’entità del pregiudizio effettivamente patito è chiaro indice della natura indennitaria del beneficio di cui si discorre.
​​​​​​​Una volta riconosciuta la natura indennitaria della somma prevista dalla disciplina in esame, alla luce della ricostruzione prima operata, si comprende agevolmente che tale indennità non potrà essere cumulata col risarcimento dei danni corrisposto da chi ha commesso il fatto illecito.
​​​​​​​La conclusione ora raggiunta è, in primo luogo, coerente con l’evoluzione della giurisprudenza civile che, come prima riferito, ha escluso il cumulo tra indennizzo e risarcimento.
​​​​​​​In secondo luogo, anche sulla scia interpretativa delle sentenze da ultimo richiamate, l’esclusione del cumulo si ricava agevolmente dall’art. 16 d.m. cit., ove è prevista la surrogazione del fondo (“Il Fondo è surrogato, quanto alle somme corrisposte agli aventi titolo, nei diritti della parte civile o dell'attore verso il soggetto condannato al risarcimento del danno, anche attraverso la gestione del Fondo, ai sensi dell'articolo 9, comma 2”). Poiché la legge (art. 2 bis, comma 5, d.l. n- 187 del 2010) e il regolamento (art. 16, d.m.  n. 162 del 2013) hanno previsto la possibilità per il Fondo che ha corrisposto l’indennizzo di surrogarsi nella posizione della vittima dell’illecito verso il condannato al risarcimento del danno, emerge con chiarezza che non è possibile il cumulo tra risarcimento e indennizzo. Ed invero, ragionando diversamente, potrebbe accadere che la vittima ottenga sia il risarcimento dall’autore dell’illecito sia l’indennizzo dal Fondo e che il Fondo poi agisca nei confronti dell’autore dell’illecito in surrogazione. Si creerebbero così ben due inconvenienti: 1) in violazione del principio dell’indifferenza la vittima si arricchirebbe perché otterrebbe una somma maggiore rispetto al danno patito; 2) l’autore del reato, per contro, sarebbe costretto a pagare due volte, una prima volta alla vittima dell’illecito e una seconda volta al Fondo.
Risulta dunque perfettamente coerente col sistema quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, d.m. cit. ove si esclude la cumulabilità tra risarcimento e indennizzo.

 

(2) Il termine stabilito all’art. 18, d.m. n. 162 del 2013 ha natura perentoria.
A tale conclusione si arriva per una serie di ragioni.
​​​​​​​In primo luogo, diversamente ragionando, vi sarebbe una vistosa incoerenza del sistema che, a regime, prevede un termine perentorio mentre contempla un termine di tipo ordinatorio per le fattispecie più antiche, disciplinate, come testimoniato dalla rubrica dell’art. 18, in via transitoria. Detto in altro modo, sarebbe ben strana una disciplina che stabilisca pacificamente un termine di decadenza di tre mesi all’art. 10 e contemporaneamente lasci all’ordinario termine di prescrizione decennale l’istanza proposta con riferimento a fattispecie rientranti nella disciplina transitoria e, come tali, certamente più antiche.
​​​​​​​In secondo luogo, la differente utilizzazione del verbo essere o potere non può considerarsi decisiva, atteso il fatto che sovente il legislatore utilizza il verbo potere per esprimere una facoltà di libera scelta lasciata all’interessato, senza che però da questo ne scaturisca l’inesistenza di un termine entro il quale compiere quella attività. In altri termini, il soggetto è libero di compiere o meno quell’atto – nel caso oggetto di studio se presentare o meno l’istanza, se chiedere altri benefici o se insistere per il risarcimento del danno – ma ciò non significa che può decidere di presentarla quando meglio crede.
​​​​​​​In terzo luogo, va ricordato che per comprendere se un termine ha natura perentoria o ordinatoria è necessario fare riferimento agli scopi perseguiti dalla legge (“per attribuire il carattere perentorio ad un termine fissato dal legislatore, non è necessario rinvenire un'esplicita previsione al riguardo, potendosi attribuire tale carattere anche in considerazione degli scopi perseguiti dalla legge”, Cons. Stato, sez. VI, n. 1139 del 1999) nonché alla connessione della perentorietà a “concrete ragioni di carattere organizzativo della P.A.”.
​​​​​​​È necessario tener conto dunque che, nel quesito in esame, si discute di una norma di diritto transitorio, la cui finalità è quella di garantire la certezza delle posizioni giuridiche sorte nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della l. n. 217 del 2010 e la data di entrata in vigore del d.m. n. 162 del 2013. Tale certezza verrebbe meno laddove il termine di tre mesi fosse inteso come ordinatorio; proprio per questo motivo la norma sottende una decadenza nei casi di presentazione tardiva della domanda, con la conseguenza che il soggetto interessato non può più azionare il diritto riconosciuto dall’art. 18 cit.


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

CONTRIBUTI e finanziamenti

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri