Alla Corte costituzionale la legge regionale della Campania che prevede la possibilità di rilasciare l'autorizzazione sanitaria ad un solo centro diurno sanitario per anziani (RR.SS.AA.) per distretto sanitario di base

Alla Corte costituzionale la legge regionale della Campania che prevede la possibilità di rilasciare l'autorizzazione sanitaria ad un solo centro diurno sanitario per anziani (RR.SS.AA.) per distretto sanitario di base


Sanità pubblica - Strutture private accreditate – Art. 8, comma 2,  reg. Campania n. 8 del 2003 - Centro diurno sanitario per anziani - Autorizzazione sanitaria ad un solo centro - violazione degli artt. 3, 32, 41 e 117, comma 3, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza. 

 

      È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, l. reg. Campania n. 8 del 2003, per violazione degli artt. 3, 32, 41 e 117, comma 3, Cost., perché, nel prevedere la possibilità di rilasciare l'autorizzazione sanitaria ad un solo centro diurno sanitario per anziani (RR.SS.AA.) per distretto sanitario di base, introduce un limite ulteriore non previsto dalla legislazione nazionale (1). 


 

(1) Ha chiarito la Sezione che pare irragionevole e sproporzionata una norma che ancora la soddisfazione del fabbisogno, legandolo alla logica una struttura/un distretto base, senza che si possano verificare in concreto le reali esigenze della popolazione ed eventualmente consentire a più strutture di farvi fronte. 

Ha aggiunto che il fabbisogno va accertato in concreto e sia quanto più vicino alle esigenze della popolazione locale, la costante giurisprudenza amministrativa ha affermato (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2019, n. 1589), che, per ragioni attinenti non solo alla tutela della salute, quale irrinunciabile interesse della collettività (art. 32 Cost.), ma anche alla tutela della concorrenza, l’autorizzazione per la realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie, ai sensi dell’art. 8-ter, comma 3, del d. lgs. n. 502 del 1992, deve necessariamente restare inserita nell’ambito della programmazione regionale, in quanto la verifica di compatibilità, effettuata dalla Regione, ha proprio il fine di accertare l’armonico inserimento della struttura in un contesto di offerta sanitaria rispondente al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di garantire meglio l’accessibilità ai servizî e di valorizzare le aree di insediamento prioritario delle nuove strutture. 

La disciplina nazionale e quella, conforme, adottata a livello regionale non contrastano in sé con il diritto eurounitario perché, come ha chiarito la Corte di Giustizia, «una programmazione che richieda una previa autorizzazione per l’installazione di nuovi prestatori di cure può rendersi indispensabile per colmare eventuali lacune nell’accesso alle cure ambulatoriali e per evitare una duplicazione nell’apertura delle strutture, in modo che sia garantita un’assistenza medica che si adatti alle necessità della popolazione, ricomprenda tutto il territorio e tenga conto delle regioni geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate» e, pertanto, «è legittimo che uno Stato membro organizzi i servizi di assistenza medica in modo da dare priorità ad un sistema di prestazioni in natura affinché ogni paziente acceda facilmente, sull’intero territorio nazionale, ai servizi dei medici convenzionati» (§§ 52-53 della sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, 10 marzo 2009, in C-169/07). 

Cionondimeno, e sempre sulla scorta delle indicazioni provenienti dal giudice europeo, il Consiglio di Stato ha ribadito che un regime di previa autorizzazione amministrativa, perché sia giustificato anche quando deroghi ad una libertà fondamentali garantite dai Trattati e dal diritto dell’Unione, deve essere fondato «su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo, che garantiscono la sua idoneità a circoscrivere sufficientemente l’esercizio del potere discrezionale delle autorità nazionali» (§ 64 della sentenza della Corte di Giustizia, Grande Camera, 10 marzo 2009, C-169/07). 

Anche la valutazione del fabbisogno, alla quale la legislazione nazionale vincola il rilascio dell’autorizzazione, non può essere pertanto illimitata né schiudere la strada ad ingiustificate e sproporzionate restrizioni dell’iniziativa economica, senza trovare un ragionevole e proporzionato controbilanciamento nella cura in concreto, da parte della pubblica amministrazione decidente, dell’interesse pubblico demandatole, mediante un adeguato apparato motivazionale a supporto del provvedimento, e nella presupposta, oggettiva, valutazione dell’interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute. 

È richiesta quindi una valutazione del fabbisogno accurata ed attualizzata, che sia preceduta e sorretta una idonea istruttoria sull’esistenza di una determinata domanda sanitaria sul territorio e di una correlativa offerta da parte delle strutture private, senza che ciò si traduca di fatto in un illegittimo blocco, a tempo indeterminato, all’accesso del nuovo operatore sul mercato, con una indebita limitazione della sua libertà economica, che non solo non risponde ai criterî ispiratori dell’art. 8-ter, comma 3, d.lgs. n. 502 del 1992, ma è contrario ai principî del diritto eurounitario affermati dalla Corte di Giustizia in riferimento alla pur ampia discrezionalità del legislatore in materia sanitaria. 

Più volte la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che la valutazione dell’amministrazione in relazione alla saturazione o meno del fabbisogno non può mai sostanziarsi in uno strumento 

meramente ablatorio delle prerogative dei soggetti che intendano offrire, in regime privatistico, mezzi e strumenti di diagnosi, di cura e di assistenza sul territorio, rischiando altrimenti di introdurre posizioni dominanti in favore di chi opera già nel settore, a detrimento di chi invece intende entrarvi (cfr., il principio è distillato a partire da Cons. Stato 29 gennaio 2013, n. 550)

Del resto, la necessità di prevedere la valutazione del fabbisogno anche per le strutture non accreditate è quella di garantire la corretta distribuzione dei centri sanitari sul territorio in modo da servire adeguatamente anche le zone a bassa redditività. 

La norma regionale si pone, quindi, in contrasto con la norma nazionale, perché introduce un limite all’accesso di nuove strutture sanitarie non previsto dal legislatore e, di conseguenza, pare porsi in contrasto anche con l’art. 117, terzo comma, Cost. 

Sul punto la Corte costituzionale è costante (sentenza n. 195 del 2021) nel ricondurre la competenza regionale in materia di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie nella più generale potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute. Le Regioni sono vincolate al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali, dovendosi peraltro distinguere, «dopo il riordino del sistema sanitario, gli aspetti che attengono all’“autorizzazione” prevista per l’esercizio di tutte le attività sanitarie, da quelli che riguardano l’“accreditamento” delle strutture autorizzate» (sentenza n. 292 del 2012, punto 4 del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenze n. 106 del 2020 e n. 7 del 2021). 

In particolare, con riferimento all’autorizzazione, le disposizioni contenute negli artt. 8, comma 4, e 8-ter, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992, che prevedono i requisiti minimi di sicurezza e qualità per poter effettuare prestazioni sanitarie, rappresentano principi fondamentali della materia che le Regioni sono tenute ad osservare «indipendentemente dal fatto che la struttura intenda o meno chiedere l’accreditamento» (sentenza n. 292 del 2012, che richiama le sentenze n. 245 e n. 150 del 2010).


Anno di pubblicazione:

2022

Materia:

SANITÀ pubblica e sanitari

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri