Ai costi sostenuti per l’ablazione di aree da devolvere a privati, anche a fini di insediamenti produttivi, si applica il principio del pareggio di bilancio

Ai costi sostenuti per l’ablazione di aree da devolvere a privati, anche a fini di insediamenti produttivi, si applica il principio del pareggio di bilancio


Urbanistica – Piani insediamenti produttivi – Costi per ablazione di aree – Principio del pareggio di bilancio  - Applicabilità. 

 

         

        Ai costi sostenuti dall’Amministrazione per l’ablazione e l’infrastrutturazione delle aree da devolvere in favore di soggetti privati, anche a fini di insediamenti produttivi, si applica senza eccezioni il principio ordinamentale di ‘neutralità finanziaria’, cioè di copertura, previsto dall’art. 35, l. n. 865 del 1971, con la conseguenza che dall’operazione non devono derivare sul bilancio dell’ente locale costi o oneri non ripianati; tali costi che rientrano nell’ambito applicativo del principio del pareggio di bilancio (con conseguente loro reversibilità sui privati assegnatari) sono tutti quelli che l’ente ha sostenuto per acquisire – nell’interesse dei concessionari o degli assegnatari - dapprima il possesso e poi il diritto di proprietà, non solo quando sia emanato un formale decreto d’esproprio, ma anche quando l’occupazione sia risultata senza titolo e il diritto di proprietà sia poi acquistato con un ‘atto di acquisizione’, emesso ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, o con una transazione, fermo restando, in tali due casi, che ricade sull’Amministrazioni – e non può essere oggetto del rimborso - quanto pagato all’originario proprietario per l’aumento del dieci per cento per danno non patrimoniale, ai sensi del comma 1 del medesimo art. 42 bis (1). 

 

 

(1) Ha ricordato la Sezione che il piano per gli insediamenti produttivi (cd. P.I.P.) è uno strumento tipico della pianificazione e della programmazione urbanistica, caratterizzato però dal fatto di essere orientato al perseguimento di esigenze ulteriori rispetto a quelle del mero governo del territorio. 

Il P.I.P. assomma e assolve a due funzioni fondamentali, previste dalle leggi statali, che sono: per un verso quella del governo del territorio, secondo la classica impostazione degli usi, delle classificazioni e delle destinazioni da imprimere alle aree che compongono un determinato territorio, per l’ordinato sviluppo dell’antropizzazione; per un altro verso, invece, quella della politica economica, ossia quella di essere uno strumento per incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione e urbanizzazione, le aree occorrenti per l’impianto o l’espansione delle produzioni commerciali o industriali, garantendo l’armonico sviluppo del territorio all’interno della più ampia cornice della sostenibilità delle produzioni nell’ambiente naturale nel quale l’uomo vive. 

Da ciò, derivano due fondamentali corollari. 

Il primo corollario è che gli oneri sostenuti dal Comune per l’acquisizione delle aree necessarie per attuare il P.I.P. non hanno natura di mero corrispettivo di diritto privato, bensì natura pubblicistica, perché l’Amministrazione: a) persegue la superiore funzione, che è di interesse generale, di insediare produzioni che creano o innalzano i livelli occupazionali e di benessere di un determinato territorio; b) espropria i beni di terzi soggetti per beneficiare altri privati, e cioè gli assegnatari dei lotti, i quali eserciteranno la propria libertà di iniziativa economica; c) conforma i beni così destinati all’espropriazione, in modo da renderli per destinazione urbanistica, per dimensioni e per caratteristiche strutturali, ivi compresa l’urbanizzazione, idonei e funzionali allo scopo produttivo; d) non dispone dell’entrata, poiché il capitolo previsionale contenente l’entrata non ha natura di diritto disponibile o rinunciabile; ha invece natura imperativa e si inserisce o si sostituisce a clausole invalide, in caso di carenza nei contratti di cessione; la correlativa obbligazione, a carico del primo assegnatario, configura anche un’obbligazione propter rem, perché grava anche sui successivi acquirenti; e) può discrezionalmente introdurre limitazioni al trasferimento di immobili. 

Sotto tale ultimo profilo, va rilevato che, prima della riforma dell’art. 35, l.  22 ottobre 1971, n. 865, disposta dall'art. 23, l. n. 179 del 1992, vigeva un vero e proprio obbligo legale di pagamento, a favore dell’ente pubblico assegnante, della somma corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell'area al momento dell'alienazione e il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto, rivalutato sulla base delle variazioni dell'indice dei prezzi all'ingrosso calcolato dall'Istituto centrale di statistica, allo scopo di evitare indebite speculazioni. 

In sede giurisprudenziale (Cass., Sez. Un., 16 settembre 2015, n. 18135), si sono chiarite la natura e la portata applicativa di tali limitazioni al trasferimento dopo l’entrata in vigore della novella in questione, confermando che sussiste la piena discrezionalità dell’Amministrazione pubblica di inserire ancora oggi, nel testo delle convenzioni, i limiti in questione. 

Il secondo corollario è che lo spostamento di ricchezza da un privato ad un altro privato ha una causa normativa tipizzata, che è quella di funzionalizzare in senso economico e sociale il sacrificio imposto ad un soggetto determinato per il benessere dell’intera collettività stanziata sul territorio, consentendo all’imprenditore, che assume su di sé il rischio imprenditoriale, di organizzare il capitale e i mezzi della produzione (Cons. Stato, sez. IV, n. 5501 del 2004; id. n. 550 del 2004).

L’ordinamento realizza un razionale e soddisfacente punto di equilibrio tra la tutela del diritto della proprietà privata e il sostegno alle produzioni economiche che creano posti di lavoro, redditi e ricchezza, non allo scopo di discriminare il proprietario terriero rispetto all’imprenditore, né di impoverire i bilanci degli enti locali, bensì all’unica finalità di conformare in senso sociale e redistributivo le ricchezze, consentendo il fruttuoso utilizzo di fondi altrimenti inutilizzati o utilizzati per scopi non produttivi o, comunque, per scopi non idonei ad assicurare l’incremento di ricchezza del territorio in generale. Questo determina la nascita, in capo al privato beneficiato da questo grave sacrificio individuale, di una posizione giuridica fonte di responsabilità sociale, rispetto agli oneri e ai costi giuridici, economici e organizzativi sostenuti dall’Amministrazione pubblica per consentire la realizzazione del programma, ad un tempo urbanistico e di politica economica. 

Tale responsabilità è condensata nei principi cardine sui quali si regge l’ordinamento di settore (segnatamente, si tratta degli artt. 27, ultimo comma e art. 35, comma 12,   l. n. 865 del 1971; inoltre, dell’art. 3, comma 64, l. n. 662 del 1996, come sostituito dall’art. 11, l. n. 273 del 2002), come interpretati dalla giurisprudenza civile e amministrativa secondo indirizzi consolidati. 

Tra questi principi, fondamentale importanza riveste quello del cd. pareggio di bilancio o della sostenibilità finanziaria, perché esso ha ricadute sulla tenuta economica e finanziaria: sia del settore economico nel quale rileva il P.I.P.; sia degli altri settori economico-sociali nei quali il governo del territorio ha la primaria finalità di aumentare i livelli di benessere della collettività (si tratta dei P.E.E.P., ossia dei piani per l’edilizia economica e popolare, o ‘piani di zona’, i quali anch’essi si reggono sul meccanismo dell’esproprio dei terzi in vista dell’assegnazione dei lotti affinché gli assegnatari vi realizzino immobili da adibire a residenze per i non abbienti: si veda, in particolare, la l. 18 aprile 1962, n. 167, recante "disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare", e le successive modificazioni); sia dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, poiché la contabilità degli enti locali, insieme a quella statale in senso stretto, fa parte della più ampia contabilità pubblica, in quanto tale disciplinata dall’art. 81 Cost.. 

Sussiste dunque il principio ordinamentale di copertura dei costi sostenuti dall’Amministrazione per l’ablazione e l’infrastrutturazione delle aree da devolvere in favore di soggetti privati, nella specie a fini di insediamenti produttivi. 

Tale principio è rinominabile anche come della ‘neutralità finanziaria’, perché dall’operazione non devono derivare sul bilancio dell’ente locale costi o oneri non ripianati (cfr. nella diversa ma assimilabile fattispecie degli alloggi popolari, Cass. civ. ord., sez. I, 10 luglio 2020, n. 14782: l'obbligo del cessionario di rimborsare al Comune tutti i costi di acquisizione delle aree Peep, posto dall'art. 35, ottavo e dodicesimo comma, della legge n. 865 del 1971, deve ritenersi esteso a tutte le spese della procedura, ivi comprese le spese legali sostenute dall'ente nel giudizio promosso ai sensi dell'art. 54 del testo unico sugli espropri, mirando la normativa in oggetto ad attuare senza eccezioni il principio dell’integrale pareggio economico tra il corrispettivo di concessione ed i costi dell'acquisizione delle aree). 

Occorre però verificare, nel concreto, quando i costi e gli oneri in parola rientrano nell’ambito applicativo del principio del pareggio di bilancio (dal che deriva la loro conseguente reversibilità sui privati assegnatari) e quando, al contrario, vi esulano. 

La giurisprudenza civile e quella amministrativa hanno fornito un criterio guida di ordine generale, idoneo a consentire un’esegesi chiara, certa e univoca della previsione in questione. 

Il criterio si basa sulla distinzione tra i costi che l’ente ha sostenuto quali conseguenze direttamente ed esclusivamente riferibili ad una propria condotta illecita ed a procedimenti illegittimi che hanno dato luogo a risarcimenti del danno (tali costi non sono riversabili sui privati e sono definitivamente sostenuti dall’ente pubblico) e quelli che l’ente ha sostenuto per portare a compimento le procedure espropriative o per acquisire il diritto di proprietà, poi attribuito ai concessionari o agli assegnatari (tali costi sono, al contrario, integralmente riversabili sul privato). 

La Sezione evidenzia che, una volta attivato il procedimento volto alla assegnazione delle aree inserite nel P.I.P. (esattamente come una volta sia stato attivato il procedimento volto all’assegnazione delle aree inserite nel P.E.E.P.), i beneficiari – ovvero coloro che intendano esserne beneficiari – abbiano l’onere di vigilare sul corretto andamento della procedura espropriativa. 

Essi hanno specifici rimedi, previsti dall’ordinamento giuridico, e possono sollecitare il Comune alla tempestiva emanazione del decreto di esproprio, perché titolari dell’interesse diretto, concreto, personale e immediato a disporre di un titolo giuridico a giustificazione della materiale disponibilità del bene. Gli assegnatari, in altri termini, così come si giovano dell’immissione nel possesso del bene in via d’urgenza, al contempo hanno l’onere di avere la cura che sia concluso – legittimamente - il procedimento espropriativo. 

Inoltre, qualora non sia stato emanato il decreto d’esproprio, essi hanno un interesse diretto, concreto, personale e immediato all’esercizio del potere previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri. 

Infatti, quando l’Amministrazione abbia attivato il procedimento espropriativo e l’atto conclusivo del procedimento non sia stato emesso o sia stato annullato in sede giurisdizionale, coloro che sono stati immessi nel frattempo nel possesso dell’area – in applicazione della legge n. 865 del 1971 o della legge n. 167 del 1962 – sono anch’essi legittimati a chiedere (dapprima in sede amministrativa e poi in sede giurisdizionale) che l’Autorità competente eserciti il potere di acquisizione, previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri: tale potere va esercitato d’ufficio, come chiarito dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, ma può anche essere sollecitato sia dal proprietario, sia dal possessore, affinché vi sia l’adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto e, se del caso, affinché il possessore diventi proprietario. 

Per converso, da ciò deriva che, nel lasso di tempo che intercorre dal primo giorno utile successivo alla scadenza del termine per l’emanazione del legittimo decreto di esproprio e fino al momento in cui lo stato di fatto è adeguato alla situazione di diritto (tramite l’emanazione del provvedimento ex 42 bis o la stipulazione della cessione volontaria o la transazione della lite), anche gli assegnatari rispondono delle conseguenze negative e dei maggiori costi sostenuti per l’acquisizione delle aree. 

Del resto, l’ente comunale sostiene tali costi in nome proprio (il diritto di proprietà è trasferito dal patrimonio del privato a quello comunale), ma nel precipuo interesse del privato assegnatario (il diritto di proprietà è successivamente ceduto dal Comune agli assegnatari, secondo l’ordine riportato nel decreto di assegnazione), allo scopo di impedire l’effetto restitutorio, altrimenti inevitabile in base ai giudicati di annullamento dei decreti di esproprio. 

Se il Comune non definisse la procedura espropriativa (col decreto d’esproprio o con l’atto di acquisizione previsto dall’art. 42 bis), al proprietario spetterebbe la restituzione delle aree con l’applicazione del principio dell’accessione, con un grave vulnus per gli interessi pubblici coinvolti e con diretto pregiudizio proprio dell’assegnatario, che non conseguirebbe il titolo di proprietà e perderebbe il possesso delle opere da lui realizzate, anche con sacrificio delle risorse pubbliche. 

I principi di buona fede e di correttezza nell’adempimento delle obbligazioni (anche quelle di cd. cooperazione nell’adempimento dell’altrui obbligazione) e degli oneri, il principio della compensatio lucri cum damni e il divieto dell’arricchimento senza causa ostano tutti a che il beneficiario di una prestazione pagata con denaro pubblico (l’assegnatario o il concessionario dell’area) si avvantaggi ingiustamente, esimendosi dal sostenere i correlativi oneri o pretendendo di addossarli interamente sull’Ente pubblico e sulla collettività in generale. 

Sotto tale profilo, è insostenibile la tesi secondo cui – a seguito dell’annullamento del decreto d’esproprio o della sua mancata emanazione – l’assegnatario o il concessionario, di per sé tenuto a rimborsare quanto spettante al proprietario a titolo di indennità d’esproprio, non debba rivalere l’Amministrazione di quanto pagato allo stesso proprietario per munirsi del titolo di proprietà, sulla base di una transazione o dell’atto di acquisizione ex art. 42 bis. 


Anno di pubblicazione:

2020

Materia:

EDILIZIA e urbanistica

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri