pubblicato sul sito il 23 agosto 2010
INDICE:
1. Introduzione; 2. La tutela reintegratoria dell’interesse
legittimo: le azioni di annullamento e condanna; 2.1 I limiti all’esperimento della azione di condanna alla
emissione di un provvedimento; 3.
L’azione di condanna al risarcimento del danno per la lesione degli interessi legittimi: il
problema della autonomia dell’azione risarcitoria; 3.1 Il Termine decadenziale; 3.2
La decorrenza del termine decadenziale nel caso di domanda risarcitoria
proposta dopo l’esperimento dell’azione di annullamento; 3.3 La decorrenza del termine nel caso di danni derivanti
dall’inosservanza del termine per provvedere; 3.4 La riduzione del risarcimento per il danno evitabile con l’uso
dell’ordinaria diligenza: le divergenti ispirazioni che stanno alla base della
norma e la loro incidenza sul suo iter formativo; 3.5 L’azione risarcitoria autonoma in corso di giudizio; 3.6 Il
risarcimento del danno in forma specifica;
1. Introduzione
Il
tema delle azioni costituisce il cuore stesso del nuovo codice amministrativo.
La nuova codificazione si propone, infatti, non come una semplice
operazione di riordino delle varie fonti in cui è sparsa la disciplina del processo
amministrativo, ma come un intervento di più ampia portata, inteso a
portare a compimento il processo di
avvicinamento delle forme di tutela dell’interesse legittimo a quelle del
diritto soggettivo iniziato con la celeberrima sentenza n. 500 del 1999 delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la risarcibilità di
tale posizione soggettiva.
Invero,
la legge 205 del 2000, attribuendo al g.a. il potere di condannare la p.a. al
risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione degli interessi
legittimi, ha arricchito la giurisdizione amministrativa di uno strumento di
tutela che, in precedenza, si riteneva estraneo alla sua natura eminentemente
impugnatoria.
Alla
domanda se tale in tal modo si fosse trasfigurato il ruolo costituzionale del
g.a., attribuendogli in via generalizzata controversie meramente patrimoniali
vertenti su diritti soggettivi,
La
Consulta ha aggiunto che ciò realizza compiutamente il disegno costituzionale
in quanto all’interesse legittimo deve
essere garantita, al pari del diritto soggettivo, una tutela
giurisdizionale piena ed effettiva (art.
24 Cost.) ed il g.a., che ne è il “giudice naturale”, deve poter, quindi,
disporre di tutti gli strumenti e le azioni che sono a tal fine necessarie.
Pertanto,
a differenza di ciò che avveniva in passato, l’attribuzione di una determinata
controversia all’uno o all’altro dei due ordini giurisdizionali non deve più
comportare una limitazione delle forme di tutela esperibili, dovendo essere entrambi
i giudici in grado di accordare al cittadino in modo pieno, celere ed effettivo
tutte le utilità che il diritto sostanziale riconnette alla posizione
soggettiva dedotta in giudizio, sia essa di diritto soggettivo o di interesse
legittimo.
Coerentemente
con tali premesse di fondo l’art. 7 del nuovo codice[1]
non pone più al centro della giurisdizione amministrativa l’impugnazione di un
atto ma la posizione soggettiva lesa dallo scorretto esercizio del potere
amministrativo che può manifestarsi attraverso atti, provvedimenti,
comportamenti o accordi.
E,
altrettanto coerentemente, gli strumenti di tutela, i poteri cognitori e quelli istruttori che il
nuovo codice attribuisce al giudice amministrativo, a differenza di quanto accadeva
in passato, non sono diversi a seconda che egli agisca in sede di giurisdizione
di legittimità o in sede di giurisdizione esclusiva[2].
In
linea con tale impostazione la disciplina delle azioni di cognizione contenuta
nel capo II del titolo III del codice
era in origine molto ricca comprensiva
di plurime ed articolate forme di tutela che si affiancavano alla tradizionale
azione di annullamento. Il testo licenziato dalla Commissione mista costituita
presso il Consiglio di Stato, che ha redatto la bozza di codice trasmessa al
Governo, prevedeva, infatti, la possibilità di esperire anche azioni di accertamento
e condanna, ivi compresa l’azione di adempimento che consentiva
al ricorrente, che avesse azionato un interesse legittimo pretensivo, di
chiedere la condanna dell’amministrazione alla emanazione del provvedimento
richiesto o denegato.
Nel
corso del passaggio governativo il testo del codice è stato però fatto oggetto di una incisiva
revisione che, a detta di molti, ne ha fortemente ridotto l’impatto innovativo,
soprattutto per quello che riguarda la disciplina delle azioni.
E’
stata, infatti, espunta l’azione di adempimento. L’azione di accertamento da
rimedio a carattere generale è divenuta uno strumento preordinato ad ottenere
la declaratoria degli atti amministrativi nulli ed è stata sottoposta ad un
termine decadenziale di 180 giorni.
Anche
l’azione risarcitoria per la lesione di interessi legittimi ha subito modifiche
che sembrano ridurne le potenzialità.
Infatti,
il termine previsto per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma, che
nella bozza licenziata dalla Commissione era di 180 giorni, è stato
ulteriormente ristretto a 120 giorni. Viene, inoltre, confermato il carattere residuale di tale azione,
imponendo al ricorrente di dimostrare
che il danno non avrebbe potuto essere
evitato ricorrendo ad altri mezzi di tutela previsti dall’ordinamento.
Tali
modifiche, come vedremo, per quanto inopportune e contrastanti con le linee
portanti dell’opera di codificazione del processo amministrativo, non ne hanno,
tuttavia, minato l’impianto sistematico: il codice, se correttamente
interpretato, rimane comunque un’opera importante che consolida le conquiste
giurisprudenziali relative alla tutela
dell’interesse legittimo ed, anzi, le fa progredire nell’ottica di un tutela
piena ed effettiva di tale posizione soggettiva.
2.
La tutela reintegratoria dell’interesse legittimo: le azioni di annullamento
e condanna.
La
tutela dell’interesse legittimo continua a ruotare attorno all’azione di
annullamento che è riproposta nella sua
dimensione tradizionale di strumento preordinato alla caducazione degli atti
viziati da incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (art. 29).
Ciò
non significa, tuttavia, che il codice conservi integra l’impronta cassatoria
del giudizio di legittimità che, in precedenza, limitava la cognizione del
giudice ai soli profili dell’azione amministrativa dedotti come vizi
dell’atto, lasciando ogni ulteriore determinazione ai successivi
provvedimenti dell’autorità amministrativa.
Le
novità che caratterizzano la nuova normativa processuale riguardano,
infatti, proprio le misure
ulteriori rispetto all’annullamento che
la sentenza del giudice amministrativo può contenere.
Scompare, infatti, la formula secondo cui la pronuncia di annullamento deve
fare salvi gli ulteriori provvedimento della autorità amministrativa[3].
La
sentenza del giudice che annulla l’atto
non si ferma, quindi, al momento cassatorio ma può contenere anche ulteriori
misure fra cui spiccano quelle tendenti ad assicurare l’attuazione del
giudicato e delle pronunce non sospese, in precedenza riservate al giudice
dell’ottemperanza e che ora possono, invece, essere adottate “anche in sede di
cognizione (art. 34 comma 1 lett. “e”).
Ma
il codice va oltre.
L’azione
di annullamento può, infatti, essere accompagnata o seguita da un’azione di
condanna (art. 30 comma 1) attraverso la quale il giudice può adottare
tutte le misure idonee a tutelare la posizione giuridica soggettiva dedotta in
giudizio (art. 34 comma 1 lett. “c”).
Tale
azione di condanna «atipica» non riguarda solo la tutela dei diritti
soggettivi, né va confusa con quella al risarcimento del danno in forma
specifica che il codice tiene da essa ben distinta.
Si
tratta, invece, di un’azione di condanna
ad un facere della p.a. che mira
alla integrale e diretta soddisfazione della posizione soggettiva di
interesse legittimo lesa dall’atto impugnato.
Il
codice rimane vago sui possibili contenuti di tale azione.
Essa
potrà senza dubbio consistere in una pronuncia ordinatoria che indichi i comportamenti
che la p.a. deve tenere per reintegrare la posizione soggettiva lesa dal provvedimento
allo stato in cui essa si trovava prima della sua emanazione: in tale tipologia
rientreranno, ad esempio, gli ordini di rilasciare o rimettere in pristino il
fondo occupato manipolato dalla p.a. in esecuzione di un provvedimento di
espropriazione o di occupazione annullato o di reintegrare un impiegato
illegittimamente licenziato (con relativa ricostruzione della carriera).
La
pronuncia di condanna potrà poi servire per far ottenere al privato prestazioni
consequenziali alla emanazione di un provvedimento ampliativo o ad un accordo
amministrativo (sussidi, finanziamenti, consegna di beni anche demaniali etc.).
Il
punto più controverso è, però, se
l’azione di condanna “atipica”
possa consentire al ricorrente di
ottenere una pronuncia che ordini
alla p.a. ad emettere il provvedimento ampliativo da essa illegittimamente
denegato, recuperando, così, per tale via, l’azione di adempimento.
Non
paiono sussistere ostacoli di ordine letterale o sistematico a tale
conclusione.
Dal
punto di vista letterale la formula ampia
con cui il codice descrive il
contenuto che può assumere la sentenza di condanna atipica appare idonea a
comprendere ogni tipo di misura ordinatoria, senza esclusione alcuna.
Nel
nuovo contesto sistematico del codice, inoltre,
non sembra più lecito affermare che il giudice non potrebbe mai
arrivare e definire il contenuto del provvedimento richiesto dal privato, in
quanto la sua cognizione sarebbe limitata ai soli vizi dell’atto dedotti nel ricorso.
Tale
assunto poteva valere quando l’unica azione a disposizione del titolare
dell’interesse legittimo pretensivo era quella di annullamento; ma oggi che il
codice contempla anche l’azione di condanna nulla si oppone a che l’oggetto del
giudizio di annullamento possa essere integrato, sottoponendo all’esame del
giudice anche quei tratti vincolati di azione amministrativa che, siccome non
presi in considerazione dalla motivazione o dagli atti preparatori che hanno
preceduto l’atto impugnato, non potevano essere dedotti come motivi di impugnazione[4].
Siffatta
impostazione consente, peraltro, di colmare una lacuna del processo amministrativo
di legittimità.
Fino
alla entrata in vigore del codice, infatti, la pronuncia del giudice in ordine
alla spettanza di un determinato
provvedimento amministrativo era consentita soltanto in sede di giudizio sul silenzio nel quale, a seguito
della riformulazione dell’art. 2 della L. 241 del 1990 operata dalla L. 80 del
2005, il privato poteva chiedere non solo l’accertamento dell’obbligo della
p.a. di provvedere ma anche che venisse dichiarata la fondatezza della propria
istanza.
Un’analoga
possibilità non era, invece, prevista nel caso di impugnazione di un atto di
diniego, poichè, in tale ipotesi, il giudizio continuava a vertere soltanto sui
profili di illegittimità dell’azione amministrativa deducibili come vizi
dell’atto, con conseguente facoltà della p.a. di reiterare un nuovo
provvedimento negativo sulla base di motivi diversi da quelli esaminati dal
giudice[5].
Sotto
il profilo sostanziale il legislatore ha cercato di colmare tale lacuna con
l’art. 10 bis della L. 241 del 1990 il quale obbliga la p.a. che intenda adottare un provvedimento
di diniego a comunicare preventivamente al privato “i motivi che ostano
all’accoglimento della istanza”.
Tale
disposizione, pur avendo direttamente ad oggetto solo la completezza del
contraddittorio procedimentale, ha importanti riflessi anche sul piano della
tutela giurisdizionale. Essa, infatti,
introduce il principio secondo
cui la p.a non ha solo l’obbligo di emanare il provvedimento conclusivo del
procedimento entro il termine all’uopo previsto, ma, quando si tratta di poteri
che incidono su istanze ampliative della sfera giuridica del cittadino, deve altresì esercitare il proprio potere in
maniera completa ed esaustiva, in
modo da consentire al richiedente di
contestare fin da subito in giudizio tutti i possibili profili ritenuti
ostativi all’accoglimento della sua istanza, senza lasciare margini per una
rinnovazione del provvedimento di diniego su basi diverse.
Tuttavia,
in difetto di una norma processuale analoga a quella contenuta nel comma 8°
dell’art. 2 della L. 241 del 1990, che, in caso di mancato esercizio del potere amministrativo, consente
al giudice di accertare direttamente i presupposti per l’accoglimento della
istanza, l’interesse del privato ad
ottenere un esame completo ed esaustivo della propria istanza, pur essendo
protetto dall’art. 10 bis della L. 241 del 1990, è rimasto privo di tutela giurisdizionale.
L’azione
di condanna atipica consente oggi di superare tale vuoto di tutela..
Essa,
infatti, potrà essere azionata tutte le volte in cui la p.a., violando l’art.
10 bis della L. 241 del 1990, rigetti
un’istanza del privato limitandosi a compiere solo alcuni degli
accertamenti all’uopo necessari. In tali ipotesi i presupposti non accertati
dalla p.a., e, quindi non deducibili sub specie di vizi del provvedimento di
diniego, potranno essere dedotti in giudizio come causa petendi dell’azione di condanna al rilascio del provvedimento
favorevole.
Tale
azione viene così a costituire
un’appendice del giudizio di annullamento avente una struttura ed una finalità
analoghe a quelle del giudizio sul silenzio nel quale, parimenti, il privato tende a superare gli effetti
negativi di un omissione della p.a. deducendo direttamente davanti al giudice i
profili del potere che non hanno formato oggetto di un provvedimento
amministrativo.
2.1
I limiti all’esperimento della azione di
condanna alla emissione di un provvedimento.
La
proponibilità di un’azione di condanna avente ad oggetto il rilascio di un
provvedimento illegittimamente denegato non è tuttavia incondizionata ma
incontra precisi limiti.
Il
codice, infatti, pur non prevedendo più
salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa
dopo la pronuncia di annullamento, pone comunque altri paletti che hanno il medesimo scopo di salvaguardare
l’autonomia dell’azione amministrativa.
In
primo luogo vale il principio sancito dall’art. 7 comma 6 del codice secondo
cui, in sede di giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo non può
sostituirsi all’amministrazione.
L’azione
di condanna alla emanazione del provvedimento denegato non potrà, quindi,
considerarsi ammissibile allorché, a seguito dell’annullamento del diniego,
residuino ancora in capo alla p.a. poteri di valutazione discrezionale o
tecnico-discrezionale.
Inoltre,
il g.a. potrà solo condannare l’amministrazione ad emettere un certo provvedimento
ma non anche adottare direttamente l’atto richiesto, poiché anche tale potere è
consentito solo nell’esercizio della giurisdizione di merito (art. 34 comma 1
lett. “d”).
Di
più difficile interpretazione è l’altro limite che il codice pone ai poteri
decisori del g.a., consistente nel
divieto di “pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora
esercitati”.
Nella
versione iniziale dell’articolato
licenziata dalla commissione mista, tale limite riguardava solo l’azione
di accertamento e trovava la sua ragion d’essere nel fatto che il legislatore
voleva evitare che il g.a. potesse
condizionare l’operato della p.a. quando il procedimento non era ancora
concluso.
La
predetta limitazione non operava, quindi, nel caso di proposizione della azione
sul silenzio dopo la scadenza del termine per provvedere o nel caso di
esperimento della (inizialmente prevista) azione di adempimento che era
proponibile solo dopo l’annullamento di un atto di diniego illegittimo.
A
seguito della revisione governativa, che ha eliminato l’azione di
accertamento, il divieto di pronunciare
in relazione a poteri amministrativi non ancora esercitati è stato mantenuto ed ha trovato collocazione nell’art. 34 che riguarda tutte le tipologie
i pronuncia del g.a., assumendo, in tal
modo, portata generale.
Non
è facile dare un significato alla disposizione in questa sua nuova
collocazione.
Essa,
infatti, se presa alla lettera, collide con la possibilità data al giudice di
accertare autonomamente la fondatezza
della pretesa nell’ambito del giudizio sul silenzio che non ha alle spalle poteri amministrativi
già esercitati.
Si
potrebbe ipotizzare che il legislatore abbia inteso escludere il potere del
g.a. di pronunciarsi sulla domanda del privato tutte le volte in cui i fatti
costitutivi del potere non trovino rispondenza nell’istruttoria compiuta
dall’amministrazione e debbano, quindi, essere accertati per la prima volta in
sede giurisdizionale.
Ma
una siffatta interpretazione appare in contraddizione con una pluralità di dati
testuali e sistematici offerti dal codice.
Viene
innanzitutto in considerazione il disposto del terzo comma dell’art. 31 che,
nel giudizio sul silenzio, ammette sempre che il giudice possa accertare la
fondatezza della istanza quando «si tratta di attività vincolata», escludendo
che questi possa sostituirsi alla p.a. nel compiere accertamenti istruttori solo quando «residuino ulteriori margini di
discrezionalità».
Inoltre,
ai fini della questione ora esaminata, non appare irrilevante il fatto che il codice
abbia rimosso molti dei limiti che, in
precedenza, caratterizzavano l’istruttoria nel giudizio di legittimità.
Infatti,
non solo sono stati ampliati i mezzi
ammissibili[6], ma anche i
presupposti dell’istruzione non sono più correlati alla necessità di chiarire aspetti lacunosi o contraddittori
dell’istruttoria compiuta
dall’amministrazione in sede procedimentale (art. 44 comma 1 R.D. 1054 del 1924).
Oggi,
pertanto, è consentito un pieno e diretto accesso al fatto da parte del giudice
amministrativo la cui indagine non deve essere necessariamente diretta a
chiarire o confutare elementi già emergenti dal dossier approntato dalla p.a., ma ben può riferirsi a profili di
fatto autonomi in quanto rilevanti ai fini della decisione[7].
Il
significato da attribuire al divieto di pronuncia su poteri non ancora
esercitati non sembra, quindi dover essere diverso da quello che tale formula
aveva nella originaria bozza di codice approvata dalla commissione mista: tale
limite preclude l’esperimento di qualunque forma di azione giurisdizionale
prima che la p.a. abbia provveduto o che sia scaduto il termine per provvedere.
Una volta verificatisi tali presupposti
processuali il g.a. può accertare se sussistono le condizioni di fatto per
l’emanazione del provvedimento favorevole illegittimamente omesso o
denegato con il solo limite di
non potersi sostituire alla p.a. nell’effettuare apprezzamenti discrezionali o
accertamenti tecnici ad essa riservati.
3.
L’azione di condanna al risarcimento del
danno per la lesione degli interessi legittimi:
il problema della autonomia dell’azione
risarcitoria.
Al
momento della entrata in vigore del codice la questione processuale più
dibattuta in ordine alla azione di condanna al risarcimento del danno per la
lesione di interessi legittimi riguardava, come è noto, la sua autonomia da
quella di annullamento dell’atto lesivo.
Tale
problema è stato al centro di un acceso confronto dottrinale e, soprattutto,
giurisprudenziale che ha visto contrapporsi l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Il
giudice del riparto ha, infatti, accolto la tesi della autonomia dell’azione
risarcitoria per lesione degli interessi legittimi rispetto alla domanda di
annullamento dell’atto lesivo, ritenendo che, dal punto di vista dell’illecito
civile, il provvedimento illegittimo
venga in considerazione non come
atto della autorità produttivo di determinati effetti giuridici da
rimuovere, ma come mero fatto immediatamente lesivo di una posizione soggettiva da cui
deriva un’obbligazione risarcitoria volta a riparare il danno patrimoniale conseguente.
Di
diverso avviso è stato, invece, il Consiglio di Stato il quale, ha, invece,
ritenuto che la domanda risarcitoria per la lesione di un interesse legittimo
presupponga sempre la previa impugnazione dell’atto lesivo.
La
ricostruzione interamente privatistica della responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi
operata dalla Corte di Cassazione al giudice amministrativo è sembrata in
contrasto con
taluni principi fondamentali del
diritto amministrativo sostanziale e
processuale fra cui, in particolare: quello secondo cui l’efficacia imperativa
dell’atto amministrativo comporta che le conseguenze da esso prodotte
debbano essere considerate conformi alla legge fino a quando esso non venga annullato; quello secondo cui la stabilità dei rapporti giuridici
creati dal provvedimento deve essere presidiata da un termine decadenziale
breve e non può essere minata dalla possibilità di proporre l’azione risarcitoria entro il termine quinquennale di
prescrizione; quello secondo cui la cognizione del g.a sull’atto lesivo deve
avere carattere necessariamente principale e non incidentale, in quanto
la giurisdizione del g.a., diversamente da quella ordinaria, non e’ preordinata alla risoluzione di controversie in cui sono
in gioco solo interessi individuali delle parti, ma e’ altresì volta a
garantire l’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa.
La disciplina dell’azione risarcitoria dettata dal
nuovo codice dovrebbe rappresentare un momento di composizione e
compromesso fra le divergenti posizioni sopra ricordate.
L’articolato,
infatti, prevede, da un lato, l’abbandono del modello rigido di relazione fra l’azione risarcitoria e
quella di annullamento basato sulla pregiudiziale amministrativa, ma,
dall’altro, controbilancia l’autonomia della azione risarcitoria assoggettandola ad un termine decadenziale
breve, benché più lungo di quello per l’impugnazione dell’atto lesivo, e,
soprattutto, escludendo la risarcibilità
delle conseguenze dannose che avrebbero potuto essere evitate ricorrendo ad
altri strumenti di tutela.
3.1 Il Termine decadenziale.
Con
riguardo al primo profilo, il nuovo codice, ha affrancato la proposizione
dell’azione risarcitoria dal
termine di sessanta giorni previsto per
l’impugnazione dell’atto lesivo, ma, al contempo, ha introdotto un autonomo
termine decadenziale di 120 giorni per la sua instaurazione.
Oggi,
pertanto, dall’inoppugnabilità dell’atto non deriva più la perdita di ogni
rilevanza giuridica della lesione dell’interesse legittimo, ma solo il venir
meno della possibilità di esperire uno dei mezzi di tutela che l’ordinamento
predispone a presidio di tale posizione
soggettiva, mentre la definitiva copertura dell’operato della p.a. da
ogni forma di reazione giurisdizionale contro l’atto lesivo dell’interesse
legittimo si perfeziona solamente con il decorso del più lungo termine previsto
per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma.
Non
del tutto chiara risulta, però, l’individuazione del momento i cui il predetto
termine inizia a decorrere. Il comma 3° dell’art. 30 prevede, infatti, che la domanda di risarcimento per la lesione
di interessi legittimi debba essere proposta entro il termine di centoventi
giorni «dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del
provvedimento se il danno deriva direttamente da questo».
La
prima parte della norma riproduce la formula dell’art. 2947 del codice civile
che fa decorrere la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento “dal momento in cui il fatto si
è verificato”, mentre, la seconda
riconduce il dies a quo dal quale decorre il termine decadenziale alla
conoscenza del provvedimento nei casi in cui il danno derivi direttamente da
questo.
Il
modo in cui è formulata la disposizione fa sorgere il dubbio se il legislatore
abbia inteso ricollegare la decorrenza del termine per la proposizione della
azione risarcitoria alla semplice
percezione da parte della vittima della lesione della sua posizione soggettiva ad opera del
provvedimento (cd. «danno evento») oppure al momento in cui si sono verificate le
conseguenze dannose sul piano patrimoniale o dei diritti della persona (cd.
«danno conseguenza»).
Fra
le due alternative quella più rispondente alla logica risarcitoria e al dato letterale della norma sembra essere
la prima: diversamente da quanto avviene per l’azione di annullamento, ai fini
dell’utile esperimento della azione risarcitoria non è, infatti, sufficiente la
semplice percezione della lesione della sfera giuridica individuale provocata dall’atto illegittimo, ma è altresì necessaria un’esatta percezione delle
conseguenze dannose che, nella maggior parte dei casi, non avviene al momento
della conoscenza dell’atto ma in quello in cui tali conseguenze si sono
prodotte e sono divenute conoscibili alla vittima anche in relazione al nesso
eziologico che le lega al fatto illecito
La
lettura della norma che appare preferibile è, quindi, quella che fa decorrere il termine per la
proposizione della azione risarcitoria dal momento in cui le conseguenze
dannose siano esattamente percepibili e
quantificabili dalla vittima con l’uso dell’ordinaria diligenza, salva
l’ipotesi, da considerarsi eccezionale, in cui l’emanazione del provvedimento illegittimo costituisca non
solo fonte della lesione della posizione soggettiva ma anche un danno
conseguenza.
3.2 La decorrenza del termine
decadenziale nel caso di domanda risarcitoria proposta dopo l’esperimento
dell’azione di annullamento.
Il
termine per la proposizione della azione risarcitoria muta qualora venga
esperita anche l’azione di annullamento dell’atto lesivo. In tal caso il comma
5° dell’articolo in commento prevede che la domanda risarcitoria possa essere
formulata in corso di giudizio e fino al 120° giorno dal passaggio in giudicato della sentenza di
annullamento.
La
norma costituisce un corollario dello sfavore con cui il codice guarda alla
proposizione dell’azione risarcitoria autonoma. Infatti, qualora il danneggiato
non voglia correre il rischio di vedersi decurtato il risarcimento del danno
evitabile con l’ordinaria diligenza, deve preventivamente impugnare l’atto e,
va da sé, che, in tal caso, il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento debba rimanere sospeso fino
a quando i mezzi di tutela alternativi atti ad evitare il danno non siano
esauriti.
Pertanto,
logica avrebbe voluto che la sospensione del termine durasse fino al momento in
cui il danno provocato dall’atto illegittimo fosse stato, per quanto
possibile, rimosso a seguito della
esecuzione del giudicato da parte della p.a. o di un commissario ad acta nominato dal giudice della
ottemperanza.
Il
codice, invece, individua il dies a quo
dal quale il termine decorre nel momento del passaggio in giudicato della
sentenza che ha disposto l’annullamento la quale, di per sé, raramente vale ad
eliminare la lesione subita dal
privato, occorrendo, quasi sempre, al tal fine, un nuovo esercizio di potere
amministrativo che tenga conto degli effetti conformativi del giudicato.
Ciò
produce non poche incongruenze.
Infatti,
il danneggiato, per non incorrere in decadenza,
è costretto ad esperire un’azione risarcitoria “autonoma” anche qualora
la p.a. non abbia ancora concluso il procedimento diretto a dare esecuzione al
giudicato, frustrando, così, la stessa ragion d’essere della norma che è quella
di dare la preferenza alla tutela demolitorio conformativa. Oppure, sempre per
evitare di perdere definitivamente il diritto al risarcimento, il privato si
vede costretto ad instaurare il giudizio di ottemperanza avvalendosi della
previsione di cui al comma 4° dell’art. 112 che consente di proporre l’azione
risarcitoria in tale sede, ma sempre nel termine di 120 giorni. Anche
quest’ultima soluzione appare, tuttavia,
poco coerente in quanto impone al privato di adire il giudice della
ottemperanza pur quando
l’amministrazione si sia tempestivamente
attivata per dare spontanea esecuzione
al giudicato ma non abbia ancora concluso il
relativo procedimento.
Vi
sono poi ipotesi in cui il danno viene in essere soltanto dopo il passaggio in
giudicato della sentenza come accade quando, dopo tale momento, si verifichi un
evento che renda impossibile l’emanazione del provvedimento favorevole chiesto
dal privato.
In
questi casi il termine per la proposizione della azione risarcitoria non può
iniziare a decorrere dal momento in cui la sentenza di annullamento è diventa definitiva ma deve
iniziare a conteggiarsi solo a seguito del prodursi del danno, perché è solo da
quel momento il diritto al risarcimento può essere fatto valere.
Il
termine previsto dalla norma riguarda,
quindi, le domande concernenti i danni già esistenti prima della formazione del
giudicato. Mentre per i danni successivi che siano causalmente
riconducibili al provvedimento
illegittimo il termine decorrerà dal momento del loro verificarsi.
Una
disciplina speciale è poi dettata per i danni derivanti dalla mancata
esecuzione del giudicato da parte della p.a., i quali, ai sensi degli artt. 112
comma 3° e 114 comma 4° lettera “e” del codice, possono essere chiesti
nell’ambito del giudizio di ottemperanza
entro il più ampio termine decennale in cui tale giudizio può essere
introdotto.
3.3 La decorrenza del termine nel caso
di danni derivanti dall’inosservanza del termine per provvedere.
Il
comma 4° dell’art. 30 disciplina,
poi, l’ipotesi in cui il danno non
derivi da un provvedimento ma dall’inosservanza del termine per la conclusione
del procedimento (cd. “danno da ritardo”).
In
tal caso, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di danno derivante da
illegittimo diniego dell’istanza, è
previsto che il termine di 120 giorni per la proposizione dell’azione
risarcitoria inizi a decorrere dal momento in cui cessa l’inadempimento e cioè
quando l’amministrazione (o il commissario nominato dal g.a.) emetta il provvedimento
dovuto.
Il
ritardo della p.a. nel provvedere viene, quindi, considerato alla stregua di un
“illecito permanente” che cessa soltanto al momento dell’adozione dell’atto
conclusivo del procedimento sulla falsariga di quanto il Consiglio di Stato
aveva già affermato.
Il
codice chiarisce, tuttavia, che, nel
caso in cui l’azione contro il silenzio della p.a. non venga instaurata entro un anno dalla scadenza del termine per
la conclusione del procedimento, l’azione risarcitoria deve essere proposta entro i successivi
centoventi giorni.
La
soluzione adottata dal legislatore, discostandosi da quanto fino ad oggi
affermato dalla giurisprudenza (che assegna al termine per intraprendere il
giudizio sul silenzio una valenza meramente processuale), presuppone che il decorso del termine annuale comporti
l’estinzione dell’obbligo della p.a. di provvedere, e faccia, quindi, venir
meno l’illecito omissivo.
3.4 La riduzione del risarcimento per il
danno evitabile con l’uso dell’ordinaria diligenza: le divergenti ispirazioni
che stanno alla base della norma e la loro incidenza sul suo iter formativo.
Come
si è già anticipato il codice non
colloca più il nesso fra l’azione
risarcitoria e quella di annullamento
nel momento del prodursi dell’antigiuridicità della lesione, ma in
quello successivo della possibile eliminazione
o riduzione delle conseguenze dannose derivanti dall’illecito. Il comma
3° della norma in commento esclude, infatti, la risarcibilità dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria
diligenza e fra i modelli di comportamento diligente atti ad evitare il
danno include “l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”.
L’evidente
ambiguità della formula risente della tensione irrisolta fra due opposti orientamenti
che si sono fronteggiati durante l’iter formativo del codice: il primo espresso
da coloro che auspicavano un pieno recupero della
pregiudiziale amministrativa addossando esclusivamente al ricorrente l’onere di
evitare il prodursi o l’aggravarsi del danno causato dal provvedimento
illegittimo attraverso la sua tempestiva impugnazione, e l’altro da coloro che attribuivano alla norma solo la
funzione di temperare il principio della autonomia dell’azione risarcitoria per
lesione degli interessi legittimi, consentendo al giudice di verificare, caso
per caso, se la mancata impugnazione dell’atto sia dipesa da un intento malizioso del ricorrente,
interessato più a lucrare una somma di danaro che a conseguire un provvedimento favorevole, oppure
se l’onere di evitare l’aggravamento del danno avrebbe potuto essere assolto
anche dalla p.a. attraverso l’esercizio dei suoi poteri di autotutela.
In
relazione alla prevalenza in un certo momento dell’una o dell’altra posizione
si sono succedute nell’iter formativo dell’articolato diverse formulazioni
della norma.
Nella
versione licenziata dalla Commissione
mista era previsto che il giudice amministrativo avrebbe dovuto escludere i
danni evitabili attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza, “anche attraverso
l’esercizio dei mezzi di tutela o invito all’autotutela”.
La
revisione governativa del testo inviato alle Commissioni parlamentari ha cancellato ogni riferimento all’invito
all’autotutela ricollegando l’esclusione del risarcimento “anche” alla mancata
“impugnazione, nel termine di decadenza, degli atti lesivi di interessi
legittimi”.
Nel
corso delle audizioni tenutesi presso
Degne
di menzione sono però le osservazioni formulate dal Primo Presidente della
Corte di Cassazione secondo cui “le modifiche introdotte nel nuovo testo
rendono la soluzione inaccettabile in quanto a) ulteriormente riducono il
termine di decadenza; b) condizionano il riconoscimento della tutela non già ad
elementi di leale collaborazione ma alla formale previa proposizione di una
diversa azione di un’azione di annullamento” dando “così vita ad una norma poco
comprensibile atteso che, da un lato, si afferma l’esistenza di una tutela
risarcitoria autonoma, ma, dall’altro, la si subordina all’aver formalmente
attivato la tutela impugnatoria”.
Delle
critiche del Primo Presidente ha in qualche modo tenuto conto il parere approvato dalla Commissione permanente
giustizia il quale, al fine di accentuare il potere di valutazione del giudice,
conformemente ai principi generali espressi dall’art. 1227 c.c., ha proposto
l’eliminazione del riferimento alla mancata impugnazione dell’atto lesivo fra
le circostanze che il giudice deve valutare ai fini della esclusione del
risarcimento sostituendolo con una dizione più generica secondo cui il fra i
comportamenti diligenti di cui il g.a. dovrebbe
tener conto vi sarebbe “anche”
l’”esercizio di ogni mezzo di tutela”.
In
sede di approvazione finale del testo il Governo ha ulteriormente modificato la
formulazione contenuta nel parere della Commissione giustizia prevedendo che il
giudice debba escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti
evitare usando l’ordinaria diligenza, “anche attraverso il ricorso agli
strumenti di tutela previsti”.
Appare
evidente come sul punto il legislatore non sia riuscito ad esprimere un
orientamento chiaro ed univoco preferendo ricorrere a formule ambigue che
lasciano all’interprete la soluzione dei problemi.
Volendo
comunque tentare un approccio ermeneutico oggettivo e sistematico alla norma
balza subito all’occhio che essa è volta a risolvere un problema di rapporti
fra diverse forme di tutela che è del tutto estraneo all’art. 1227 del codice
civile. Detto articolo, infatti, in
armonia con i principi solidaristici a cui e’ ispirata l’intera disciplina
delle obbligazioni del codice civile, impone al danneggiato di attivarsi per
non aggravare la posizione del debitore
compiendo quegli atti che, senza un particolare sforzo economico, possono
ridurre o contenere il danno. Non rientra però fra i doveri del danneggiato quello di agire
giudizialmente contro il debitore per ridurre un danno (come ad esempio la
maturazione degli interessi moratori) che potrebbe essere evitato attraverso lo spontaneo adempimento
dell’obbligazione.
L’onere
di esperire mezzi di tutela diversi dall’azione risarcitoria per non aggravare il danno non può, quindi, essere mutuato dalla citata
disposizione civilistica ma costituisce una regola «speciale» che
affonda le sue radici in una
permanente concezione pubblicistica della responsabilità della p.a. per
l’esercizio della sua funzione autoritativa secondo la quale l’annullamento
dell’atto lesivo costituisce il modo ordinario di protezione dell’interesse
legittimo.
Ciò,
tuttavia, non significa necessariamente che l’onere di ridurre il danno debba
essa addossato esclusivamente sul soggetto leso sul presupposto che egli
potrebbe provocare l’annullamento dell’atto lesivo impugnandolo in sede
giurisdizionale o amministrativa. Uguale possibilità, infatti, ha anche
l’amministrazione esercitando il suo potere di annullamento d’ufficio.
Sul
punto, come si è accennato, la disciplina del codice, dopo aver oscillato nel
suo iter formativo nell’uno e nell’altro senso, è rimasta alla fine volutamente
ambigua, lasciando aperta la questione se fra gli “strumenti di tutela
previsti” il cui esperimento avrebbe potuto evitare o ridurre il danno possa
includersi anche l’invito alla p.a. ad esercitare il suo potere di annullamento
dell’atto lesivo. La risposta a tale domanda implica un’analisi più
approfondita in ordine alla doverosità dell’esercizio del potere di autotutela a
fronte della commissione di un illecito provvedimentale.
Infatti,
alla tesi che addossa anche alla p.a. l’onere di rimuovere il danno attraverso
l’annullamento dell’atto lesivo sembrerebbe ostare il noto principio secondo
cui il potere di annullamento officioso del provvedimento costituirebbe uno strumento di autotutela
attivabile nell’esclusivo interesse pubblico ed al quale la p.a. non sarebbe
obbligata a ricorrere anche per rimediare alla lesione di un interesse del privato, essendovi altri
rimedi a tal fine preordinati.
Tale
assunto, tuttavia, presuppone che la
lesione inferta al privato dall’atto illegittimo sia divenuta giuridicamente
irrilevante a causa del consumarsi dei rimedi che questi ha a sua disposizione
per tutelare la sua posizione soggettiva. E’ solo in tal caso che il potere di
annullamento è attivabile solo in via di autotutela e non per sopperire ad una
tutela non più esperibile. Quando, invece, la lesione della posizione
soggettiva non è ancora divenuta incontestabile, la posizione della p.a.
rispetto all’esercizio del proprio potere di autoannullamento muta. Non a caso,
infatti, la giurisprudenza ha affermato che la p.a. è obbligata a prendere in
considerazione un’istanza di annullamento officioso presentata dal soggetto
leso prima della decorrenza del termine di impugnazione dell’atto lesivo
Il
principio della spontaneità della autotutela non pare, quindi, invocabile, a
fronte di un istanza di annullamento presentata prima della scadenza del
termine di 120 per la proposizione della azione risarcitoria: fino a tale
momento, infatti, l’emanazione del provvedimento illegittimo rimane
qualificabile come un fatto illecito di cui è la p.a. in primis ad essere
responsabile e, quindi, onerata della rimozione
delle relative conseguenze dannose.
L’onere
del privato di esperire i mezzi di tutela previsti può quindi consistere
nell’informare l’amministrazione dei profili di illegittimità da cui è affetto
l’atto e dei danni che lo stesso sta provocando nella sua sfera patrimoniale o
personale.
Spetterà
poi alla p.a. esaminare l’istanza e trarne le debite conseguenze.
Il
giudice dovrà valutare il comportamento di entrambe le parti alla luce di un
parametro di diligenza e buna fede: sarà, quindi, censurabile, sotto questo
punto di vista, il comportamento della p.a., che, nonostante il carattere
palese dei vizi e dei danni evidenziati
dal soggetto leso, rifiuti pretestuosamente di annullare l’atto. Ed altrettanto
censurabile dovrà ritenersi il comportamento del privato che proponga l’azione
risarcitoria senza aver prima assolto all’onere di cooperazione con
l’amministrazione o lo abbia assolto in modo parziale o insufficiente (non
evidenziando taluni vizi o tacendo importanti profili relativi al danno).
Ciò, peraltro, non rende la decisione dell’amministrazione
in ordine all’annullamento dell’atto lesivo obbligatoria e, quindi, coercibile
attraverso il giudizio sul silenzio: il decorso del termine di sessanta
giorni per l’impugnazione dell’atto
preclude infatti, come in passato, ogni forma di reazione giurisdizionale atta
a rimetterne in discussione gli effetti. Per cui, spirato tale termine, la rimozione degli effetti dell’atto costituisce
una scelta discrezionale della p.a. che dovrà
bilanciare i costi ed i benefici per l’interesse pubblico che derivano
dalla mancata eliminazione di conseguenze dannose che essa può essere
condannata a risarcire.
3.5 L’azione risarcitoria autonoma in
corso di giudizio.
Il
Codice disciplina anche l’ipotesi in cui l’opzione per la tutela
risarcitoria autonoma intervenga dopo la proposizione dell’azione di
annullamento, prevedendo che “quando,
nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta
più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se
sussiste l’interesse ai fini risarcitori” (art. 34 comma 3).
L’abbandono
della domanda di annullamento viene, quindi, condizionato al venir meno della utilità
della pronuncia di annullamento, circostanza che può verificarsi non solo nel
caso in cui sopravvenga un evento che renda impossibile la soddisfazione della
pretesa sostanziale del privato (come una nuova normativa che impedisca
l’accoglimento di una istanza che originariamente avrebbe potuto essere
favorevolmente esitata), ma anche nelle ipotesi in cui, nelle more del
giudizio, il privato perda ogni ragionevole interesse ad ottenere un
determinato provvedimento favorevole (ad esempio perché il costo della
immobilizzazione delle risorse necessarie ad intraprendere una determinata
attività economica impedita dal provvedimento impugnato divenga insostenibile e
non esigibile).
In
tali fattispecie sembra preferibile ritenere che il ricorrente non debba
scontare il rischio della decurtazione del risarcimento per la perdita della
utilità che avrebbe potuto conseguire
coltivando ad oltranza la domanda di annullamento, in quanto ciò
significherebbe addossargli anche le conseguenze derivanti dai tempi (non
brevi) del giudizio costringendolo ad insistere per l’ottenimento di un bene a
cui a causa dell’illegittimità dell’azione
amministrativa e della durata del processo egli non ha più alcun
interesse a conseguire.
3.6
Il risarcimento del danno in forma
specifica
Il codice prevede che la
condanna al risarcimento del danno possa avvenire anche in forma specifica.
Tale
rimedio non va confuso con l’azione di condanna reintegratoria o di adempimento,
che abbiamo già esaminato.
L’importanza
della distinzione non è solo teorica in quanto il codice disciplina le due
azioni di condanna in maniera diversa qualora esse siano dirette alla tutela di
interessi legittimi: la proposizione della domanda di risarcimento in forma
specifica è subordinata ad un termine
decadenziale di 120 giorni, ma può avvenire anche in via autonoma, senza la
previa impugnazione dell’atto lesivo. La condanna ripristinatoria, invece, non può essere chiesta autonomamente dalla
impugnazione dell’atto lesivo (art. 30 comma 1) ma non è assoggettata ad alcun
termine decadenziale.
Il
problema della esatta qualificazione delle due forme di tutela si pone in modo
evidente quando l’azione venga proposta a seguito del passaggio in giudicato
della sentenza di annullamento dell’atto
lesivo: se si tratta di una domanda di
condanna al risarcimento del danno in forma specifica essa dovrà essere
proposta a pena di decadenza entro 120
giorni da quello in cui la sentenza di annullamento è diventata definitiva, mentre,
qualora si tratti di una domanda di condanna avente natura ripristinatoria, non
sussiste alcun termine decadenziale per la sua proposizione.
Ad
esempio, nel caso della richiesta di
reintegro nella disponibilità di beni illegittimamente occupati dalla p.a. in
base a provvedimenti di espropriazione o occupazione annullati dal giudice
amministrativo, inquadrare la domanda
nell’ambito del risarcimento in forma specifica, come suole fare oggi la
giurisprudenza, porta alla indesiderata conseguenza che la restituzione del
bene espropriato rimanga definitivamente impedita qualora il proprietario non
la chieda entro previsto il termine decadenziale.
Specularmente
il problema può anche presentarsi quando la condanna ad un facere venga
proposta senza il previo annullamento dell’atto lesivo: anche qui ai fini
dell’ammissibilità dell’iniziativa processuale sarà necessario stabilire se il
comportamento richiesto alla p.a. abbia natura di risarcimento in forma
specifica oppure costituisca la
reintegrazione della posizione soggettiva lesa.
La
distinzione fra le due tipologie di azioni dovrà essere operata in base al
diverso risultato a cui esse mirano che, per quanto riguarda le azioni di
condanna mera è quello di far cessare la lesione in atto della posizione
soggettiva mediante un comando puntuale
che indichi alla p.a. il modo in
cui deve comportarsi per restituire o
attribuire al ricorrente la specifica utilità che gli doveva essere
garantita sul piano sostanziale, mentre per quanto riguarda la condanna al
risarcimento in forma specifica è quello di eliminare un danno già prodotto
mediante l’imposizione al danneggiante dell’obbligo di compiere una determinata
attività materiale “nuova” alla quale egli prima dell’illecito non sarebbe stato tenuto (ad esempio la ricostruzione di
un immobile abbattuto in esecuzione di un ordinanza di demolizione poi
annullata).
[1]
L’art. 7 comma 1 del nuovo codice, a differenza
dell’art. 26 del T.U. sul Consiglio di Stato, che incentrava la giurisdizione
del GA sull’annullamento di atti aventi ad oggetti interessi di individui o
enti morali, afferma che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le
controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi, e, nelle
particolari materie previste dalla legge, di diritti soggettivi..”, ponendo
così al centro del giudizio la tutela della posizione soggettiva e non l’atto
che la lede.
[2] Ed anche le differenze con la giurisdizione di merito sono assai meno marcate che in passato a
causa del venir meno dei limiti istruttori e decisori che il vecchio
ordinamento processuale imponeva al g.a. in sede di giurisdizione di
legittimità. Oggi, infatti, il giudice, anche in tale sede,
può indagare pienamente il fatto attraverso strumenti autonomi quali la
c.t.u. o la prova testimoniale (art. 63). Inoltre, la pronuncia di annullamento
non deve necessariamente fare salvi gli ulteriori provvedimenti della autorità
amministrativa anche quando i profili residui di esercizio del potere vertano
su elementi che non richiedono valutazioni o accertamenti discrezionali.
L’unico limite che soffre il g.a. nell’ambito della giurisdizione di
legittimità è quello di non potersi sostituire all’amministrazione (art. 7
comma 6) nell’apprezzamento dell’interesse pubblico, nell’applicazione al caso concreto di regole
tecniche opinabili che rientrano in una sfera di responsabilità riservata alla
p.a. o nell’emanare direttamente il provvedimento richiesto dal privato (art.
34 comma 1 lett. «d»).
[3] La riserva all’autorità amministrativa degli atti
successivi alla pronuncia di annullamento era, come è noto, prevista dall’art. 45 del R.D 1058 del 1924 e l’art.
26 della L. 1034 del 1971. Tale formula ha sempre rappresentato un limite
invalicabile ai poteri cognitori
esercitabili dal GA in sede di giurisdizione di legittimità,
confinandoli all’esame dei singoli vizi di legittimità dell’atto proposti nei
motivi di ricorso e precludendo così al giudice amministrativo di poter
prendere in esame il conflitto sostanziale di interessi fra cittadino e p.a. in
ordine al modo favorevole o sfavorevole con cui deve essere esercitato il
potere, consentendo, così, alla p.a. di
riemettere un nuovo provvedimento avente il medesimo contenuto lesivo di
quello annullato, ancorchè depurato dai vizi di legittimità accertati dal
giudice.
[4] Tale impostazione, trova, peraltro, conferma anche
nell’art. 40 comma 1 lett. “b” del codice che, nello specificare il “contenuto
del ricorso”, non identifica più l’oggetto della domanda con il solo atto o
provvedimento impugnato.
[5] E’ vero che nel caso in cui anche il nuovo
provvedimento fosse affetto da ulteriori vizi di legittimità il cittadino
poteva impugnarlo, ma tale meccanismo dava luogo ad una serie potenzialmente
infinita di giudizi qualora la p.a. avesse di volta in volta giustificato in
modo diverso la rinnovazione dell’atto lesivo.
[6] Il codice ammette anche in sede di giurisdizione di
legittimità non solo l’esperimento della c.t.u. (pur condizionandolo alla sua
indispensabilità – art. 67 -) ma anche della prova testimoniale sia pur solo in
forma scritta (art. 63 comma 3). Tali mezzi istruttori, in origine, erano
ammessi solo nell’ambito della giurisdizione di merito (art. 44 comma 2 R.D.
1054 del 1924). Solo con la riforma del processo amministrativo operata dalla
L. 205 del 2000 fu introdotta la possibilità di ammettere la c.t.u. anche in
sede di giurisdizione di legittimità.
[7] Nè si potrebbe obiettare che una siffatta
ricostruzione sarebbe incompatibile con la tradizionale posizione «passiva»
assunta nel processo amministrativo dalla p.a., la quale non avrebbe la
possibilità di contraddire le deduzioni del ricorrente con elementi diversi da
quelli emergenti dalla motivazione dell’atto impugnato o dei suoi atti preparatori.
Infatti, i poteri processuali della p.a., già ampliati dall’art. 21 octies
della L. 241 del 1990, sono stati ulteriormente rinvigoriti dal codice del
processo amministrativo che, accogliendo il principio
dispositivo e quello di non
contestazione (art. 64 comma 1), ed ammettendo esplicitamente la
possibilità per le parti resistenti di formulare vere e proprie «eccezioni»
anche di natura sostanziale, ha
notevolmente ampliato la autonomia delle parti nella definizione del thema decidendum e del thema probandum.