All’Adunanza plenaria i diritti del padre alla fruizione dei riposi giornalieri per la cura del proprio figlio, minore di anni uno, la cui madre è casalinga

All’Adunanza plenaria i diritti del padre alla fruizione dei riposi giornalieri per la cura del proprio figlio, minore di anni uno, la cui madre è casalinga


Pubblico impiego privatizzato - Maternità e paternità - Figlio minore di anni uno - Fruizione dei riposi giornalieri da parte del padre – Madre casalinga – Rimessione all’Adunanza plenaria.

 

         Sono rimesse all’Adunanza plenaria le questioni a) se il termine “non lavoratrice dipendente”, riferito alla madre, in caso di richiesta di permesso da parte del padre, lavoratore dipendente, del minore di anni uno, si riferisca a qualsiasi categoria di lavoratrice non dipendente, e quindi anche alla casalinga, ovvero solo alla lavoratrice autonoma o libero-professionista, posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale; b) in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’art. 40, d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre casalinga, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi; c) quale sia l’esatta accezione da attribuire alla nozione di alternatività tra i due genitori in caso di parto gemellare, ove la madre sia casalinga (1). 

 

 

(1) Ha ricordato la Sezione che i diritti al riposo a tutela del bambino, per la prima volta riconosciuti alle lavoratrici madri con l’art. 10 , l. 30 dicembre 1971, n. 1204, non furono inizialmente accordati al padre lavoratore al quale soltanto con l’art. 7, l. 9 dicembre 1977, n. 903, intesa a realizzare la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro, si incominciò a riconoscere il diritto di assentarsi dal lavoro in alternativa alla madre lavoratrice ovvero quando i figli erano affidati solo a lui. 

Da tali disposizioni di legge ha tratto origine la (poi continua) evoluzione di tale peculiare profilo del diritto di famiglia nel senso della valorizzazione del prevalente interesse del bambino, riconosciuto autonomo titolare di interessi da salvaguardare, e del conseguente riconoscimento di paritetici diritti-doveri di entrambi i coniugi e della loro reciproca integrazione nella cura dello sviluppo psico-fisico del figlio. E’ stato così progressivamente riconosciuto in via generale che (anche) il padre è idoneo - e quindi tenuto - a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore. 

In tale prospettiva va ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 14 gennaio 1987, che ha esteso il principio sulla parità di trattamento fra uomini e donne, previsto dall’art. 7, l. n. 903 del 1977, ritenendo che il diritto ai riposi giornalieri retribuiti, previsti per la lavoratrice dall’art. 10, l. n. 1204 del 1971, dovesse essere riconosciuto al padre lavoratore nel caso (che era quello esaminato dalla Corte) in cui l’assistenza della madre al minore fosse diventata impossibile per decesso o grave infermità. E’ stato così chiarito che la natura e la finalità dei riposi giornalieri non risponde soltanto all’allattamento del neonato e altre sue esigenze biologiche, ma é finalizzata a qualsiasi forma di assistenza del bambino nel primo anno di vita. 

Nella stessa scia si pone la successiva sentenza della Corte costituzionale 2 aprile 1993, n. 179, che, riesaminando la questione in termini più generali, ha ritenuto ormai superata la concezione di una rigida distinzione dei ruoli fra i genitori nell’assistenza del bambino, dichiarando incostituzionale il menzionato art. 7, l. n. 903 del 1977 nella ulteriore parte in cui non estendeva in ogni ipotesi (e non in limitati casi) al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice, purché consenziente, il diritto ai riposi giornalieri per assistere il figlio nel suo primo anno di vita: secondo il giudice delle leggi, i due genitori nello spirito di leale collaborazione e nell’esclusivo interesse del figlio devono di volta in volta decidere quale di essi, assentandosi dal lavoro, possa meglio provvedere alla sua assistenza. 

Non può ragionevolmente dubitarsi che l’istituto dei permessi orari - de jure condito scissi dalle necessità dell’allattamento che ab initio (cfr. art. 9, l. 26 agosto 1950, n. 860) rappresentavano la motivazione cui era finalizzata (e subordinata) la relativa concessione - non si può considerare volto a tutelare le sole funzioni biologiche proprie della maternità, ma si estende invero a preservare e favorire tutte le responsabilità genitoriali (incluse quelle del padre). 

La Sezione passa all’esame delle disposizioni di cui agli artt. 39 e 40, d.lgs. n. 151 del 2001 (la cui violazione e falsa applicazione costituisce in definitiva l’oggetto del gravame in trattazione), la cui non univoca formulazione è alla base dei contrastanti indirizzi giurisprudenziali. 

preconcetta lettura del ricordato art. 40 fa emergere significativi elementi di ambiguità espressiva che sono alla base delle non irragionevoli interpretazioni giurisprudenziali scaturitene. 

L’alternatività nella fruizione infatti, intrinseca nel fatto che il legislatore ha in primis disciplinato l’istituto con riferimento alla lavoratrice madre (art. 39), è espressamente richiamata solo alla lettera b) dell’articolo 40, ad indicare che, ove entrambi i genitori siano lavoratori dipendenti, si preferisce accordare i riposi alla madre, salvo che la stessa non intenda avvalersene. Per contro ne può fruire (esclusivamente) il padre, qualora sia unico affidatario dei figli (lettera a) o unico genitore superstite o in grado di prendersene cura (lettera d), nel caso di morte o grave infermità della madre); ne può fruire il padre altresì «nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente», per l’evidente ragione che in tali ipotesi la misura (impropriamente qualificata “beneficio” dalla difesa erariale, laddove si tratta più propriamente di un istituto contrattuale a tutela della genitorialità) non può essere riconosciuta alla stessa. 

Occorre al riguardo subito evidenziare che l’argomento testuale in forza del quale il concetto di lavoratore/lavoratrice dovrebbe essere tratto comunque dalla definizione contenuta, al fine di individuare il perimetro di applicabilità del Testo unico, nell’art.2 dello stesso, non risulta pienamente conferente, venendo in rilievo non la relativa nozione (“lavoratrice”), ma la variegata platea delle madri che lavoratrici (dipendenti) nell’accezione dello stesso non sono. D’altro canto - per completezza - non può sottacersi che anche la formulazione dell’art. 41, concernente il parto gemellare, contribuisce ad incrementare le zone chiaroscurali della possibile lettura delle norme, da effettuare ovviamente in combinato disposto tra di loro: i presupposti di applicabilità infatti non cambiano, ma le ore di riposo sono raddoppiate e quelle “aggiuntive” possono essere fruite dal padre, in alternativa alla madre, ove la stessa sia lavoratrice dipendente, senza tuttavia chiarire cosa accada ove la stessa non lo sia. 

Le contrapposte possibili letture del quadro normativo sopra indicato sono emerse immediatamente nelle sentenze dei giudici amministrativi, e si sono riproposte, sia pur con alcune varianti, nei successivi sviluppi giurisprudenziali. 

Inizialmente la Sez. VI di questo Consiglio di Stato con la sentenza 9 settembre 2008, n. 4293 si è orientata per la tesi positiva, in quanto «posto che la nozione di lavoratore assume diversi significati nell’ordinamento, ed in particolare nelle materie privatistiche ed in quelle pubblicistiche, è a quest’ultimo che occorre fare riferimento, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità, in attuazione delle finalità generali, di tipo promozionale, scolpite dall’art. 31 della Costituzione». 

In sede consultiva la Sez. I, con il parere del 22 ottobre 2009 relativo all’affare n. 2732, ha sostenuto una lettura diametralmente opposta. 

Infatti, dopo aver riconosciuto espressamente «che la formulazione letterale della disposizione non appare del tutto perspicua» e dopo aver delineato un articolato excursus circa la materia del diritto di famiglia con particolare riferimento ai vari istituti normativi di ausilio alla genitorialità, ha declinato in termini assoluti il principio di alternatività nella cura del minore. Ha così sostenuto che la scelta del legislatore, conseguita alle richiamate sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 19 gennaio 1987, e n. 179 del 21 aprile 1993, non consentirebbe di ricondurre alla dizione di “non lavoratrice dipendente” la casalinga, posto che «la considerazione dell’attività domestica come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare non esclude, ma, al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali»; d’altronde, «l’autonomia di gestione del tempo di attività nell’ambito familiare consente evidentemente alla madre di dedicare l’equivalente delle due ore di riposo giornaliero alle cure parentali». In definitiva, la scelta fatta dal legislatore, interpretata nel senso anzidetto, costituirebbe il necessario punto di equilibrio tra contrapposte esigenze, «garantendo l’assistenza alternativamente di uno dei due genitori attraverso un delicato bilanciamento tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli (che ha anche indubbio rilievo sociale) e la necessità di iscrivere l’esercizio di tale diritto-dovere nel quadro delle specifiche esigenze del datore di lavoro (anch’esse aventi rilevanza sociale)»

Con la sentenza 10 settembre 2014, n. 4618, la Sez. III del Consiglio di Stato è tornata all’iniziale orientamento, sulla base di rilievi sia testuali, sia sistematici. 

Sul crinale testuale ha osservato che il tenore letterale della disposizione («nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente») include, «secondo il significato proprio delle parole, tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”. La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa». 

Sul crinale sistematico-teleologico ha affermato che «Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all’educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31». 

Su una posizione per così dire intermedia si è posto il C.g.a. con la sentenza 20 dicembre 2012, n. 1241, sostenendo che il padre, cui la legge non riconosce «un diritto proprio», indipendente e parallelo a quello riconosciuto alla madre alla fruizione dei riposi giornalieri, «deve provare l’esistenza di concreti impedimenti che si frappongano alla possibilità per la moglie casalinga (e dunque lavoratrice non dipendente, come si ritiene debba essere qualificata) di assicurare le necessarie cure al bambino». 

La tesi rigorista ha trovato spazio di recente anche in una pronuncia di questa Sezione che ha invocato il principio di tassatività rigorosa non delle singole fattispecie, ma del loro elenco, al fine di escludere la possibile estensione in via interpretativa alla casalinga della nozione di “non lavoratrice dipendente” (Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851, che ha considerato ininfluente addirittura la situazione della madre, affetta da depressione post partum, in verità addotta solo in sede di richieste cautelari nel giudizio di primo grado, ove la stessa non sfoci in una vera e propria “grave infermità”, dizione pure questa foriera di possibili equivoci in quanto non ancorata a precise definizioni normative). 

In tale quadro giurisprudenziale si pone in posizione del tutto particolare la sentenza del Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana (sez. I, 19 febbraio 2019, n. 153) che, dopo avere analiticamente ricostruito i termini del dibattito giurisprudenziale, non ha ritenuto di prendere posizione, rivendicando totale specialità alla norma sul parto gemellare (art. 41), che di per sé legittimerebbe sempre la concessione dei permessi (anche) al padre coniugato con una casalinga: «Il Legislatore è ben consapevole che nel caso di parto plurimo, le necessità familiari sono tali da giustificare il riconoscimento nei confronti del padre anche militare dei periodi di riposo e delle ore aggiuntive richieste al Comando di appartenenza», quale che sia la condizione professionale della moglie. 

In tal modo però non risulta neppure chiarito come operi in concreto il concetto di “ore aggiuntive” richiamato dalla norma, che sembrerebbe presupporre proprio ed esclusivamente la situazione di madre dipendente pubblica che non intenda fruire dei periodi di riposo nella misura raddoppiata, in toto, ovvero, appunto, in relazione alla sola entità del raddoppio. 

Non mancano anche nel panorama di questo indirizzo decisioni in cui si dà spazio alla valutazione del caso singolo, quale mezzo logico per derubricare a mera apparenza i contrasti della normativa sopra evidenziati. 


Anno di pubblicazione:

2022

Materia:

IMPIEGATO dello Stato e pubblico in genere

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri