Spettano i benefici alla fioraia cittadina italiana di origine ebraica che ha subito persecuzioni prima del 25 aprile 1945

Spettano i benefici alla fioraia cittadina italiana di origine ebraica che ha subito persecuzioni prima del 25 aprile 1945


Discriminazioni – Persecuzione razziale -  Benefici ex art. 5, l. n. 96 del 1955 - Fioraia cittadina italiana appartenente a razza ebrea - Titolare di licenza ambulante – Interruzione attività a seguito di circolare che vieta il commercio ai cittadini di razza ebraica – Spettano. 

   
       I benefici previsti dall’art. 5, l. n. 96 del 1955, come modificato dall’art. 2, l. n. 932 del 1980, devono essere riconosciuti ad una fioraia (e, quindi, alla sua erede) cittadina italiana appartenente a razza ebrea, titolare di licenza ambulante, costretta ad interrompere la propria attività lavorativa a seguito dell'emanazione di una circolare del Ministero dell'interno, pubblicata dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali del 1938, recante il divieto di rilascio della licenza ordinaria di commercio nonché il divieto di commercio ai cittadini di razza ebraica (1). 

 

(1) In punto di fatto, va rilevato che l’appello è stato proposto dall’erede di madre perseguitata per motivi di razza durante il regime fascista, che aveva presentato in data 18 aprile 2013 la domanda per ottenere i benefici previsti dall’art. 5, l. n. 96 del 1955, come modificato dall’art. 2, l. n. 932 del 1980, sulla posizione della madre, fioraia cittadina italiana di origine ebraica.  

Più in particolare, l’istante ha chiesto che alla madre venisse riconosciuta la contribuzione figurativa a carico dello Stato italiano per il periodo non coperto dal versamento dei contributi volontari, per potere così beneficiare dell’intero trattamento pensionistico spettante. La richiedente ha specificato che il mancato versamento dei contributi volontari da parte della madre è dipeso dal fatto che la stessa era stata impedita nello svolgimento della propria attività lavorativa, perché vittima di persecuzione razziale (la madre era di razza ebrea e aveva un piccolo banco di fiori ambulante, la cui attività è poi cessata). 

La Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali, istituita presso la Presidenza del Consiglio, ha denegato il beneficio, poiché: a) la chiusura dell’attività commerciale di fioraia gestita dalla madre dell’appellante non sarebbe ascrivibile a provvedimenti delle autorità fasciste, ma sarebbe connessa alla partenza del coniuge di religione non ebraica per la guerra e sarebbe dipesa, in definitiva, da una ‘scelta volontaria’ della donna; b) l’essersi rifugiata, la madre, dopo l’8 settembre 1943, presso parenti cattolici del marito non integrerebbe “gli estremi dell’atto persecutorio perché la medesima venne ospitata nell’ambito del nucleo familiare legato da vincoli di affinità e non di estranei”; c) al momento degli eventi narrati, una delle testimoni, nata nel 1940, aveva un’età tale da non poterne avere piena consapevolezza e conoscenza e, peraltro, “dalla documentazione acquisita agli atti risulta che la suddetta testimone nel periodo 1943/1944 non poteva essere presente ai fatti perché era rifugiata con la madre a Roiate, vicino ad Olevano Romano dove era stata accompagnata dall'altra attestante”. 

 

Passando al merito, la Sezione ha ricordato che la l. 10 marzo 1955, n. 96, reca la disciplina delle “Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti”.
Tra le prestazioni considerate, è previsto il riconoscimento dei contributi figurativi ai sensi dell’art. 5, come sostituito dall'art. 2, l. 22 dicembre 1980, n. 932.
Presupposti per potere richiedere il beneficio sono: a) l’essere cittadino italiano; b) il vantare una posizione nell’assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti ovvero nelle forme di previdenza sostitutive, esonerative ed esclusive della medesima; c) l’avere subito un atto persecutorio nelle circostanze di cui all'art. 1 della medesima legge e fino al 25 aprile 1945.
Nel caso all’esame della Sezione, ad avviso della Commissione delle provvidenze mancherebbe il requisito dell’”avere subito un atto persecutorio” in quanto la madre della istante non sarebbe stata destinataria di un atto persecutorio nelle circostanze previste dall'art. 1 della medesima legge e fino al 25 aprile 1945. 

 

La Sezione ha affermato di condividere l’impostazione sistematica generale che è alla base del risalente (e mai superato) pronunciamento giurisdizionale rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti n. 9/QM/1998. Secondo questa pronuncia, gli “atti di violenza” cui fa riferimento l’art. 1 lett. c) (specificamente richiamato dall’art. 5, l. n. 96 del 1955) “devono, dunque, essere identificati in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto alla persona, in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti. Accanto alla violenza fisica, dunque, quale presupposto e fondamento degli assegni di cui trattasi, si affianca la violenza cosiddetta morale, ogniqualvolta essa si estrinsechi e si concreti in azioni lesive del diritto alla persona. Rafforza l’accennato coinvolgimento anche la lettera della norma che, nell’uso del plurale («atti di violenza»), non vuole, evidentemente, subordinare la concessione degli assegni di benemerenza al reiterarsi della violenza … ma vuole rapportare le provvidenze in parola ad una più vasta tipologia di azioni violente, tipologia che spazia, appunto, dalla violenza fisica a quella cosiddetta morale ... la lesione del diritto della persona non è sufficiente per far sorgere, in capo al soggetto leso, il diritto ad uno degli assegni di cui trattasi. Occorre, innanzitutto, che gli atti di violenza muovano da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso, con l’avvertenza che la motivazione razziale può presumersi ove la violenza – con le connotazioni precisate e nel concorso delle altre condizioni di legge - abbia colpito un soggetto appartenente alla comunità discriminata”. 
Ad avviso della Sezione tale conclusione è condivisibile sul piano sistematico, dovendo tenere conto della ratio legis delle disposizioni richiamate, e cioè quella di apprestare misure riparatorie e indennitarie in favore dei soggetti che, in vario modo e a vario titolo, hanno subito pregiudizi dalle leggi e dai provvedimenti emanati durante il regime fascista e nel corso delle vicende belliche;
Sul piano semantico, ppi, i concetti giuridici di ‘violenza’, ‘sevizia’ e ‘atto persecutorio’ devono essere ricostruiti sulla base della specifica norma di settore considerata. 
Da un punto di vista metodologico, ad avviso della Sezione, non occorre fare riferimento, se non nei limiti della stretta compatibilità, al concetto di ‘violenza’ rilevante per le altre branche del diritto in cui si articola l'ordinamento (ad es., il diritto civile o il diritto penale), perché la diversità delle finalità giuridiche perseguite dal legislatore e la specificità dei fatti storici accaduti condiziona e qualifica, sul piano contenutistico, la natura giuridica delle provvidenze erogate dallo Stato. 

La Sezione ha aggiunto che le fattispecie di violenza cui si riferisce la norma sono tutte adeguatamente circostanziate.  

Più nel dettaglio, le lett. a), b), d) ed e) elencano una serie di fatti determinati che non abbisognano di particolare specificazione, quali la detenzione in carcere, i ripetuti fermi di polizia, l'assegnazione al confino, etc.  

La lett. c) rappresenta, invece, una norma di chiusura e di salvaguardia, perché dà rilievo alle violenze, alle sevizie e alle persecuzioni che, sebbene non si siano tradotte in fatti tipici di detenzione, di fermi di polizia e di confinamenti, si sono comunque tradotte in fatti di coartazione oggettivamente rilevanti e positivamente apprezzabili. Inoltre, sul piano soggettivo, la disposizione introduce un elemento ‘qualificatorio’ particolarmente rilevante, poiché la violenza o l’intimidazione debbono provenire da persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista.
Infine, sul piano teleologico, va preferita una lettura delle norme in senso conforme ai principi e ai valori espressi dalla Costituzione Repubblicana. Ne consegue che la connotazione violenta delle azioni poste in essere dai soggetti individuati dalla norma va ravvisata non soltanto nelle modalità della condotta (che può assumere le più svariate colorazioni, dalla mera coercizione alla brutalità e per finire alla crudeltà), ma anche nella attitudine a ledere i diritti fondamentali e inviolabili della persona. 
In altre parole, la violenza non deve necessariamente consistere nell'estrinsecazione della forza fisica o materiale idonea a cagionare pregiudizi fisici (qual è la sevizia, ad esempio), ben potendo consistere in ogni forma di costrizione o di condizionamento, anche morale, ovvero di intimidazione, idonea a impedire o restringere la libera esplicazione della personalità dell’individuo come singolo o all’interno delle formazioni sociali, compreso il libero svolgimento dell’attività lavorativa (v. ancora in argomento le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, sentenza n. 9/QM/1998, secondo cui “l’intento risarcitorio della normativa in esame coinvolge il valore della persona nella sua unitarietà ed in tutte le sue molteplici proiezioni”. Limitare la funzione solidaristica e risarcitoria ai soli fatti lesivi dell'integrità fisica, significherebbe arbitrariamente isolare, nell'ambito del diritto della persona, un solo valore; trascurando tutti gli altri valori — quali la dignità, l'onore, l'identità etc. — che col primo formano un quadro armonico e inscindibile e che danno contenuto e sostanza all'unitario diritto della personalità, di estensione e valenza generali, quale è ormai da tempo configurato dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza (ad es. Cass. civ., sez. I, 20 aprile 1963 n. 990)”.
Va considerato, inoltre, che gli atti di violenza muovono da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso. 
​​​​​​​Infine, è specificamente circoscritto l’orizzonte temporale all’interno dei quale le condotte descritte devono essere state commesse, e cioè “a partire dal primo atto persecutorio subito nelle circostanze di cui all'articolo 1 della presente legge e fino al 25 aprile 1945”.  

  

Quanto, nello specifico, giova premettere che lo Stato italiano, attraverso atti amministrativi, ha introdotto il divieto agli ebrei di svolgere attività di commercio ambulante, sia vietando il rilascio di nuove concessioni, sia facendo venire meno o non riconoscendo gli effetti dei titoli già rilasciati (circolare del Ministero delle Corporazioni datata 11 novembre 1938, n. 23774, recante il divieto di rilascio della licenza ordinaria di commercio ai cittadini di razza ebraica; la circolare del Ministero degli Interni del 30 luglio 1940, n. 52299, recante analogo divieto). 

Unica forma di deroga ammessa era stabilita in favore del cittadino italiano ariano titolare esclusivo della licenza. Questa fattispecie non si è verificata nella specie e non si sarebbe potuta verificare per la madre della appellante, perché la stessa era ebrea e la deroga era comunque posta in favore del solo marito ariano coniugato con moglie ebrea, e non anche il contrario.  

Alla madre della appellante, in altri termini, indipendentemente dalla contestata volontarietà (o meno) della decisione di continuare o di cessare la vendita di fiori, non avrebbe giovato nemmeno il fatto di essere coniugata con un ariano, poiché la deroga presupponeva la titolarità esclusiva della licenza in capo al marito italiano non ebreo.   

Pertanto, nel caso di specie, non ha senso logico, prima ancora che giuridico, affermare (come invece ha argomentato la Commissione delle provvidenze) che la cessazione dell’attività di vendita dei fiori sia dipesa da una autonoma e libera scelta ‘commerciale’ della donna perché suo marito era partito al fronte. In questa prospettiva, la partenza del marito al fronte costituisce un elemento ‘neutro’, tutt’al più valutabile in senso favorevole alla madre della richiedente, e non – all’opposto – in senso a lei sfavorevole. Tale partenza, infatti, può soltanto avere maggiormente acuito la condizione di miseria, di abbandono e di persecuzione sofferta dalla donna, perché ebrea, non più abilitata a svolgere attività di commercio ambulante, ormai inibita da atti di autorità statali; perché rimasta sola, senza mezzi per vivere e con una figlia di circa un anno a proprio integrale carico.  

Pertanto – si deve concludere – è fuor di dubbio che la madre della richiedente abbia subito un atto di violenza di natura persecutoria determinato da motivi di odio per l’appartenenza alla razza ebrea, proveniente dall’apparato statale (il divieto è stato pacificamente introdotto con circolare ministeriale) e avente forza cogente, a cui la donna non avrebbe potuto opporsi o sottrarsi in alcun modo, benché meno giuridicamente, atteso che quella era la legge vigente all’epoca e quello era il sistema nel quale non si dubitava che le circolari dovessero trovare applicazione. 

Le circolari ministeriali in argomento, che riguardavano i mestieri del commercio, rispecchiavano pienamente la visione del regime fascista ed erano emanate sulla base di considerazioni discriminatorie e basate sull’odio razziale, che avevano costituito la comune ‘base giuridica’ per la promulgazione anche della legislazione antiebraica sulle professioni del commercio.  


Anno di pubblicazione:

2021

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri