Effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 sulla Robin Hood Tax

Effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 sulla Robin Hood Tax


Imposte e tasse – Imposta sul reddito delle società (Ires) - Art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008 – Addizionale – Applicata agli operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente – Violazione artt. 3 e 53 Cost. - Declaratoria di incostituzionalità con sentenza n. 10 del 2015 - Effetti  dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015. 

 

        Ha effetti dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015), e dunque a partire dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015, la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133 (che ha imposto un prelievo fiscale ulteriore, nell’ambito dell’imposta sul reddito delle società - IRES, qualificato come addizionale, cd. “Robin Hood Tax”, pari al 5,5% da applicarsi ad alcuni operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente) per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. per vizio di irragionevolezza, in relazione all’incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi; pertanto, diversamente da quello che accade ordinariamente a seguito di una pronuncia d’incostituzionalità, la cessazione di efficacia della disposizione fiscale ha operato ex nunc, continuando perciò il tributo ad applicarsi se “sorto in relazione a presupposti avvenuti durante il suo vigore” (1). 

 

(1) Ha ricordato la Sezione che con la sentenza n. 10 del 2015 la Corte costituzionale ‒ chiamata a pronunciarsi in ordine all’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133, in relazione a svariati parametri ‒ ha valutato come infondate le questioni sollevate in relazione agli artt. 77, secondo comma, e 23 Cost., incentrate, rispettivamente, sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge in assenza dei motivi di necessità e urgenza e sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, pervenendo invece al giudizio d’incostituzionalità della normativa impugnata per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.; le ragioni dell’incostituzionalità sono state individuate in un «vizio di irragionevolezza», in relazione all’«incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito». 

Il fine era quello di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi per varie ragioni, sia per le caratteristiche strutturali del mercato (in ragione del suo carattere oligopolistico e della natura inelastica della domanda), sia perché tra il 2007 e il 2008 gli operatori della filiera avevano registrato profitti record, grazie al rapidissimo aumento del prezzo del greggio. 

Sennonché, secondo la Corte, tale giustificazione del prelievo aggiuntivo– colpire i “sovra­profitti” conseguiti da una particolare categoria di soggetti in una particolare congiuntura economica – avrebbe dovuto tradursi nella previsione di un’imposta la cui struttura fosse coerente con quell’intento. 

Sintomi della non congruenza del mezzo rispetto allo scopo sono stati invece individuati: nella base imponibile, costituita dall’intero reddito anziché dai soli “sovra­profitti”; nella durata permanente, anziché contingente, dell’addizionale, «che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione»; nell’inidoneità a conseguire le dichiarate finalità solidaristiche e redistributive derivante dall’«obiettiva difficoltà di isolare […] la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta» (testimoniata dalle affermazioni della stessa Autorità garante in sede di Relazione al Parlamento) e quindi di sanzionare coloro che avessero scaricato l’onere impositivo sul prezzo al consumo. 

In ragione delle conseguenze pratiche dell’accoglimento della questione, la Corte ha tuttavia deciso di limitare nel tempo gli effetti della sua pronuncia di accoglimento. Secondo il giudice delle leggi, il ruolo affidatogli «come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro». 

Su queste basi, la Corte ha aggiunto che, nel caso di specie, “’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.” e che “l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”. La rimozione retroattiva della normativa impugnata ingenererebbe inoltre una “irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole” con un conseguente “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” e un “indebito vantaggio che alcuni operatori economici del settore”, pregiudizievole degli artt. 3 e 53 Cost.. 

Conclusivamente, dopo aver fatto cenno alla comparazione con alcune Corti costituzionali europee per le quali il contenimento degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento costituisce «prassi diffusa», la Corte ha ritenuto «costituzionalmente necessaria» disporre la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015). 

La pronuncia della Corte costituzionale in commento non si configura nei termini di un’incostituzionalità “sopravvenuta” (la quale, a rigore, si verifica quando una determinata disciplina, conforme al dettato costituzionale al momento della sua entrata in vigore, è divenuta incostituzionale solo successivamente, a seguito del sopraggiungere di avvenimenti posteriori), bensì limita l’efficacia retroattiva della incostituzionalità realizzatasi ab origine, attraverso un bilanciamento tra valori o principi costituzionali, nella considerazione che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge, nel tutelare e garantire certi valori, produrrebbe contemporaneamente effetti negativi rispetto ad altri valori, anch’essi meritevoli di tutela a livello costituzionale. 

Si tratta, in definitiva, di una sentenza manipolativa in senso “diacronico” che differisce l’efficacia della propria pronuncia al fine di realizzare il minore sacrificio possibile per i differenti valori in giuoco. 

Si prospetta davanti ai giudici comuni una divaricazione tra applicazione della norma ed applicazione della sentenza. Rispetto alle disposizioni che stabiliscono che la norma dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale (in base all’art. 136 Cost., quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; l’art. 30, comma 3, l. n. 87 del 1953 precisa che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), la Corte costituzionale ha introdotto una deroga che limita la normale “retroattività” della pronuncia di incostituzionalità sulla base di un’operazione di bilanciamento tra differenti valori, tendente ad evitare l’eccessivo sacrificio di uno tra questi e la creazione di una situazione di maggiore incostituzionalità. 

Il risultato di richiedere che la norma dichiarata incostituzionale venga cionondimeno ancora applicata nei giudizi pendenti, non appare al Collegio foriera di una violazione dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione per il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, in quanto l’obbligo di soggezione alla legge cessa soltanto di fronte a una legge “dichiarata” (anche nel tempo) incostituzionale dal giudice delle leggi. 

Né può dirsi che il rispetto della motivazione della sentenza n. 10 del 2015 si ponga in contrasto con il principio costituzionale enunciato dall’art. 24 Cost., che riconosce il diritto d’azione, frustrato dall’eventuale applicazione di una norma riconosciuta come incostituzionale, dal momento che tale esito è il frutto di un bilanciamento tra principi costituzionali e regole processuali, giustificato dall’impellente necessità di tutelare valori costituzionali i quali, altrimenti, sarebbero risultati compromessi da una decisione di mero accoglimento, e dalla circostanza che la compressione degli effetti retroattivi è stata limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco. 


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

SOCIETÀ (imposta sulle)

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri