Alla Corte costituzionale la legge regionale del Lazio che prevede per personale sanitario dedicato ai servizi alla persona un rapporto di lavoro regolato da CCNL sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario

Alla Corte costituzionale la legge regionale del Lazio che prevede per personale sanitario dedicato ai servizi alla persona un rapporto di lavoro regolato da CCNL sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario


Sanità pubblica – Strutture sanitarie private – Accreditamento – Requisiti – Regione Lazio – Art. 9, comma 1, l.  reg. Lazio n. 13 del 2018 – Personale sanitario dedicato ai servizi alla persona - Rapporto di lavoro di dipendenza regolato da CCNL sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario – Violazione artt. 3, 41 e 117, commi 1, 2, 3, Cost. – Non manifesta infondatezza. 

 

            È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 41 e 117, commi 1, 2, 3, Cost. dell’art. 9, comma 1, l.  reg. Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 nella parte in cui prevede che a tutela della qualità delle prestazioni erogate e del corretto rapporto tra costo del lavoro e quantificazione delle tariffe, il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, necessario a soddisfare gli standard organizzativi, dovrà avere con la struttura un rapporto di lavoro di dipendenza regolato dal Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario  (1). 

 

(1) Ha ricordato la Sezione che la Regione sostiene la legittimità della prescrizione normativa e della circolare attuativa, in quanto specificazione della tutela del lavoro e del diritto alla salute (la tutela occupazionale garantirebbe la qualità del servizio reso, in estrema sintesi), rispetto all quali si esplicherebbe legittimamente ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost. la potestà legislativa della Regione. 

Ritiene, invece, la violazione degli artt. 41 e 117 Cost. con riguardo alla disciplina dell’ordinamento civile. 

Effettivamente, deve condividere questo Collegio l’individuazione dei principi cui appare – anche sulla scorta del dato lettera - tesa la norma regionale; tuttavia, spettando al giudice anche la possibilità di sollevare dubbi di costituzionalità d’ufficio, si rappresenta che la disposizione nel suo raffronto con le disposizioni nazionali e sovrannazionali, in relazione al bilanciamento dei diritti garantiti dalla Costituzione, appare generare perplessità anche con riferimento a profili ulteriori rispetto a quelli indicati dagli appellanti. 

La giurisprudenza amministrativa nell’affrontare il tema del bilanciamento tra la tutela del lavoro e la tutela dell’iniziativa privata si era espressa nei seguenti termini, con riferimento all’obbligo di riassorbimento dei lavoratori d parte dell’impresa aggiudicataria subentrante: “La c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto, sicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; conseguentemente l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria. L’obbligo di riassorbimento del personale impiegato dal precedente appaltatore va comunque armonizzato con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante, e ciò anche laddove tale obbligo sia previsto dalla contrattazione collettiva” (Cons. Stato, sez. IV, n. 2433 del 2016; id., sez. III, n. 2078 del 2017; id., sez. V n. 272 del 2018). 

Il Consiglio di Stato ha ribadito tale orientamento anche nel parere n. 2703 del 2018, a mente del quale: “la clausola sociale è legittima nella misura in cui non implichi un indiscriminato e generalizzato dovere di assumere tutto il personale dell’impresa uscente ma permetta invece una ponderazione tra la necessità di personale per l’esecuzione del nuovo contratto e la libertà di scelta organizzativa e imprenditoriale del nuovo appaltatore; rientra nelle prerogative dell’imprenditore la scelta del contratto collettivo da applicare, fatta in ogni caso salva la coerenza con l’oggetto dell’attività affidata dalla stazione appaltante”. 

Da quanto esposto, si comprende come la tematica in argomento porti con sé non poche problematiche relative al bilanciamento di contrapposti interessi di rilievo costituzionale: la tutela del lavoro da un lato, la libertà d’iniziativa economica dall’altro, intrecciandosi inevitabilmente anche con la tutela della parità tra gli operatori sanitari.  

In tale contesto, è necessario partire col ricordare che l'art. 1 della Costituzione italiana esordisce con l’affermazione: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro», che non può che significare non solo che il lavoro determina la prosperità ed il benessere della vita, ma anche che da tale dichiarazione discendono vari diritti che numerosi articoli della medesima Carta costituzionale espongono.  

L'art. 41, di seguito, stabilisce la libertà dell'iniziativa economica privata sia pur condizionandola a che essa non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o a danno della sicurezza, della libertà o della dignità umana. Esso aggiunge che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».  

Deve ricordarsi ancora che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), differentemente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito: Convenzione EDU), contempla quali principi fondamentali la libertà d’impresa e la tutela dei consumatori.  

A seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona, avvenuta il 1° dicembre 2009, l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea afferma che “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea … che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”.  

Ritiene il Collegio che – nella questione oggetto di esame – non si ponga un problema di concorrenza tra operatori, stante la natura di mercato ‘regolato’ in cui ‘attività del privato è conseguenza della pianificazione pubblica e della sequenza autorizzazione-accreditamento-convenzione determinata dalle esigenze della distribuzione del servizio sanitario sul territorio nazionale e regionale; piuttosto, i principi già sopra evidenziati devono essere bilanciati alla luce del generale precetto dell’eguaglianza di cui all’art. 3 della Carta costituzionale e dei criteri dell’adeguatezza e della proporzionalità di derivazione comunitaria, quali regole generali valide anche per il legislatore (Corte giust., 17 dicembre 1970, in C-11/70, Internationale Handelsgesellschaft, in Racc., 1970, 1125 ss.; id. 24 ottobre 1973, in C-5/73, Balkan-Import-Export, in Racc., 1973, 1091 ss.; anche, Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 964). 

Valga ricordare come con il Trattato di Maastricht del 1992 il principio di proporzionalità è stato, peraltro, inserito direttamente all’interno del Trattato, all’art. 3 B (divenuto poi l’art. 5 TCE), che si riferiva, tuttavia, alla sola attività delle istituzioni comunitarie. In seguito, con il Trattato di Amsterdam del 1997, al principio di proporzionalità è stato dedicato un apposito protocollo (ora Protocollo n. 2) - ripreso, con alcune modifiche, anche dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009 - la cui prima disposizione ricalca, sostanzialmente, quella di cui all’art. 3 B, con l’aggiunta, però, della precisazione espressa che l’obbligo di rispetto del principio incombe a “ciascuna istituzione”.  

La tematica del rapporto di valore tra diritti fondamentali ed altre libertà ha subito anch’esso un’evoluzione significativa se si pensa che nei Trattati dell’Unione europea i principi del diritto comunitario sono in sostanza sullo stesso piano, determinando una necessaria impostazione di bilanciamento tra le varie libertà ed i diritti e, anzi la parola fondamentali è associata primariamente alle libertà in una diversa ottica, in cui si ritiene che funzione essenziale del mercato (e della libertà di impresa) sia la crescita della ricchezza ma anche la realizzazione e il conseguimento di diritti fondamentali.  

Vale ancora evidenziare che, nell’operazione di bilanciamento, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale - nn. 348 e 349 del 2007 – subordina la validità delle norme interne al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed anche l’interpretazione di questa agli orientamenti della Corte di Strasburgo, ma nel senso di affermare un “ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali”.  

Di contro, la Corte costituzionale ha anche affermato che in un sistema informato al principio della libertà dell’iniziativa economica, i limiti consentiti dovrebbero essere funzionali alla tutela dell’utilità sociale e della libertà, sicurezza e dignità umana (sentenza n. 267 del 2016).  

In tale contesto, dunque, si palesa la scelta ermeneutica di effettivo bilanciamento e di coerenza del sistema nella via indicata dallo stesso legislatore costituente, laddove indica il concetto di utilità sociale, intesa non solo quale insieme di “diritti sociali”, ma quale un novero di interessi della collettività considerata nel suo insieme. 

In questo insieme, dunque, si confrontano la tutela dei lavoratori e la tutela dell’iniziativa economica, la tutela della salute in termini di qualità della prestazione e anche in termini di maggiore diffusione delle strutture, investimento in macchinari ed attrezzature, confronto competitivo tra operatori pubblici e privati, che concorrono alla luce della disciplina statale a comporre il complesso sistema nazionale sanitario. 

Orbene, vale osservare che alla luce di quanto già rilevato da questa Sezione, con la misura prescelta dal legislatore regionale si espone a molteplici dubbi in ordine all’adeguatezza della stesa rispetto allo scopo dichiarato di tutela della salute, operando piuttosto – ad un’immediata lettura - un’inversione logica nella valutazione del mezzo rispetto al fine. 

Per un verso, infatti, la natura dei contratti stipulati con il personale delle strutture sanitarie non appare essere in stretta connessione con la finalità di garanzia della qualità del servizio. Tale fine sembra piuttosto doversi connettere ad un’adeguata regolazione delle modalità del servizio quanto, ad esempio, alla continuità dello svolgimento del servizio medesimo o alla professionalità degli operatori.  

Ne discende che necessariamente le norme indirizzate alla tutela della salute non possono che avere come diretti destinatari i beneficiari del servizio sanitario. 

A riguardo, deve ricordarsi che da ultimo, la Sezione, seppure con riferimento ad altro ambito, quale quello delle gare pubbliche e delle clausole sociali, ha avuto modo di evidenziare che “la correlazione tra rapporto subordinato (che, peraltro, potrebbe essere anche a tempo determinato) e qualità della prestazione sociosanitaria è un dato non dimostrato e certamente opinabile” (n. 5049 del 2020). 

Per altro verso, ritenere la competenza legislativa regionale in materia come ‘allargata’ anche alla disciplina dell’assetto contrattuale, potrebbe costituire precedente di una differenziazione della disciplina tra i vari sistemi sanitari regionali, non solo nel senso di maggior favore sia – per ipotesi - in senso contrario. 

Per quanto evidenziato, si appalesano non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina regionale di cui all’art. 9, l. reg. Lazio 28 dicembre 2018, n. 13, per i seguenti profili: quanto al contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost. in relazione alla prospettata compressione dell’autonomia privata in termini di organizzazione dell’impresa anche in relazione alla parità di trattamento rispetto agli operatori pubblici; con riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. in relazione al rispetto delle norme comunitarie, in relazione al generale principio di ragionevolezza e proporzionalità della disposizione in relazione alla finalità di maggior efficienza della prestazione.


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

SANITÀ pubblica e sanitari

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri