Legittimazione di terre di uso civico di proprietà di comuni, frazioni ed associazioni agrarie

Legittimazione di terre di uso civico di proprietà di comuni, frazioni ed associazioni agrarie


Usi civici – Legittimazione terre di uso civico – Art. 9, comma 1, l. n. 1766 del 1927 – Ratio. 

        L’art. 9 comma 1 l. 16 giugno 1927 n. 1766 - nel consentire la legittimazione di terre di uso civico di proprietà di comuni, frazioni ed associazioni agrarie, in favore di chi abbia occupato il fondo da almeno dieci anni e vi abbia apportato sostanziali e permanenti migliorie - non ha inteso introdurre un istituto che consentisse l’acquisto, in ogni tempo, sia pure per mezzo di atto dell’autorità amministrativa, del diritto di proprietà esclusiva di un fondo già destinato ad uso civico, bensì soltanto ha voluto legittimare le usurpazioni di terre di proprietà pubblica avvenute nel passato in considerazione del già avvenuto conseguimento degli obiettivi finali della legge stessa.» 

 (1) Ha ricordato il parere che gli usi civici sono diritti reali millenari di natura collettiva, volti ad assicurare un’utilità ai singoli appartenenti ad una collettività, disciplinanti, in linea generale, dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, mantenuta in vigore dall’allegato n. 1 dell’art. 1 del d.lgs. 1 dicembre 2009 n. 179, limitatamente agli articoli da 1 a 34 e da 36 a 43, nonché dal relativo regolamento contenuto nel regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332. 

La richiesta di legittimazione di terreni gravati da usi civici postula la disamina di questo singolare tipo di diritto risalente a epoca anteriore all’Unità d’Italia, attraverso un breve excursus sulla sua evoluzione, onde comprenderne meglio la natura e individuare la soluzione da applicare al caso in esame. 

Con la legge 16 giugno 1927, n.1766, sul «riordinamento degli usi civici nel Regno», il legislatore aveva inteso disciplinare la liquidazione degli usi civici e la conservazione dei beni di proprietà civica sottratti alla liquidazione. 

Il regime delineato dalla legge n. 1766 del 1927 prevede all’art. 1 che la proprietà del demanio civico appartiene «agli abitanti di un Comune, o di una frazione di Comune». 

La legge del 1927, per garantire la destinazione funzionale dei beni a favore della collettività e il loro utilizzo che ne assicuri la conservazione, ha previsto che l’amministrazione di tale proprietà dovesse spettare all’ente esponenziale della comunità. 

Gli usi civici sono, pertanto, astrattamente riconducibili all’interno della proprietà privata, seppur comune e caratterizzata da particolari vincoli di destinazione e di indisponibilità. 

Nonostante, dunque, i comproprietari siano soggetti privati, giova, subito, evidenziare che gli usi civici sono connotati dalla legge sul riordinamento del 1927 di una rilevante dimensione pubblicistica, tant’è che per la loro tutela sono previste regole speciali, sia con riferimento alla gestione che per l’eventuale disposizione dei beni che ne costituiscono oggetto, tanto da poter essere assimilati ai beni demaniali. 

Al riguardo in giurisprudenza si è affermato che «[i] beni gravati da usi civici debbono essere assimilati ai beni demaniali e la particolarità del regime a cui sono sottoposti i beni in esame determina che, al di fuori dei procedimenti di liquidazione dell'uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza del pubblico interesse che ha impresso al bene immobile il vincolo dell'uso civico ne vieta ogni circolazione.» (Tar Lazio, sez. II, 11 luglio 2018, n. 7740).  

Per la dottrina gli usi civici sono assimilabili ad una proprietà privata comune, caratterizzata da particolari vincoli di destinazione e di indisponibilità, i cui comproprietari sono soggetti privati e la cui rappresentanza è affidata ex lege al comune ovvero ad un diverso ente di gestione. 

Secondo la Corte di Cassazione gli usi civici sono espressione della proprietà in senso collettivo, non conosciuta dal legislatore del codice civile, ma che ha trovato una sua specifica disciplina nella legge n. 1766/1927 e nel relativo regolamento, nonché nella più recente legge n. 97 del 1994 (Nuove disposizioni per le zone montane). 

In particolare, la Suprema Corte afferma che «tali “usi” presentano la caratteristica della non appartenenza, a titolo di proprietà individuale, a persone fisiche od enti in quanto spettanti ad una comunità di abitanti che ne godono collettivamente. La finalità che il legislatore ha perseguito con detti usi è quella della liquidazione, in realtà non raggiunta, perché negli anni è andato sempre più emergendo il collegamento funzionale tra disciplina degli usi pubblici e la tutela dell’ambiente (sul punto, le sentenze della Corte Costituzionale n. 46/95, 345/97 e 310/2006)» (Cass., sez. un., 18 febbraio 2011, n. 3939). 

6.2.4. All’interesse al proficuo utilizzo del bene, in termini sia conservativi sia eventualmente dispositivi, si è aggiunta nel tempo una nuova e diversa prospettiva, alla stregua della quale emerge sempre di più la rilevanza pubblica dell’interesse pubblico alla conservazione seppur sotto un ulteriore aspetto. 

Gli usi civici hanno assunto, progressivamente, rilevanza sotto i profili paesaggistico-ambientale e di assetto territoriale. 

La rilevanza ambientale e paesaggistica delle proprietà collettive, infatti, è stata espressamente riconosciuta a partire dalla legge n. 431 del 1985, che all’art. 1 ha sottoposto a vincolo paesistico «le zone gravate da usi civici.». 

Il vincolo paesaggistico è stato, poi, ribadito dal d.lgs. n. 490 del 1999, ed è oggi confermato dall’art. 142, lett. h), del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, il quale stabilisce che «[s]ono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo: h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;». 

 

Ha aggiunto il parere che l’inserimento degli usi civici all’interno dei beni paesaggistico-ambientali, beni che godono di investitura e protezione a livello costituzionale, ha segnato la transizione da una tutela del bene legata al collegamento con la comunità d’origine ad una salvaguardia indifferenziata dello stesso, percepito nella sua dimensione collettiva indivisibile e in quanto tale appartenente potenzialmente all’intera collettività di cittadini: questa è ormai percepita come la potenziale fruitrice dell’area soggetta ad uso civico, intesa quale bene ambientale tutelato di per sé (Tar  Salerno, sez. I, 6 febbraio 2012, n. 174).

 

Il legislatore del 1927 all’art. 11 ha previsto che i terreni sui quali si esercitano usi civici «saranno distinti in due categorie: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria.». 

A questa distinzione ha fatto seguire un differente regime di circolazione: i terreni utilizzabili come bosco o pascolo sono inalienabili e nessun mutamento di destinazione è possibile senza la preventiva autorizzazione «del Ministero dell’economia nazionale», mentre i terreni utilizzabili per coltivazione agraria sono destinati ad essere ripartiti tramite assegnazione. 

Nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici l’art. 12, comma 2, della legge n. 1766/1927, ha sancito, in via generale e per quanto in particolare in questa sede interessa, l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione dei terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente. 

Le limitate deroghe previste dal legislatore alla inalienabilità e al cambio di destinazione, previa acquisizione dell’autorizzazione ministeriale, comportando necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico ed implicazioni sull’ambiente naturale o tradizionale per la collettività a cui appartengono, hanno, secondo il Collegio, carattere tipicamente eccezionale, sicché non possono né devono risolversi nella perdita dei benefici, anche solo di carattere ambientale per la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio dei privati. 

L’istituto della legittimazione delle occupazioni ex art. 9 legge n. 1766/1927, come nel caso che ne occupa, va collocato all’interno del quadro sopra delineato. 

Ha ancora chiarito il parere che il regime giuridico dei beni di uso civico può essere assimilato a quello dei beni demaniali, ed ancora, che la legittimazione dell’avvenuta occupazione di terre di demanio civico può essere equiparata ad una concessione amministrativa rimessa all’ampio potere discrezionale dell’autorità, la quale deve tenere in considerazione preminente gli interessi pubblici sottesi. 

 

on riferimento alle tre condizioni previste dall’art. 9 della legge n. 1766/1927 per la legittimazione dei terreni occupati, per quanto in particolare attiene alle «sostanziali e permanenti migliorie», il Collegio condivide il risalente orientamento giurisprudenziale, coerente con la superiore ricostruzione, secondo il quale «le “sostanziali e permanenti migliorie”, previste da quella disposizione come presupposto necessario della legittimazione dell’occupazione di terreni gravati da uso civico, devono consistere in opere finalizzate alla coltivazione o comunque allo sfruttamento agricolo o zootecnico del suolo ed a soddisfare l’interesse agrario della collettività in tale misura da non richiedere il ricorso alla reintegra» (Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 1998, n. 137). 

In altri termini, le opere di miglioramento che possono fondare la domanda di legittimazione non possono consistere in mere migliorie del terreno, ma devono essere tali da garantire le migliori modalità di sfruttamento del bene e di soddisfazione dell’interesse pubblico, essendo questa l’unico possibile ed utile contraccambio rispetto alla perdita del bene da parte della collettività locale. 

Ancora, l’art. 9, comma 1, della legge 16 giugno 1927 n. 1766 prevede: «[q]ualora sulle terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni ed alle associazioni o ad esse pervenute per effetto della liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, siano avvenute occupazioni, queste, su domanda degli occupatori, potranno essere legittimate …». 

Il presupposto della domanda di legittimazione è, dunque, l’avvenuta occupazione. Chiarisce il significato dell’espressione «sulle terre di uso civico … siano avvenute occupazioni», il regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, contenuto nel regio decreto 26 febbraio 1928, n.332, all’art. 25 ove si legge: «[s]ono soggette all’applicazione degli articoli 9 e 10 della legge le terre di origine comune o provenienti da affrancazione di uso civico da chiunque possedute per le quali manchi il titolo, ovvero esso non sia riconosciuto valido a norma delle leggi vigenti in ciascuna regione all’epoca della concessione.». 

Secondo il tenore letterale della disciplina, presupposto soggettivo per avanzare domanda di legittimazione ex art. 9, comma 1, legge n. 1766/1927 è, pertanto, l’occupazione sine titulo


Anno di pubblicazione:

2022

Materia:

USI civici e domini collettivi

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri