Alla Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in Lombardia

Alla Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in Lombardia


Edilizia – Lombardia - Recupero immobili degradati e abbandonati - Art. 40 bis, l. reg. Lombardia n. 12 del 2005 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza. 

     E’ rilevante e non manifestamente infondata ,per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40 bis, l. reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), l. reg. Lombardia 26 novembre 2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, nella parte in cui ha introdotto una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale (1). 

 

 (1) In termini v. anche Tar Milano, sez. II, ord., 10 febbraio 2021, n. 372 e n. 373.
L’art. 40 bis, l. reg. Lombardia n. 12 del 2005 si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in maniera eccessiva – con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost. – la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10 ottobre 2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale. A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40 bis. Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili da recuperare – come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso – si deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore, sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40 bis anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore – oltre che a quelli segnalati dai privati interessati – rappresenta una violazione della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea, un regime urbanistico-edilizio che prescinde – o addirittura si discosta – dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nell’elenco. Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni – indicate nell’art. 11 delle N.d.A. – e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40 bis. La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40 bis anche agli immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione – come pure a quelli segnalati direttamente dai privati – stravolge la pianificazione territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto urbano esistente. Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard. Tale ultima disciplina determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo. L’art. 40 bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria. Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del 1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
La norma appare altresì irragionevole – con violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto altro profilo – nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr. art. 1, comma 3 bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16 luglio 2019, punto 12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi. La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014 (contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata (…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16 luglio 2019, punto 12.6 del Diritto).
Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico, in quanto l’art. 40 bis, quale norma che opera a regime, contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale, che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti, la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private. Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
​​​​​​​Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23 giugno 2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23 giugno 2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio. In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 1° aprile 2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23 giugno 2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) – sul punto ripreso dall’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa) – ha previsto che “entro il termine perentorio del 15 ottobre 2009 i comuni, con motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
L’art. 40 bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso dall’art. 3 bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della superficie coperta: al contrario l’art. 40 bis della legge regionale prevede un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al ricorrere di determinate condizioni. Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3 bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
​​​​​​​12. Infine, l’art. 40 bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile. La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie. 


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

EDILIZIA e urbanistica, RISTRUTTURAZIONE edilizia

EDILIZIA e urbanistica

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri