Ammissibilità delle memorie di replica

Ammissibilità delle memorie di replica


Processo amministrativo – Memoria – Memoria di replica – Ammissibilità – Condizione.

Le memorie di replica sono previste e regolate dall’art. 73, comma 1, c.p.a. per il precipuo ed esclusivo fine di consentire di rispondere alle deduzioni contenute nelle nuove memorie depositate dalle controparti in vista dell’udienza di discussione; ne segue che la replica è inammissibile qualora controparte non abbia depositato memoria conclusionale e che il suo oggetto deve restare, comunque, contenuto nei limiti della funzione di contrasto alle difese svolte nella memoria conclusionale avversaria, onde evitare che si traduca in un mezzo per eludere il termine per il deposito delle memorie conclusionali, proponendo tardivamente argomenti che avrebbero dovuto trovare posto nella memoria per l’udienza di discussione (1).

 

 

(1) L’art. 73, comma 1, c.p.a, per il quale “le parti possono … presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell’udienza, fino a venti giorni liberi”, ammette chiaramente replica soltanto alle memorie depositate dalle controparti per l’udienza di discussione.

La previsione è dirimente e consente di trarre il corollario che l’oggetto della replica debba restare contenuto nei limiti della funzione di contrasto alle difese svolte nella memoria conclusionale avversaria, onde evitare che il deposito della memoria di replica si traduca in un mezzo per eludere il termine di legge per il deposito delle memorie conclusionali.

Di recente si è osservato che “[l]a giurisprudenza del giudice amministrativo ha chiarito che ai sensi dell’art. 73, comma 1, c.p.a., nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. q), d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 (c.d. primo correttivo al Codice), le repliche sono ammissibili solo ove conseguenti ad atti della controparte ulteriori rispetto a quelli di risposta alle iniziative processuali della parte stessa (ricorso, motivi aggiunti, memorie, documenti, ecc.), atteso che la ratio legis si individua nell’impedire la proliferazione degli atti difensivi, nel garantire la par condicio delle parti, nell’evitare elusioni dei termini per la presentazione delle memorie e, soprattutto, nel contrastare l’espediente processuale della concentrazione delle difese nelle memorie di replica con la conseguente impossibilità per l’avversario di controdedurre per iscritto (Cons. St., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5676). Né la memoria di replica può essere considerata prima memoria se depositata, come nel caso all’esame del Collegio, oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art. 73 c.p.a. (Cons. St., sez. III, 28 gennaio 2015, n. 390; 4 giugno 2014, n. 2861)” (Cons. St., sez. III, 2 maggio 2019, n. 2855).

Ciò, naturalmente, fatta salva la possibilità di replicare alla produzione di nuovi documenti, come parimenti previsto dall’art. 73, comma 1.

Ha aggiunto la Sezione che la questione dell’ammissibilità della memoria, rilevata d’ufficio, non deve essere indicata in udienza né successivamente sottoposta alle parti con ordinanza, secondo le modalità prescritte dall’art. 73, comma 3, c.p.a. per il caso in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata di ufficio.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, “la previsione dell’art. 73 si applica solo, quando ne emergano e siano rilevabili d’ufficio, ai fatti sostanziali cd. modificativi, impeditivi o estintivi, idonei ad incidere ab extrinseco sulla fattispecie costitutiva della pretesa dedotta dal ricorrente, vanificandola. E si applica, inoltre, alle “questioni” di rito, vale a dire ai fatti cui la disciplina processuale attribuisca conseguenze incidenti - appunto - sul processo (ad esempio, la permanenza dell’interesse alla decisione: cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 3 del 2010)” (Cons. St., sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557).

Al riguardo, l’Adunanza plenaria ha chiarito che il dovere del giudice stabilito dall’art. 73, comma 3, c.p.a. costituisce un mezzo di garanzia del contraddittorio “diretto ad evitare pronunce su profili aventi un’influenza decisiva sul giudizio, quali, per esempio, la tardività, il difetto dell’interesse protetto, la perenzione del giudizio”, al fine di contrastare il fenomeno delle cosiddette decisioni a sorpresa, e che esso, dunque, attiene al caso in cui “il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale” (Cons. St., Ad. Pl., 5 settembre 2018, n. 14).

Nella fattispecie in esame, il giudizio non è stato definito ritenendo dirimente, per la decisione, la tardività della memoria di replica e la mancata sottoposizione al contraddittorio processuale del relativo punto non ha prodotto una decisione “a sorpresa” della domanda giudiziale in violazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a., che imporrebbe l’annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice per lesione del diritto di difesa, ai sensi del successivo art. 105.

Ed invero, le sole questioni che possono essere poste a fondamento della decisione, alle quali, dunque, ha riguardo l’art. 73, comma 3, sono le questioni pregiudiziali di rito e le questioni preliminari di merito, che, per l’appunto, sono astrattamente idonee alla definizione del giudizio in quanto concernenti, rispettivamente, le condizioni dell’azione ed i presupposti processuali ovvero quelle questioni la cui risoluzione possa rendere superfluo il giudizio sul fatto costitutivo della pretesa azionata.

 


Anno di pubblicazione:

2019

Materia:

GIUSTIZIA amministrativa

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri