Valutazioni del prefetto sottese all’informativa antimafia

Valutazioni del prefetto sottese all’informativa antimafia


Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.

               In sede di emanazione dell’informativa antimafia l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica della prevenzione, richiedono alla Prefettura  un’attenta valutazione dei diversi elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo, nel sindacato sulla motivazione, un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale (1).

 

(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (codice antimafia) riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».

Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.

Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento.

Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi.

Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della Pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può» – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

La formulazione della fattispecie normativa a struttura aperta, propria dell’informazione interdittiva antimafia, consente all’autorità amministrativa e, ove insorga contestazione in sede giurisdizionale, al giudice amministrativo di apprezzare, in sede di sindacato sull’eccesso di potere, tutta una serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente, elementi che sfuggirebbero, invece, ad una rigorosa, tassativa, asfissiante tipizzazione di tipo casistico, che elenchi un numerus clausus di situazioni “sintomatiche”.

Una simile tecnica legislativa, ove pure sia auspicabile, in abstracto, sul piano della certezza del diritto e della prevedibilità delle condotte anche in materia di prevenzione antimafia, frustrerebbe nel suo «fattore di rigidità», per usare un’espressione dottrinaria, la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale deve affidarsi anche, e necessariamente, a “clausole generali”, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali.

Ha aggiunto la Sezione che la legislazione antimafia può e deve prevenire anche l’insidia della contiguità compiacente accanto a quella c.d. soggiacente e, con essa, le condotte, ambigue, di quegli operatori economici che, pur estranei ad associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, se è vero che simili condotte non solo sono un pericolo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel «fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona» (v., per tutte, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato in radice dalla mafia, che ne fa invece un valore negoziabile nel “patto di affari” stipulato con l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse economico, a danno dello Stato.

E tuttavia questo patto, come si è accennato, a discapito del nome è pur sempre una forma di condizionamento, diretto o indiretto a seconda dei casi, esercitato dalla mafia per asservire uomini e mezzi ai suoi fini illeciti e, quindi, una minaccia per la dignità di quegli imprenditori che questo patto stipulano, nell’illusoria prospettiva di un affare, anzitutto contro di sé.

Chi contratta e collabora con la mafia infatti, per convenienza o connivenza, non è mai soggetto, ma solo oggetto di contrattazione.

Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia, esso davvero riposa nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale – e non a caso – opera come limite all’attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma secondo, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o – secondo un climax assiologico di tipo ascendente – in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

E non vi è dubbio che qualsiasi forma di contiguità imprenditoriale alla mafia, sia essa soggiacente o, ancor peggio, compiacente, sia un attentato alla libertà dell’impresa, di ogni impresa che voglia regolarmente operare sul mercato, e alla dignità della persona umana, asservita per ragioni economiche a fini di associazioni pericolosamente operanti in radicale antitesi rispetto allo Stato.

I fenomeni criminali di cui sono espressione le organizzazioni e le attività mafiose, in effetti, hanno progressivamente assunto, nel corso dei decenni, carattere sempre più “asimmetrico”, nel senso che metodi e obiettivi hanno sempre più accentuato i caratteri della adattabilità alle circostanze più favorevoli al profitto ingente e facile, della imprevedibilità di strategie grazie alla estrema flessibilità nel mutamento di operazioni, alleanze e strategie e della graduale, ma costante penetrazione, con una serie di atti apparentemente non eccezionali o eclatanti, nei più diversi contesti della economia legale, e con una proiezione ormai anche internazionale.

Ciò permette alle mafie, rispetto alle tragiche stagioni di sangue degli attacchi frontali allo Stato, di occupare nella quotidianità settori che soltanto con la capillare attività di monitoraggio territoriale riescono ad emergere, grazie agli strumenti che il codice antimafia offre alla Prefettura.

Ecco perché una minaccia asimmetrica, quale quella mafiosa, richiede una “frontiera avanzata” della prevenzione con strumenti che debbono armonizzarsi, adattarsi, modificarsi di contesto in contesto (anche in relazione a storie, tradizioni e metodi di ciascun territorio contaminato) e di settore in settore economico, per affermare sempre il “potere della legge” verso il contropotere perseguito dalle mafie.

Mai detto obiettivo, che risponde a un valore, come detto, supremo nella scala dei valori costituzionali, potrebbe essere irrigidito e imbrigliato entro una casistica fissa e immutabile senza offrire alle associazioni mafiose un comodo appiglio formale, di cui difficile sarebbe il superamento senza un continuo intervento legislativo di aggiornamento che “rincorra” affannosamente, e tardivamente, le nuove strategie mafiose.

Ha ancora chiarito la Sezione di non ignorare per altro verso, nell’ottica di questo equilibrato bilanciamento, gli effetti davvero incisivi, inibitori e finanche paralizzanti per l’attività di impresa, conseguenti all’adozione dell’informazione antimafia, da taluno assimilata o comparata addirittura ad una sorta di “ergastolo imprenditoriale”.

Voci fortemente critiche si sono levate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’«onda lunga» di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia “generica”, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.

Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.

L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) del codice antimafia – ma ragionamento analogo deve svolgersi per la seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si riferisce a non meglio precisati «concreti elementi» – non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.

Ritiene il Collegio che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.

Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, del d. lgs. n. 159 del 2011, «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.

Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia, sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che «mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica» (§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (§ 108).

La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” – v. supra § 8.8. – dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini.

E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.

Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legalità sostanziale.

Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale «poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 1° marzo 2018, dep. 9 luglio 2018, n. 30974).

La giurisprudenza di questo Consiglio ha così enucleato le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli.


Anno di pubblicazione:

2019

Materia:

MISURE di prevenzione, INTERDITTIVA e informativa antimafia

MISURE di prevenzione

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri