Condanna del finanziere e pena accessoria della rimozione

Condanna del finanziere e pena accessoria della rimozione


Militari, forze armate e di polizia – Guardia di finanza - Condanna penale definitiva non sospesa – Pena accessoria della rimozione – Effetti

Ai sensi degli artt. 866 e 2149, comma 8, cod. mil., applicabile anche al Corpo della Guardia di finanza, nei casi in cui un militare della Guardia di finanza sia attinto da una condanna penale definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o per delitto (comune) che comporti la pena accessoria della rimozione, l’effetto giuridico della rimozione si produca di pieno diritto, senza che sia necessario instaurare il procedimento disciplinare o, eventualmente, proseguire il procedimento in precedenza già avviato (1).

(1) Ha ricordato la Sezione che la rimozione: - costituisce una pena militare accessoria (art. 24 c.p.m.p.); - “si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all'ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe. La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione quando è inflitta per durata superiore a tre anni” (art. 29 c.p.m.p); - di regola, “decorre, ad ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile” (art. 34 c.p.m.p.).

A tenore dell’art. 33 c.p.m.p. la rimozione, inter alia, si applica ex lege ai casi in cui la pena della reclusione cui sia stato condannato, in sede penale, il militare debba essere sostituita, in fase esecutiva, con la pena della reclusione militare.

Nella vicenda di specie accade proprio questo: ai sensi dell’art. 63, n. 3, c.p.m.p., infatti, la condanna inflitta al ricorrente, militare in s.p.e., è sostituita di diritto con la condanna alla reclusione militare “per egual durata”, giacché la relativa misura (anni 3 e mesi 8) non importa, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente inoperatività della più rigida previsione di cui all’art. 63, n. 2, c.p.m.p..

La Sezione osserva, incidentalmente, che la rimozione (e le misure interdittive equiparabili), come ripetutamente affermato da questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. IV, ord. n. 1606 del 2016; Sez. VI, n. 389 del 2014; Sez. IV, n. 4292 del 2012; Sez. IV, n. 6437 del 2010) e, proprio in quanto produce, quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado, determina conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i], cod.ord.mil., la cessazione del rapporto d’impiego.

Del resto, la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 268 del 2016), nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i], cod.ord.mil. “nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici”, ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere il decisum della Corte non estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32-quinquies c.p.) e, appunto, la rimozione.

Con specifico riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte ha espressamente sostenuto, con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione, che “solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p..

Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto”.

Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, oltretutto riferite ad un corpus normativo frattanto abrogato.

La Sezione ha escluso che ci siano ragioni per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil..

La disposizione, come visto, fa salvo “quanto previsto dall'articolo 866”: questa disposizione, a sua volta, fa riferimento a condanne per un reato che “comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”.

Il riferimento, dunque, non è a condanne che esplicitamente irroghino, tra l’altro, la pena accessoria della rimozione, ma a condanne che “comportino”, di diritto, siffatta pena accessoria.

In sostanza, la norma che si trae dall’articolo in commento dimostra chiaramente, tramite l’esposta scelta lessicale, di prescindere dal tenore letterale della sentenza di condanna e di guardare, viceversa, alle relative conseguenze in diritto.

Del resto, in una più ampia visione sistemica, la rimozione, quale pena accessoria perpetua che opera ope legis, non ope judicis e che è predeterminata nella specie e nella durata, trova (recte, deve trovare) applicazione indipendentemente dalla relativa menzione nella sentenza di condanna.

Calando tali considerazioni generali nella fattispecie di cui al presente giudizio, si ha che già all’indomani della sentenza della Cassazione del 25 novembre 2015, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento ricognitivo della cessazione del rapporto d’impiego: la sentenza della Corte d’appello di Milano del 10 gennaio 2014, infatti, comportava ex lege la pena accessoria della rimozione.

Tale conclusione è, per vero, confermata:

- sia dall’ordinanza della Corte di appello di Milano del 29 marzo 2016, emessa con la procedura prevista per la correzione dell’errore materiale, ove si precisa che “è possibile procedere … in quanto la richiesta pena accessoria discende con assoluta automaticità dalla condanna irrevocabile”;

- sia dalla successiva ordinanza emessa in data 28 novembre 2017, con le forme dell’incidente di esecuzione, dalla medesima Corte a definizione del giudizio di opposizione (così riqualificato dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 marzo 2017, l’originario ricorso per cassazione radicato dall’odierno ricorrente), ove si sostiene che “quella richiesta (rimozione dal grado) è una pena accessoria, che a norma degli articoli 29, 33 e 63 del c.p.m.p. consegue di diritto ed in modo automatico alla condanna per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. e che, ove sia stata omessa in sentenza dal giudice della cognizione, può essere disposta dal giudice dell’esecuzione nelle forme del relativo procedimento”.

La retrodatazione della decorrenza giuridica della cessazione del rapporto di impiego al momento della prima applicazione della misura della sospensione precauzionale dal servizio risponde al disposto della norma speciale di cui all’art. 867, comma 5, cod.ord.mil., ai sensi della quale “la perdita del grado decorre dalla data di cessazione dal servizio, ovvero, ai soli fini giuridici, dalla data di applicazione della sospensione precauzionale, se sotto tale data, risulta pendente un procedimento penale o disciplinare che si conclude successivamente con la perdita del grado, salvo che il militare sia stato riammesso in servizio”.


Anno di pubblicazione:

2020

Materia:

MILITARE

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri