Alla Corte di Giustizia Ue alcune questioni pregiudiziali in tema di revocazione

Alla Corte di Giustizia Ue alcune questioni pregiudiziali in tema di revocazione


Processo amministrativo – Revocazione – Oggetto - Sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia – Esclusione – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue. 

            Devono essere rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni: a) se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia; b) se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990 del 2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all’inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società; c) se gli artt. 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale (1). 

 

(1) Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2222 

Ha ricordato la Sezione che in base al sistema giuridico nazionale non sussiste uno strumento atto a verificare e a garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, nello specifico, con i principi espressi della Corte di Giustizia.  

Secondo una consolidata giurisprudenza, le modalità di attuazione del principio dell’intangibilità del giudicato rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, ai sensi del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, nel rispetto tuttavia dei principi di equivalenza e di effettività (sentenza Fallimento Olimpiclub, C2/08, punto 24). Pertanto, il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (sentenze Eco Swiss, C126/97, punti 46 e 47; Kapferer, punti 20 e 21; Fallimento Olimpiclub, punti 22 e 23).  

Deve tuttavia osservarsi che, rispetto ai precedenti citati, nel caso in esame la questione pregiudiziale proposta dalla parte impatta sul riconosciuto principio di autonomia procedurale in modo parzialmente differente, avuto riguardo al fatto che la domanda di parte ricorrente ha ad oggetto la dedotta violazione da parte della sentenza impugnata dei principi dettati dalla Corte di Giustizia nell’ambito del giudizio principale all’interno del quale la stessa era stata adita. In altri termini, la questione pregiudiziale proposta dalle parti si pone all’interno della medesima controversia durante la quale, lo stesso Giudice, che secondo la parte avrebbe violato la decisione della Corte, aveva adito la Corte ai sensi dell’art. 267 cit., in questo senso la causa principale risulta ancora sub iudice, tuttavia, in base alle norme processuali interne, non sussistono strumenti per poter intervenire e, se del caso, correggere la decisione laddove in contrasto con i principi espressi, nel medesimo giudizio, dalla Corte di Giustizia.  

Tanto è vero che, tecnicamente, non si è ancora formato un giudicato in violazione del diritto comunitario, posto che il presente giudizio, come detto, ha ad oggetto l’impugnazione della sentenza a cui viene imputata tale violazione (le sentenze acquistano forza di giudicato dopo la scadenza dei termini di impugnazione fissati nell’art. 92 cod. proc. amm.) e il quesito interpretativo è volto proprio a scongiurare la formazione del giudicato, con il conseguente consolidamento della supposta violazione del diritto comunitario.  

La possibilità di incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, al fine di scongiurare il consolidamento della violazione del diritto dell’Unione Europea, appare preferibile rispetto al possibile rimedio, solo successivo, del risarcimento del danno, che in ogni caso implicherebbe per la parte gli oneri di un nuovo giudizio e per il quale è in ogni caso necessario che la violazione del diritto unionale sia non solo sussistente, ma anche manifesta (cfr. sentenza 30. 9. 2003, C-224/01; 10 giugno 1999, causa C-302/97).  

In termini di rilevanza della questione interpretativa delineata dalle parti deve precisarsi che con sentenza non definitiva – che si trasmette in allegato con gli atti del fascicolo e che costituisce la premessa dell’attuale rimessione - il Collegio ha dichiarato l’inammissibilità dei motivi di revocazione dedotti dalle società di cui ai punti 6, 6.1 e 6.2, non sussistendo i presupposti di cui all’art. 395 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, alla stregua del quale sono stati esaminati, in particolare perché si è trattato di “punti controversi” e non oggetto di “abbaglio dei sensi” o di “omessa pronuncia” secondo il significato che queste nozioni assumono nella giurisprudenza nazionale al fine di ammettere la revocazione di una sentenza.  

Il Collegio ha poi comunque ritenuto che non rientri nell’ipotesi dell’errore di fatto revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. la statuizione del giudice che ha escluso che le operazioni di riconfezionamento dell’Avastin necessitano di un’Autorizzazione all'Immissione in Commercio (AIC) ai sensi dell’art. 6 della direttiva 2001/83 né di un’autorizzazione di fabbricazione ai sensi dell’articolo 40 di detta direttiva allorché tale operazione sia prescritta da un medico mediante una ricetta individuale e sia effettuata da farmacisti ai fini della somministrazione di tale medicinale in ambito ospedaliero. 

La Sezione ha escluso che anche il dedotto mancato esame di una serie di “prese di posizione” delle Autorità competenti - che, secondo le ricorrenti, avrebbero accertato la non conformità delle condizioni con cui Avastin veniva, dal lato della domanda, prescritto dai medici e, dal lato dell’offerta, riconfezionato –costituisce un errore di fatto revocatorio.  

Al riguardo, ha ricordato che l’eventuale circostanza che la sentenza non abbia preso posizione su tutte le eccezioni difensive di una parte non è suscettibile di configurarsi come errore revocatorio, potendo al più costituire mero vizio del procedimento logico-giuridico estraneo alla iniziativa ex artt. 106 c.p.a. e 395 c.p.c. (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5180). Sul punto, la giurisprudenza (Cons. St., Ad. Plen., n. 21 del 2016) ha ben chiarito che è “in relazione al motivo di ricorso che si pone l’obbligo di corrispondere, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato”, mentre “non tutta l’illustrazione svolta dal ricorrente in un giudizio di impugnazione costituisce motivo di ricorso”, concludendo che “non costituisce motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni”.  

In ogni caso, deve ricordarsi che la prescrizione da parte di un medico dell’uso off label di un farmaco è in linea di principio lecita (cfr. Corte di Giustizia del 21 novembre 2018, nella causa C-29/17 e Cons. Stato 15 luglio 2019, n. 4967 relative al medicinale Avastin) sicché, al fine di identificare il mercato rilevante dei prodotti farmaceutici, rilevano le indicazioni terapeutiche fornite dai medici, le quali inevitabilmente fanno sì che, indipendentemente dal contenuto più o meno esteso delle AIC, rientrino nel medesimo mercato tutti i farmaci che i medici nella loro competenza e responsabilità prescrivono per la cura delle medesime patologie. 

Circa la mancata indagine sull’ingannevolezza della condotta delle società ricorrenti in revocazione la sentenza non definitiva ha ritenuto sufficiente quanto accertato in sentenza circa l’enfatizzazione dei rischi di commercializzazione off-label dell’Avastin anche nel quadro di incertezza scientifica che ha poi condotto all’assoluzione di alcuni responsabili delle società ricorrenti dal reato di aggiotaggio (di cui all’art. 501 c.p. italiano), stante l’autonomia dei presupposti dell’illecito penale rispetto all’illecito antitrust, ravvisabile a giudizio del Collegio, anche in presenza di condotte concretizzantesi in un’intesa volta ad enfatizzare rischi per ragioni commerciali.  

In riferimento alla dedotta violazione del diritto comunitario nei termini prospettati dalle società (punto 6.3), il Collegio dubita che tale violazione sia sussistente (da cui l’ipotetica irrilevanza del quesito pregiudiziale proposto dalle società ricorrenti) per le ragioni di seguito esposte.  

Sul piano dell’astratta configurabilità, nel caso di specie, di una violazione del diritto comunitario, deve rilevarsi che il Giudice, nel giudizio proposto avverso il provvedimento n. 24823 del 27.2.2014, vista la rilevanza comunitaria della materia: a) ha sollevato specifico quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia; b) ha recepito la relativa pronuncia, citandone le conclusioni e richiamandola in diversi passaggi della motivazione della sentenza n. 4990/2019 impugnata in questa sede.  

Appare evidente come tale modo di procedere testimoni il chiaro intendimento del giudicante di volersi uniformare al diritto comunitario, i cui principi sono stati esplicitamente richiamati nella decisione; coerentemente, nel testo della sentenza impugnata, non emerge in alcun modo l’affermazione di una regola di giudizio od un principio giuridico contrastante con i quelli dettati dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza del 23 gennaio 2018.  

Per ciò solo, non pare, già su un piano astratto, ravvisabile la dedotta “grave violazione del diritto comunitario”, dal momento che il Giudice del rinvio ha richiamato i principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia e non ha espresso un principio di diritto in contrasto con gli stessi. Ad avviso del Collegio, si è, se del caso, al cospetto di un errore in iudicando, vale a dire che, al più, può discutersi di un’erronea valutazione ed interpretazione dei fatti di causa e del materiale istruttorio; non certo di un contrasto tra la sentenza impugnata ed i principi dell’ordinamento comunitario: il supposto errore si colloca nel momento dell’applicazione concreta dei principi espressi dalla Corte di Giustizia – che il Giudice nazionale dimostra di conoscere e di condividere e che certamente non contraddice – che è attività tipica del giudice (nazionale) di valutazione dei fatti e del relativo materiale probatorio, ontologicamente non idonea a dare luogo ad un orientamento giuridico contrastante con quelli affermati dalla Corte.  

Per la giurisprudenza nazionale, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Corte di Cassazione ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017). L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 2 del 2018) ha chiarito che: “nella fisiologica dinamica dei rapporti fra il Giudice della nomofilachia e quello del giudizio a quo, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto da parte del primo, spetterà a quest’ultimo l’attività di contestualizzazione della regula iuris in relazione alle peculiarità del caso concreto, dovendosi in via di principio escludere forme di sostanziale ibridazione fra l’enunciazione di un principio e la definizione di una vicenda puntuale”; precisando, inoltre, che: “l’enunciazione di un principio di diritto nell’esercizio della propria funzione nomofilattica non integra l’applicazione alla vicenda per cui è causa della regula iuris enunciata e non assume quindi i connotati tipicamente decisori che caratterizzano le decisioni idonee a far stato fra le parti con l’autorità della cosa giudicata con gli effetti di cui all’articolo 2909 cod. civ. e di cui all’articolo 395, n. 5) c.p.c.” ; ne deriva che: “fra tali effetti non è annoverabile quello (proprio delle statuizioni assistite dalla forza del giudicato) di far stato fra le parti e di costituire parametro di difformità rilevante ai sensi dell’articolo 395, n. 5), c.p.c.”. 

Tale assetto dei rapporti tra Giudice della nomofilachia e Giudice di merito appare replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra Giudice nazionale e Corte di Giustizia, posto che la indiscussa vincolatività che deriva dalla pronuncia adottata da quest’ultima non può confondersi con la funzione giurisdizionale riservata al giudice nazionale, neanche quando è in discussione una controversia per la quale rileva il diritto dell’Unione, al cui interno si inserisce il rinvio pregiudiziale: al giudice nazionale, invero, appartiene in via esclusiva il potere di decidere la controversia e di valutazione dei fatti e delle emergenze istruttorie (cfr. sentenza, 19 marzo 1964, causa 75/63, Unger; sentenza, 26 settembre 1996, causa C-341/94). Al Giudice nazionale remittente spetta applicare le norme di diritto comunitario al caso concreto; pertanto: “la Corte non è competente a pronunciarsi sui fatti della causa principale, dato che tali questioni rientrano nella competenza esclusiva del giudice nazionale (sentenza 22 giugno 2000, causa C-318/98, Fornasar e a., Racc. pag. I-4785, punto 32)” (sentenza 16.10.2003, Causa C-421/01).  

Oltre alle considerazioni teoriche innanzi esposte, non appare comunque rintracciabile, alla stregua degli specifici elementi considerati dalla sentenza impugnata (per una più esaustiva trattazione si rimanda alla sentenza non definitiva), la dedotta violazione dei principi dettati dalla Corte di Giustizia, in riferimento ai due profili richiamati dalle società ricorrenti.  

Quanto al profilo dell’assenza di accertamenti effettuati dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali dell’illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label, i principi espressi dalla Corte di Giustizia possono essere così sommariamente riassunti: a) la direttiva 2001/83 non vieta l’uso di medicinali per indicazioni terapeutiche non coperte dalla relativa AIC. L’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/83 prevede infatti che uno Stato membro, al fine di rispondere ad esigenze speciali, possa escludere dal campo di applicazione della direttiva medesima i medicinali forniti per rispondere ad un’ordinazione leale e non sollecitata, elaborati conformemente alle prescrizioni di un operatore sanitario autorizzato e destinati a determinati pazienti, sotto la responsabilità personale e diretta di quest’ultimo; b) la normativa dell’Unione in materia farmaceutica disciplina le condizioni alle quali un medicinale come l’Avastin può essere riconfezionato per consentirne l’iniezione intravitreale. In tal senso, conformemente all’articolo 40 della direttiva 2001/83, la produzione di un medicinale è soggetta a un regime di autorizzazione, salvo che per le operazioni di riconfezionamento eseguite per la fornitura al dettaglio da parte di operatori sanitari (sentenza del 28 giugno 2012, Caronna, C7/11, punto 35). Il riconfezionamento dell’Avastin ai fini del suo utilizzo in oftalmologia richiede quindi, in linea di principio, un’autorizzazione, salvo il caso in cui tale operazione sia eseguita soltanto per la fornitura al dettaglio, da parte di farmacisti in farmacia, o da altre persone legalmente autorizzate negli Stati membri (sentenza dell’11 aprile 2013, Novartis Pharma, C535/11, punto 52); c) Da tali elementi discende che la normativa dell’Unione in materia di prodotti farmaceutici non vieta né la prescrizione di un medicinale off-label né il suo riconfezionamento ai fini di tale uso, ma subordina dette operazioni al rispetto di condizioni stabilite da tale normativa.  

Risponde al vero che, in base alla ricostruzione generale effettuata dalla Corte di Giustizia, “l’autorità nazionale garante della concorrenza deve, sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione, tener conto del risultato di tale esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell’offerta”. Tuttavia, ai fini della soluzione dello specifico caso sottopostole, deve essere rimarcato come la stessa sentenza della Corte si spinga ad affermare che “per quanto riguarda il procedimento principale, nessun elemento del fascicolo suggerisce che, al momento dell’applicazione dell’articolo 101 TFUE da parte dell’AGCM, l’eventuale illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label, allegata dalla Roche, fosse stata accertata dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali”.  

Sempre in riferimento al caso specifico, la Corte afferma che “Al contrario, fatte salve le verifiche che spetta al giudice del rinvio se del caso effettuare, risulta, in particolare, dai punti 70 e 208 della decisione dell’AGCM che l’EMA e la Commissione, al momento dell’adozione di tale decisione, non avevano accolto la richiesta della Roche volta ad includere nell’elenco degli «effetti indesiderati», che figura nel riassunto delle caratteristiche dell’Avastin, taluni effetti collaterali negativi legati all’uso intravitreale di tale medicinale, e hanno ritenuto che tali effetti giustificassero solo una menzione fra le avvertenze speciali e precauzioni d’impiego”. La Corte conclude, quindi, nel senso che, alla luce di tali circostanze, “lo stato di incertezza in merito alla liceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin per il trattamento di patologie oftalmiche non ostava a che l’AGCM, ai fini dell’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, concludesse che tale prodotto rientrava nello stesso mercato di un altro medicinale la cui AIC copre specificamente tali indicazioni terapeutiche”. 

A fronte della chiara valutazione operata dalla stessa Corte di Giustizia, in primo luogo, non può essere enfatizzata oltremodo la precisazione “fatte salve le verifiche che spetta al giudice del rinvio se del caso effettuare”, tanto più che la stessa Corte inserisce l’inciso “se del caso”.  

In ogni caso, come già rilevato, in riferimento a tale aspetto, la sentenza impugnata non si sottrae alla verifica demandata al giudice di merito, richiamando al riguardo quanto affermato, proprio in riferimento al medicinale in discorso, dalla successiva sentenza della Corte di Giustizia del 21 novembre 2018 (causa C-29/17), secondo cui: “le operazioni di riconfezionamento dell’Avastin non necessitano di un’Autorizzazione all'Immissione in Commercio (AIC) ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 2001/83 né di un’autorizzazione di fabbricazione ai sensi dell’articolo 40 di detta direttiva. In particolare, secondo i giudici europei, il riconfezionamento dell’Avastin alle condizioni previste dalle misure nazionali non necessita di un’AIC allorché tale operazione è prescritta da un medico mediante una ricetta individuale ed è effettuata da farmacisti ai fini della somministrazione di tale medicinale in ambito ospedaliero; ed in riferimento alla fattispecie concretamente in esame precisa che: “l’eventuale illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label, allegata dalla Roche, non era stata accertata dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali”; quindi, la sentenza impugnata conclude, recependo il suggerimento della Corte di Giustizia, nel senso che: “nel caso in esame, è pacifico che, durante il periodo della violazione oggetto della decisione dell’Autorità, l’Avastin era stato spesso prescritto per il trattamento di malattie oftalmiche, nonostante il fatto che la rispettiva AIC non coprisse tali indicazioni. Tale circostanza denota pertanto l’esistenza di un rapporto concreto di sostituibilità tra il medicinale in questione e quelli autorizzati per dette patologie oftalmiche, tra i quali figura il Lucentis”. 

In ogni caso, in riferimento alle “prese di posizione delle Autorità competenti”, che secondo le società la sentenza avrebbe trascurato, deve rilevarsi come dette “prese di posizione” per lo più non attengano alla liceità della prescrizione e del riconfezionamento dell’Avastin in uso oftalmico, ma solo alla sua prescrivibilità da parte del SSN (le decisioni dell’AIFA circa l’inclusione o l’esclusione dell’Avastin dalla “lista 648” concernono i limiti in cui è ammesso il rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale dei farmaci utilizzati off-label); non paiono pertanto rilevanti ai fini del controllo che la Corte avrebbe demandato al giudice di merito relativo alla “eventuale illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label, allegata dalla Roche…accertata dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali”.  

Tale conclusione risulta avvalorata dal fatto che la prescrizione da parte di un medico dell’uso off- label di un farmaco è in linea di principio lecita (cfr. Corte di Giustizia del 21 novembre 2018, nella causa C-29/17 e Consiglio di Stato 15 luglio 2019, n. 4967 relative al medicinale Avastin), sicché al fine di identificare il mercato rilevante dei prodotti farmaceutici, rilevano le indicazioni terapeutiche fornite dai medici, le quali inevitabilmente fanno sì che, indipendentemente dal contenuto più o meno esteso delle AIC, rientrino nel medesimo mercato tutti i farmaci che i medici nella loro competenza e responsabilità prescrivono per la cura delle medesime patologie. 

8.3 – Quanto all’aspetto del mancato test, asseritamente imposto dalla sentenza della Corte di Giustizia, al fine di verificare se le eventuali informazioni diffuse dalle parti fossero o meno ingannevoli, giova ricordare che il principio di diritto affermato dalla Corte è il seguente: “costituisce una restrizione della concorrenza per oggetto, ai sensi di tale disposizione, l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche – la diffusione presso l’Agenzia europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli, sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale”. 

Nel corpo della motivazione, la sentenza della Corte di Giustizia, in via preliminare, dà atto che: a) “con decisione del 30 agosto 2012, la Commissione, ottenuto il parere favorevole dell’EMA, ha modificato il riassunto delle caratteristiche dell’Avastin, per citare alcuni effetti collaterali negativi connessi all’uso di tale medicinale per il trattamento di patologie oftalmiche non coperte dall’AIC di quest’ultimo”; b) “a seguito di tale modifica del riassunto delle caratteristiche dell’Avastin, il 18 ottobre 2012 l’AIFA ha ritirato dall’elenco dei medicinali rimborsabili l’Avastin utilizzato per indicazioni terapeutiche non coperte dalla rispettiva AIC”. 

La stessa Corte rileva, inoltre, che: “ancor prima di esaminare la rilevanza del carattere ingannevole delle informazioni trasmesse all’EMA e al pubblico ai fini della constatazione di una restrizione della concorrenza per oggetto, ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, gli obblighi di farmacovigilanza che possono comportare misure quali la diffusione presso gli operatori sanitari e il pubblico di informazioni sui rischi legati all’uso off-label di un medicinale, nonché l’avvio di un procedimento presso l’EMA al fine di includere tali informazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, incombono, come risulta dalle disposizioni menzionate ai punti da 82 a 87 della presente sentenza, al solo titolare dell’AIC del medicinale in questione e non ad un’altra impresa che commercializza un medicinale concorrente, coperto da un’AIC distinta. Pertanto, la circostanza che due imprese che commercializzano prodotti farmaceutici concorrenti si concertino ai fini della diffusione di informazioni specificamente riferite al prodotto commercializzato da una sola di esse può costituire un indizio del fatto che siffatta diffusione persegue obiettivi estranei alla farmacovigilanza”.  

Al punto 92 la Corte precisa che le informazioni devono considerarsi ingannevoli: “se – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – dette informazioni miravano, da un lato, a indurre l’EMA e la Commissione in errore e ad ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, per consentire al titolare dell’AIC di avviare una campagna di sensibilizzazione dei professionisti della sanità, dei pazienti e delle altre persone interessate, al fine di amplificare artificiosamente tale percezione e, dall’altro, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label dell’Avastin, tenuto conto, in particolare, del fatto che l’EMA e la Commissione non hanno modificato il riassunto delle caratteristiche di tale medicinale in termini di effetti indesiderati, ma si sono limitate a formulare avvertenze speciali e precauzioni d’impiego”.  

Da tali incisi pare di poter desumere che, secondo la stessa Corte di Giustizia, proprio in un contesto di incertezza scientifica, le imprese sono chiamate ad un indispensabile rigore informativo, non potendo esse enfatizzare come un fatto scientifico incontroverso talune risultanze che sono ancora oggetto di incertezza; le stesse devono, invece, riportare sempre in modo chiaro, preciso e completo lo stato complessivo delle conoscenze scientifiche in riferimento ad un determinato medicinale e la loro eventuale non univocità. E questo perché, come la Corte sottolinea, “tenuto conto delle caratteristiche del mercato del medicinale, è prevedibile che la divulgazione di simili informazioni (quando imprecise ed incomplete, in un contesto di incertezza scientifica) spinga i medici a rinunciare a prescrivere tale medicinale, determinando così l’auspicato calo della domanda per questo tipo di impiego”. 

Come anticipato, la sentenza di questo Consiglio non pare aver violato i principi espressi nella pronuncia della Corte di Giustizia, di cui, come già sottolineato, cita esplicitamente i passaggi rilevanti, dando poi conto dei riscontri oggettivi in forza dei quali è giunta alla conclusione della sussistenza di una condotta coordinata relativa alla diffusione delle informazioni fuorvianti relative al medicinale. 

Nel dettaglio, la sentenza impugnata precisa la peculiarità della prova della pratica concordata in ambito antitrust (punto 4.3); segue (punto 4.4) la citazione delle emergenze probatorie da cui emerge la campagna informativa concertata tra i due gruppi (essenzialmente le comunicazioni intercorse tra le parti e trascritte fedelmente, di cui nella motivazione della sentenza non definitiva si sono richiamate quelle principali), dalle quali giunge alla conclusione per cui: “le stesse hanno concordato le modalità con cui condizionare collusivamente le preferenze di consumo dei soggetti responsabili delle scelte terapeutiche inveratasi: nell’avvio nel giugno 2011 presso EMA della procedura per ottenere la modifica del RCP di Avastin (formalmente aperta da Roche, ma era in realtà condivisa e concordata con Novartis; nel reciproco aggiornamento in ordine agli interventi attesi da EMA; nella concertata circolazione di informazioni, mirate ai professionisti medici e alla stampa specializzata, volte ad aumentare l’incertezza intorno alla sicurezza di Avastin)”.  

Quindi, la sentenza prende in esame le spiegazioni alternative fornite dalle società: “a rendere inattendibile la spiegazione alternativa offerta dalle appellanti sta, in primo luogo, la considerazione (bene sottolineata dalla Corte di Giustizia, nella più volte richiamata sentenza 23 gennaio 2018, in C-179/16, punto 91) che gli obblighi di farmacovigilanza che possono comportare misure quali la diffusione presso gli operatori sanitari e il pubblico di informazioni sui rischi legati all’uso off-label di un medicinale, nonché l’avvio di un procedimento presso l’EMA al fine di includere tali informazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, incombono al solo titolare dell’AIC del medicinale in questione e non ad un’altra impresa che commercializza un medicinale concorrente, coperto da un’AIC distinta. La circostanza che due imprese titolari di prodotti farmaceutici concorrenti si concertino ai fini della diffusione di informazioni specificamente riferite al prodotto commercializzato da una sola di esse è indice del fatto che siffatta diffusione persegue obiettivi estranei, sia alla farmacovigilanza, sia alla preoccupazione di incorrere in una generica ipotesi di responsabilità da prodotto (essendo peraltro maggiormente plausibile il rischio professionale dei medici per la prescrizione di farmaci off-label)”. 

In aderenza al criterio individuato dalla Corte di Giustizia per verificare la “ingannevolezza” delle informazioni allo specifico fine di configurare l’illecito anticoncorrenziale – informazioni che, citando le stesse parole della Corte, dovevano essere idonee “a indurre l’EMA e la Commissione in errore e ad ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto” e ad “enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label dell’Avastin”- la sentenza (punto 4.7.) precisa che: “non occorreva, al fine di integrare l’illecito, la prova scientifica dell’equivalenza terapeutica dei due farmaci sotto ogni profilo in ambito oftalmico. Quanto all’incertezza scientifica degli effetti del medicinale cita in modo testualmente: i risultati scientifici di studi comparativi indipendenti; la scarsità dei dati sugli eventi avversi derivanti dell’uso off-label di Avastin; la decisione di Ema di respingere la richiesta di Roche di modificare la sezione 4.8 (effetti indesiderati) del RCP di Avastin, e la modifica solo della diversa sezione 4.4 (avvertenze e precauzioni d’uso) del RCP, per segnalare la specificità delle applicazioni a mezzo d’iniezione intravitreale, cui conseguono rischi di possibili infezioni; il comitato scientifico di EMA, più in dettaglio, aveva espressamente considerato nel suo Avastin Report che «non ci sono evidenze che bevacizumab sia sistematicamente più insicuro di ranibizumab e viceversa», e, nel Lucentis Report, che i dati analizzati «erano insufficienti a giustificare un’avvertenza differente che dia l’impressione che Lucentis sia più sicuro rispetto ad altri trattamenti anti-VEGF sotto il profilo degli eventi avversi sistemici»; il comitato di esperti responsabile della decisione di inserimento di bevacizumab nella Model List of Essential Medicines (“WHO EM-List”) aveva espresso la necessità di adottare precauzioni (non per l’uso del farmaco in sé, bensì) per la sua somministrazione con iniezione intravitreale, in linea con quanto già emerso nel corso del procedimento, secondo cui «gli eventi avversi a livello locale (cioè non sistemico) che sono stati portati all’attenzione delle varie agenzie del farmaco sono figli dell’iniezione, non del prodotto iniettato”.  

Alla luce di tali elementi, giunge quindi alla conclusione, avuto riguardo alla concertata campagna informativa posta in essere dalle parti ed agli intenti dalle stesse perseguiti (vedasi la corrispondenza citata al punto 4.4 della sentenza) che: “non era comunque consentito a due imprese concorrenti di concertare una campagna informativa volta a «manipolare» la percezione dei rischi dell’uso di un farmaco, al fine di condizionarne la domanda”. 

In definitiva, la sentenza impugnata non pare aver violato i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia, avendo: a) esaminato le iniziative informative poste in essere in attuazione dell’intesa, ovvero l’avvio della procedura EMA volta alla variazione del RCP di Avastin (punto. 4.5 sub. lett. a, c, d) e la diffusione di informazioni mirate volte ad aumentare la preoccupazione sulla pericolosità di Avastin (punto 4.5 della sentenza, nonché punto 4.4 che esamina la documentazione attestante diverse iniziative di questo genere); b) ritenuto che alla base della strategia informativa dei gruppi farmaceutici non risiedeva alcuna genuina preoccupazione per la salute dei pazienti, ma solo il timore, espressamente condiviso tra le due imprese, che gli impieghi di Avastin erodessero quelli di Lucentis, dalla vendita del quale le due imprese traevano i maggiori profitti (punto 4.4. lett. b della sentenza); c) valutato che esse risultavano ingannevoli nonostante l’equivalenza dei due prodotti fosse un profilo ancora incerto (punto 4.7 della sentenza), poiché le iniziative poste in essere dai due gruppi non puntavano a fornire un’informazione completa e puntuale sulla sicurezza di Avastin, ma ad inserire nel RCP di Avastin conclusioni tutt’altro che pacifiche e ad “aumentare l’incertezza”; d) valutato il carattere di ingannevolezza delle informazioni diffuse anche attraverso il richiamo alla “decisione di Ema di respingere la richiesta di Roche di modificare la sezione 4.8 (effetti indesiderati) del RCP di Avastin”, ricordando anche che “il comitato scientifico di EMA, più in dettaglio, aveva espressamente considerato nel suo Avastin Report che «non ci sono evidenze che bevacizumab sia sistematicamente più insicuro di ranibizumab e viceversa»”(sez. 4.7 della sentenza). 

Alla luce delle considerazioni che precedono, dovendosi escludere la sussistenza di una violazione, sia dal punto di vista della sua configurazione astratta che da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia del 23 gennaio 2018, è opinione del Collegio che non sussista il requisito della rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dalle parti; tuttavia, la Sezione si pone l’interrogativo se debba essere il Giudice nazionale a sindacare la sussistenza di una violazione del diritto dell’Unione Europea, piuttosto che la Corte di Giustizia, che ai sensi dell’art. 267 TFUE“è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale:b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, tra cui ben può farsi rientrare anche una pronuncia della stessa Corte di Giustizia.  

Come già rilevato, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che quest’ultima non è competente a decidere lo specifico caso e spetta unicamente al giudice nazionale esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché determinare l’esatta portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative applicabili (cfr. sentenza 3 ottobre 2019 C-632/18; 13 aprile 2010, Bressol e a., C73/08; 21 giugno 2017, W e a., C621/15); esula delle competenze della Corte la verifica e la valutazione delle circostanze di fatto relative al procedimento principale, spetta invece al giudice nazionale effettuare “una valutazione globale di tutti gli elementi relativi a detto procedimento” (sentenza 6 settembre 2012, C – 273/11).  

A differenza dei precedenti citati, deve rimarcarsi che, nel peculiare caso in esame, la domanda di parte ricorrente - nella parte in cui punta all’annullamento della sentenza impugnata - ha ad oggetto la dedotta violazione da parte di quest’ultima dei principi dettati dalla Corte di Giustizia nell’ambito del giudizio principale all’interno del quale la stessa era stata adita. In altre parole, la domanda proposta dalla società, nella sua fase rescindente, si fonda soltanto, e necessariamente, sulla supposta violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella precedente fase processuale, sicché anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia.  

Allo stato, non vi è alcuna giuridica certezza che la sentenza impugnata abbia violato il diritto comunitario, e segnatamente i principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia, e la questione sottesa al giudizio attiene proprio alla sussistenza di tale violazione, ponendosi, pertanto, a monte di tale questione, l’ulteriore interrogativo su quale debba essere l’organo giurisdizionale deputato ad effettuare tale verifica.  

Seppure debba ritenersi che il rapporto fra il giudice nazionale e la Corte di Giustizia non sia di alternatività, ma di complementarietà, nel senso che il giudice nazionale è egli stesso giudice europeo ed interprete del diritto dell’Unione Europea (indicandosi tale ruolo spesso con la dizione di giudice comunitario di diritto comune, cfr., Concl. Avv. Gen. Leger, nella causa Kobler (C-224/01); Concl. Avv. Gen. Saggio nelle Cause riunite da C-240/98 a C-244/98), nel peculiare caso in esame appare ragionevole domandarsi se tale sindacato – in un giudizio volto ad accertare la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nei termini innanzi precisati – debba essere svolto dal Giudice nazionale, potendosi invece prospettare – quale precipitato del dovere di cooperazione al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri – che ad esso debba essere deputata la stessa Corte di Giustizia, quale organo che ha dettato la specifica regola di giudizio che doveva applicare il giudice nazionale e di cui la parte lamenta la violazione; ciò in conformità anche al citato art. 267 che demanda alla Corte di Giustizia la competenza a pronunciarsi sulla portata degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, tra cui rientra indubbiamente la Corte di Giustizia.


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

GIUSTIZIA amministrativa, REVOCAZIONE

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri