Impugnabilità in sede straordinaria del diniego di rinnovo dell'exequatur per l'esercizio delle funzioni di console onorario

Impugnabilità in sede straordinaria del diniego di rinnovo dell'exequatur per l'esercizio delle funzioni di console onorario


Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Atto impugnabile – Diniego di rinnovo dell’exequatur – Non è impugnabile.


E’ inammissibile il ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto avverso il diniego, opposto dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di rinnovo, richiesto da una Ambasciata in Italia, dell'exequatur per l'esercizio delle funzioni di console onorario (1).

 

(1) Ha ricordato il Consiglio di Stato in sede consultiva che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 81 del 2012, ha affermato che “Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto; nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.”.

Da tale sentenza deriva, ad avviso della Sezione, il principio secondo cui ciò che importa ai fini dell’impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo non è tanto la natura “politica” o meno dell’atto quanto la sussistenza o meno di un vincolo giuridico posto all’esercizio del potere discrezionale.

E’ presumibile, sempre secondo la Sezione, che in tal modo la Corte costituzionale abbia ritenuto di offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 7 c.p.a. secondo cui “Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.

Tale disposizione, come è noto, riprende l’art. 31 del T.U. Cons. Stato (r.d. n. 1054 del 1924, a sua volta sostanzialmente ripetitivo dell'art. 24 del precedente t.u. 2 giugno 1889, n. 6166), di cui taluni interpreti avevano rilevato il contrasto con il nuovo ordinamento costituzionale, fino ad auspicarne l’abrogazione, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 113 Cost., che prevede l'impugnabilità di tutti gli atti della pubblica amministrazione in sede giurisdizionale senza esclusioni o limitazioni per determinate categorie.

Già subito dopo la Costituzione, difatti, si osservò autorevolmente che “qualsiasi atto amministrativo, anche se appartenente alla cessata categoria degli atti cosiddetti politici, purché non sia un atto di governo, fra quei pochi espressamente e chiaramente identificabili, è oggi sindacabile e può esser annullato o disapplicato qualora ponga limiti a situazioni soggettive attive. L'amplissimo potere discrezionale di cui gode la pubblica amministrazione in quelle fattispecie può costituire in pratica un limite di penetrazione del sindacato; ma il sindacato di legittimità resta integro e completo.”.

D’altro canto, in questa prospettiva, parrebbero sfumare anche le categorie di “atto politico” e di “atto di alta amministrazione”.

È indubbio che tale distinzione ha avuto storicamente un ruolo importante in quanto la giurisprudenza, attraverso la stessa, ha circoscritto il più possibile la categoria dell’“atto politico”, alla luce dell’art. 113 Cost., ampliando l’area degli atti di “alta amministrazione”.

L’introduzione di tali categorie, tra l’altro, superò quella che era la “teoria del movente”, di origine francese, che facendo riferimento a elementi di natura soggettiva, attribuiva esclusivamente all’arbitrio del Governo la qualificazione dell’atto e quindi consentiva di sottrarre al sindacato del giudice amministrativo qualsiasi atto in cui asserisse la presenza di motivi politici; l’abbandono di tale teoria da parte del Consiglio di Stato è considerato, probabilmente, “l'esempio più significativo della mantenuta neutralità e indipendenza del Consiglio di Stato rispetto al Governo autoritario dell'epoca” (si veda, ad es., sez. IV, 27 luglio 1937, n. 425: cd. caso Torlonia, definita, da un autorevole interprete, “impeccabile e suadente”).

In sostanza la giurisprudenza ha fornito un’interpretazione rigorosa dell’art. 31 del T.U. Cons. Stato, restringendo l’area degli “atti politici” in favore di quella degli atti di “alta amministrazione”.

Certo non potevano nascondersi le difficoltà di individuare elementi di differenziazione certi tra le due categorie.

Ma i dubbi sulla validità della distinzione erano soprattutto legati – come si è detto – alla conformità a Costituzione della disposizione di cui all’art. 31 del T.U. Cons. Stato e del successivo art. 7 c.p.a..

E’ noto anche che, in questa prospettiva, l’orientamento tralaticio – che, per la verità, nella più recente giurisprudenza non sembra più così centrale - è nel senso di qualificare un atto come ‘atto politico’ alla compresenza di due requisiti: il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello; il secondo a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto concernente la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.

Orbene, il punto di approdo di tale percorso, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 81 del 2012 – che in qualche modo sembra andare oltre tale orientamento - è quindi il seguente: ciò che rileva ai fini della impugnabilità o meno dell’atto non è tanto che esso promani da un organo di vertice della pubblica amministrazione e che concerna le supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri, ma che sussista una norma che predetermini le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che, comunque, la circoscriva.

Sotto il profilo più squisitamente processuale sarà, conseguentemente, impugnabile quell’atto – pur promanante dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica - la cui fonte normativa riconosce l’esistenza di una situazione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall’Amministrazione.

 

Applicando il metodo interpretativo sopra detto che fa leva sulle caratteristiche della norma che si pone a fondamento del potere esercitato con l’atto impugnato, non v’è dubbio che la concessione ed il rinnovo dell’exequatur non sono soggetti a parametri giuridici nel senso indicato dalla giurisprudenza sopra citata.

Come si è ricordato, la materia è disciplinata dalla convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963, ratificata con l. n. 804 del 1967, la quale, al pari del testo dell’accordo, non fissa in proposito alcun vincolo, canone o criterio di riferimento.

Al contrario, per quanto qui di interesse, vengono in particolare rilievo, tra le altre, alcune norme di tale convenzione, e segnatamente: l’art. 12, già innanzi ricordato, secondo il quale “Il capo di un posto consolare è ammesso all’esercizio delle sue funzioni da un permesso dello Stato di residenza, chiamato exequatur” e “Lo Stato che nega un exequatur non è tenuto a comunicarne il motivo allo Stato d’invio”; il successivo art. 25, che individua “il ritiro dell’exequatur” fra le cause di cessazione delle funzioni consolari, anche in questo caso senza nulla disporre in ordine alle modalità o ai criteri cui lo Stato concedente deve attenersi; infine, l’art. 68, secondo cui “Ogni Stato è libero di risolvere se nominare o ricevere dei funzionari consolari onorari”.

 

Non può, quindi, che concludersi che si tratta di atti dello Stato di rilevanza internazionale fondati su valutazioni altamente ed eminentemente discrezionali, non circoscritte da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnino i confini o ne indirizzino l'esercizio.

In effetti, l’intero iter involge esclusivamente la partecipazione dei due Stati sovrani interessati, attraverso, nel caso di specie, l’Ambasciata del Paese estero richiedente ed il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

Dalle citate disposizioni normative emerge quindi la piena discrezionalità dello Stato ospitante, che non è tenuto a fornire neanche all’altro Paese la motivazione del diniego di concessione – o, come in questo caso, di rinnovo – dell’exequatur.

Da tali procedure rimane di conseguenza – ed a maggior ragione – del tutto esclusa la persona fisica proposta dallo Stato di invio, che non vanta alcun titolo a partecipare al procedimento de quo, dal momento che la normativa che disciplina la materia non stabilisce in capo ad essa alcuna regola di garanzia, a prescindere, tra l’altro, dal fatto che si tratti di cittadino italiano o meno.

In definitiva, la procedura oggetto di impugnazione afferisce esclusivamente ai rapporti tra Stati sovrani.

 

Sul punto merita pure di essere ricordato che la circolare ministeriale n. 3 del 16 luglio 2010, che regolamenta la materia dei “Consoli onorari stranieri in Italia” con riferimento, tra l’altro, ai “criteri soggettivi per l’autorizzazione ai candidati titolari degli Uffici all’esercizio delle funzioni consolari onorarie” e le relative procedure di verifica, stabilisce, per quanto qui di interesse, che “il Ministero degli affari esteri intrattiene la corrispondenza relativa alle pratiche in materia di istituzione di Uffici consolari onorari e di autorizzazioni ai loro candidati titolari a svolgere le funzioni consolari onorarie esclusivamente con le Rappresentanze diplomatiche estere in Italia e non con i singoli candidati alla nomina”.

Può, infine, essere utile rilevare, anche se in via meramente incidentale, che, come comunicato dal Ministero resistente con la citata nota MAE00629012019-04-05 del 5 aprile 2019, la stessa Repubblica d’Austria, unico soggetto titolato ad interloquire in merito con il Dicastero in base alle norme convenzionali, ha medio tempore richiesto, con nota verbale dell’Ambasciata in Italia del 6 settembre 2018, in atti, l’exequatur per un diverso rappresentante, con ciò implicitamente confermando di non avere alcun interesse a porre in dubbio il mancato rinnovo di quello precedentemente concesso in relazione all’odierno ricorrente.


Anno di pubblicazione:

2019

Materia:

RICORSI amministrativi, RICORSO straordinario al Presidente della Repubblica

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri