L’Adunanza plenaria pronuncia sull’ambito di applicazione del termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. e sulla sua interruzione

L’Adunanza plenaria pronuncia sull’ambito di applicazione del termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. e sulla sua interruzione


Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza - Termine di prescrizione decennale – Ambito di applicazione (riferito al diritto sostanziale o processuale) ed interruzione – Individuazione. 

 

          Il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato (1). 

 

(1) La questione era stata rimessa dal C.g.a. con ordinanza 25 giugno 2020, n. 466.

 

Ha chiarito l’Alto Consesso che sotto il profilo lessicale va sottolineato come l’art. 114, comma 1, c.p.a. abbia sancito la ‘regola della prescrizione decennale’ riferendosi – come l’art. 90, r.d. n. 642 del 1907, ma in un ben diverso contesto normativo - alla proponibilità della ‘azione’ di esecuzione del giudicato e non al rilievo del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche oggetto del giudicato, a differenza di quanto ha previsto l’art. 2953 del codice civile. 

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, il legislatore si è consapevolmente riferito alla prescrizione della ‘azione’, senza fare riferimento alle posizioni giuridiche oggetto del giudicato. 

Per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato (del giudice civile o del giudice amministrativo) avente per oggetto diritti, non vi era alcuna lacuna da colmare, proprio perché già gli articoli 2953 e 2943, quarto comma, del codice civile del 1942 hanno sancito le regole della prescrizione decennale e della sua interrompibilità. 

Invece, per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato avente per oggetto interessi legittimi, il legislatore – nel tenere conto del precedente dibattito – ha ritenuto di non trasporre in legge il principio che la giurisprudenza, a partire dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 1991, ha enunciato, in assenza di una specifica disposizione di legge. 

Infatti, l’art. 114, comma 1, ha introdotto la diversa regola per la quale in ogni caso è ‘interrompibile’ il termine di prescrizione decennale, quando si agisce con l’actio iudicati: non rileva sotto tale profilo la posizione soggettiva di cui si chieda tutela al giudice dell’ottemperanza. 

Da tale comma, si desume chiaramente la determinazione del legislatore di qualificare come termine di prescrizione e non di decadenza quello entro il quale è proponibile il ricorso d’ottemperanza: non si può ritenere che il legislatore abbia utilizzato termini aventi un significato diverso da quello attribuibile in base alle nozioni generali. 

Con riferimento ai diritti, tale determinazione risultava del resto costituzionalmente obbligata, poiché – per il principio di uguaglianza e per i principi fondanti la giustizia amministrativa (artt. 3, 103 e 113 Cost.) – di certo non si sarebbe potuto introdurre per essi un termine decennale di ‘decadenza’, tale da rendere del tutto incoerente la disciplina processuale sull’actio iudicati con quella sostanziale prevista dall’art. 2953 del codice civile (che consente di interrompere la prescrizione anche quando si tratti di un diritto che abbia dato luogo ad un giudicato favorevole). 

Una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, ha allora riguardato proprio l’actio iudicati riguardanti i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza. 

La scelta del legislatore è stata dunque quella di disporre regole unitarie per l’actio iudicati, quanto al tempo della proposizione del ricorso d’ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi: ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus

Ad avviso della Adunanza Plenaria, tale scelta risulta pienamente coerente con il principio di effettività della tutela e con la giurisprudenza costituzionale, poiché: 

a) l’art. 1 c.p.a. dispone che ‘la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo’, senza distinguere i diritti dagli interessi, aventi pari dignità ai sensi degli articoli 24 e 103 della Costituzione, sicché ben si regge su tale principio la regola per la quale in ogni caso chi abbia ottenuto un giudicato favorevole possa sollecitare l’Amministrazione soccombente anche in sede stragiudiziale, affinché ci sia l’esecuzione, con la conseguente interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati

b) più volte la Corte Costituzionale, anche con le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ha evidenziato lo ‘stretto intreccio’ che talvolta vi è tra gli interessi e i diritti devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa esclusiva, sicché si giustifica un regime giuridico unitario (e dunque semplificato) dell’actio iudicati, che ai fini della proponibilità del rimedio – in presenza di atti stragiudiziali volti all’esecuzione del giudicato – renda irrilevante l’esame della natura della posizione fatta valere nel giudizio di cognizione. 

La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto con gli artt. 97 e 111 Cost., diversamente da quanto è stato paventato dall’ordinanza di rimessione. 

Si deve infatti considerare che l’Amministrazione risultata soccombente nel giudizio di cognizione ha il dovere di dare esecuzione d’ufficio al giudicato: la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio del buon andamento dell’azione amministrativa. 

Il rimedio del ricorso d’ottemperanza va visto come extrema ratio per ottenere in sede di giurisdizione di merito l’esecuzione del giudicato, qualora in sede amministrativa non vi sia stata una definizione della questione conforme al giudicato stesso, a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti. 

Tali contatti vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11, l. n. 241 del 1990, il quale va interpretato nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva, volto a definire una volta per tutte la controversia (Cons. St., sez. IV, 10 agosto 2020, n. 4990).

E’ pertanto del tutto fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’Amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso). 

In questo contesto, gli atti di impulso univocamente rivolti ad ottenere l’esecuzione del giudicato sono stati evidentemente ritenuti idonei dal legislatore ad interrompere il termine di prescrizione dell’actio iudicati, non potendo essere ‘premiata’ l’Amministrazione - con una regola della non interrompibilità della prescrizione – quando, malgrado tali atti, non vi sia stata né la ‘unilaterale’ esecuzione del giudicato, né una soluzione consensuale. 


Anno di pubblicazione:

2020

Materia:

GIUSTIZIA amministrativa, GIUDIZIO di ottemperanza

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri