Alla Corte di Giustizia Ue la questione relativa alla revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiorenne che ha avuto comportamenti violenti fuori del centro di accoglienza cagionando lesioni a pubblici ufficiali

Alla Corte di Giustizia Ue la questione relativa alla revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiorenne che ha avuto comportamenti violenti fuori del centro di accoglienza cagionando lesioni a pubblici ufficiali


Straniero - Accoglienza – Revoca - Richiedente maggiore di età e non rientrante nella categoria delle “persone vulnerabili” – Comportamenti violenti fuori del centro di accoglienza che hanno cagionato lesioni a pubblici ufficiali – Possibile contrasto con la disciplina eurounitaria - Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.


    E’ rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 osti ad una normativa nazionale che preveda la revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiore di età e non rientrante nella categoria delle “persone vulnerabili”, nel caso in cui il richiedente stesso sia ritenuto autore di un comportamento particolarmente violento, posto in essere al di fuori del centro di accoglienza, che si sia tradotto nell’uso della violenza fisica ai danni di pubblici ufficiali e/o incaricati di pubblico servizio, cagionando alle vittime lesioni tali da rendere per le stesse necessario il ricorso alle cure del Pronto Soccorso locale (1). 


(1) Ha chiarito la Sezione che è stato condivisibilmente affermato che, per come delineata dall’art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142 del 2015, la revoca delle misure di accoglienza dell’extracomunitario (in specie, in presenza di “comportamenti gravemente violenti”), è misura che è fondata su una valutazione eminentemente discrezionale dei presupposti di fatto della revoca e che “postula una valutazione in concreto della singola fattispecie e della particolare situazione della persona interessata, anche sotto il profilo della proporzionalità del provvedimento rispetto alla gravità delle condotte accertate. Deve in particolare accertarsi con sufficiente certezza la specifica condotta imputabile allo straniero, la cui gravità va valutata in rapporto alle esigenze di ordinato funzionamento delle strutture d’accoglienza, dovendosi dare conto attraverso un’idonea motivazione degli elementi di fatto considerati e del percorso logico seguito per approdare alla determinazione assunta. L’obbligo istruttorio e motivazionale che grava sull’amministrazione è tanto più pregnante laddove si consideri che l’esercizio del potere di revoca di cui si tratta va a incidere su esigenze primarie di persone in stato di bisogno, deprivandole di quel minimo d’assistenza che costituisce il primo e fondamentale livello per un percorso d’integrazione nel territorio, altrimenti messo a rischio, con pregiudizio non solo circoscritto al soggetto colpito dal provvedimento, ma esteso all’intero contesto sociale in cui lo straniero, in seguito all’allontanamento dal centro d’accoglienza, è costretto a vivere nell’assenza di punti di riferimento” (Tar L’Aquila 16 marzo 2018, n. 100; Trga Bolzano 19 giugno 2017, n. 191).

 

La giurisprudenza si è diversamente orientata in merito alla questione della necessità o meno che la revoca delle misure di accoglienza sia preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento. Un primo indirizzo ritiene che di tale comunicazione possa farsi a meno quando, a fronte di episodi di violenza commessi dal richiedente la protezione, il provvedimento di revoca sia indifferibile. Altro orientamento invece, reputa illegittima la revoca non preceduta dalla comunicazione dell’avvio del procedimento volta a consentire allo straniero di interloquire sul piano procedimentale: ciò tenuto conto delle gravi conseguenze che la misura può determinare per il godimento dei diritti fondamentali dell’interessato e senza che si possa invocare, a giustificazione dell’omessa partecipazione, l’allarme sociale a fronte di una condotta penalmente rilevante, pur se di modestissimo disvalore, che di per sé non integra quelle ragioni di urgenza derogatorie rispetto alle normali garanzie partecipative (Cons. St., sez. III, 18 settembre 2018, n. 5445).
La Sezione ha aderito a tale secondo orientamento, sul rilievo che omettendo del tutto la fase partecipativa, la revoca delle misure di accoglienza viene ad essere un provvedimento che incide sui bisogni fondamentali dell’interessato, senza che a costui siano neppure dati rimedi alternativi (ad es. la possibilità di accoglienza in centri privati): acquista, così, i connotati di un provvedimento lesivo della dignità della persona.
Ha aggiunto la Sezione che ulteriore questione che ha dato vita a divergenze nella giurisprudenza è quella della sanzionabilità delle sole condotte commesse all’interno delle strutture di accoglienza, ovvero anche di quelle poste in essere al di fuori delle strutture.
Secondo un primo indirizzo, la revoca delle misure di accoglienza è irrogabile esclusivamente per le condotte poste in essere all’interno del centro di accoglienza, come sarebbe dimostrato dal comma 4 dell’art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015, a tenore del quale “Nell’ipotesi di cui al comma 1, lettera e), il gestore del centro trasmette alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo una relazione sui fatti che possono dare luogo all’eventuale revoca, entro tre giorni dal loro verificarsi”. Si tratterebbe, in quest’ottica, di una norma che sanziona con la perdita dell’accoglienza ricettiva le gravi violazioni, i gravi danneggiamenti e le gravi violenze commessi all’interno della struttura di accoglienza, non al suo esterno, con il corollario dell’illegittimità della revoca disposta per un comportamento tenuto dal migrante al di fuori della struttura ospitante.
Altro indirizzo, tuttavia, reputa sanzionabili con la revoca anche le condotte tenute al di fuori della struttura di accoglienza, purché si tratti di condotte che risultino in qualche modo incompatibili con le esigenze della ordinata gestione del centro di accoglienza. Ciò perché la permanenza temporanea all’interno del centro di accoglienza è funzionale ad intraprendere un percorso verso l’autonomia e l’inserimento sociale e quindi le condotte da sanzionare sono quelle che, indipendentemente dal luogo nel quale vengono commesse, tradiscono tale scopo dell’accoglienza, rendendone vana la funzione solidaristica (la casistica va dall’attività di accattonaggio reiterata ed accompagnata da comportamenti violenti allo sfruttamento di connazionali avviate alla prostituzione, ecc.).
La Sezione ha quindi affermato di ritenere preferibile l’opzione interpretativa che comprende tra le condotte punibili con “sanzioni” ai sensi dell’art. 20, parag. 4, della Direttiva, anche i comportamenti posti in essere al di fuori del centro di accoglienza, sempreché connotabili come “gravemente violenti”, per ragioni di ordine sia letterale, che teleologico: a) dal punto di vista letterale, perché il testo dell’art. 20, parag. 4, della Direttiva sembra da intendere nel senso ora visto, stabilendo esso, come si è detto, che gli Stati membri possono prevedere sanzioni da applicare “alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché ai comportamenti gravemente violenti”: qui, infatti, i comportamenti gravemente violenti sembrano ipotesi autonoma e distinta rispetto a quella delle violazioni delle regole dei centri di accoglienza, dunque riscontrabile pur in presenza di condotte poste in essere al di fuori di tali centri. Di tenore ben più equivoco è, però, la norma interna – l’art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142 del 2015 –, che assoggetta a sanzione la “violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti”, perché qui il testo si presta a una lettura che rende sanzionabili detti comportamenti solo se commessi all’interno del centro di accoglienza (e tali, dunque, da rappresentare violazione grave delle regole del centro stesso); b) dal punto di vista teleologico, perché può difficilmente revocarsi in dubbio che i “comportamenti gravemente violenti”, anche se commessi al di fuori del centro di accoglienza, possano, specialmente se risaputi, incidere in modo assai negativo sul buon funzionamento della struttura.


Ha quindi concluso nel senso che si ravvisa un possibile contrasto dell’orientamento espresso dal giudice di primo grado (che aveva accolto il ricorso disapplicando l’art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142 del 2015 per contrarietà rispetto al diritto dell’Unione Europea della revoca delle misure di accoglienza disposta nelle ipotesi previste dal citato art. 23) con il dato letterale della normativa eurounitaria e, in specie, con la lettera dell’art. 20, parag. 4, della direttiva n. 2013/33/UE, in base al quale, come si è già ricordato, gli Stati membri possono prevedere “sanzioni” applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché – e questo è il caso che qui viene in esame – ai “comportamenti gravemente violenti”. E non c’è alcun dubbio che la nozione di “sanzioni” di cui all’ora visto art. 20, parag. 4 ricomprenda, in linea di principio, anche la revoca e la riduzione delle condizioni materiali di accoglienza.
In secondo luogo, si ravvisa la possibilità di abusi legati all’uso strumentale dei principi desumibili dalla sentenza di prime cure, la quale preclude la revoca delle misure d’accoglienza anche a fronte di condotte di particolare gravità e riprovevolezza. Va richiamato, sul punto, un altro recente arresto del Tar Toscana (sez. II, 12 giugno 2020, n. 721), nel quale si è ritenuto di disapplicare la norma di cui all’art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142 del 2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato, nell’ipotesi di un cittadino straniero condannato in sede penale con sentenza irrevocabile per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti (consistenti in 27,19 grammi di marijuana). L’applicazione a condotte di tal fatta, o a condotte che, come nel caso all’esame della Sezione, abbiano comportato l’uso della violenza fisica, di misure sanzionatorie che producano effetti meno radicali nei confronti del richiedente protezione internazionale (come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, anche unitamente al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio) non sembra rispondente al principio di effettività della reazione dell’ordinamento. Tali misure potrebbero rivelarsi inefficaci sotto il profilo tanto della prevenzione generale (funzione dissuasiva svolta dalla sanzione nei confronti degli altri soggetti), quanto della prevenzione speciale (funzione di dissuasione del reo dal reiterare il comportamento), essendo, anzi, suscettibili di ingenerare nel reo un sentimento di impunità, in ragione del regime più “leggero” rispetto alla ben più rigorosa disciplina in materia di permesso di soggiorno di cui al d.lgs. n. 286 del 1998.
​​​​​​​Da questo punto di vista, si evidenzia come l’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) al terzo e al quarto periodo così recita: “Non è ammesso in Italia lo straniero (….) che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall’articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall’articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773”.
La disposizione è intesa dalla costante giurisprudenza nazionale nel senso che la sussistenza di una condanna per uno dei reati di cui all’elenco dell’ora visto art. 4, comma 3, è automaticamente ostativa al rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, qualunque sia la pena detentiva del condannato, non assumendo rilevanza la concessione di attenuanti o la sospensione condizionale della pena, né la modalità di esecuzione di questa (cfr., per es., per gli stupefacenti: Cons. Stato, sez. III, 28 luglio 2020, n. 4797; id. 21 maggio 2020, n. 2779; id. 27 aprile 2018, n. 2557; per il favoreggiamento della prostituzione, Cons. Stato, sez. III, 19 luglio 2019, n. 5083 e id., ord., 13 settembre 2019, n. 4589; per l’estorsione, Cons. Stato, sez. III, 1 marzo 2017, n. 950). 
Analogamente, ai sensi dell’art. 26, comma 7-bis, d.lgs. n. 286 del 1998 la condanna irrevocabile “per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del Titolo III, Capo III, Sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, relativi alla tutela del diritto di autore, e dagli articoli 473 e 474 del codice penale” (in tema di contraffazione di segni distintivi e introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) preclude in modo automatico il rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo (Cons. Stato, sez. II, 8 gennaio 2020, n. 151; id., sez. III, 10 ottobre 2018, n. 5839; id., sez. VI, 9 marzo 2016, n. 934).
​​​​​​​Orbene, a fronte di una disciplina così articolata, che sanziona con durezza condotte penalmente rilevanti ritenute dall’ordinamento di particolare gravità e riprovevolezza, rendendo la condanna per tali condanne automaticamente ostativa al rilascio/rinnovo del titolo di soggiorno allo straniero, non sembra ragionevole ipotizzare che condotte ugualmente o analogamente riprovevoli (o addirittura più gravi) possano sfuggire alle sanzioni più rigorose laddove esse siano ascrivibili a soggetti richiedenti la protezione internazionale, pur ove – come nel caso di specie – si tratti di soggetti non ricompresi nelle categorie delle “persone vulnerabili” o dei minori non accompagnati. 


Anno di pubblicazione:

2020

Materia:

STRANIERO

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri