Concessione della Certosa di Trisulti alla Dignitatis Humanae e limiti temporali per l’esercizio del potere di autotutela

Concessione della Certosa di Trisulti alla Dignitatis Humanae e limiti temporali per l’esercizio del potere di autotutela


Beni culturali – Concessione - Certosa di Trisulti – requisiti - Mancanza . Ritiro dell’affidamento della concessione – legittimità. 

 

Atto amministrativo – Autotutela – Termine – Provvedimento ampliativo - Autotutela a seguito di false dichiarazioni – Termine di 18 mesi ex art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 – Inapplicabilità. 

 

            E’ legittimo il decreto del Ministero dei beni culturali ed ambientali che ha ritirato l'affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato della Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone, alla Dignitatis Humanae, a causa della mancanza dei requisiti richiesti dal bando che riguardavano non solo la personalità giuridica, ma anche lo Statuto dell'associazione, che al tempo della presentazione della domanda non riportava gli indirizzi di tutela e valorizzazione richiesti dal ministero (1). 

 

            Il limite temporale dei 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole (2). 

 

(1) Ha chiarito la Sezione che il d.m. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato. 

Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”. 

I requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande. Ciò discende da un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1, l. n. 241 del 1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo (Cons. Stato, sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5412) e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione. 

Ha ancora affermato la Sezione che la selezione avviata dal Ministero dei beni culturali e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell'Unione europea (Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2011, n. 3250 e 7 aprile 2011, n. 2151).

 

 

 

(2) La Sezione ha premesso che la concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico. 

Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario. 

Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio. 

Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente. 

Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12, l. n. 241 del 1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. n. 241 del 1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990. 

Ha ancora ricordato la Sezione che il potere di autotutela decisoria è, invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” 

Nel caso di specie si è al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere. 

Il giudice di primo grado ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990. 

La Sezione ha ritenuto che tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile. 

Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha affermato che: in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva; a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione.  

Da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità. 

Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990. 

Sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita). Nello stesso tempo però (Cons. Stato, sez. III, 8 luglio 2020, n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa). 

Sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241 del 1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione. 

 

Diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici. 

Ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela). 

Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241 del n. 1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2019, n. 3192; id. 24 aprile 2019, n. 2645).


Anno di pubblicazione:

2021

Materia:

ATTO amministrativo, AUTOTUTELA

BENI culturali, paesaggistici e ambientali

ATTO amministrativo

Tipologia:

Focus di giurisprudenza e pareri