Raffaello Gisondi

 

LA DISCIPLINA DELLE AZIONI DI CONDANNA NEL NUOVO CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

 

pubblicato sul sito il 23 agosto 2010

 

 

INDICE: 1. Introduzione; 2.  La tutela reintegratoria dell’interesse legittimo: le azioni di annullamento e condanna; 2.1 I limiti all’esperimento della azione di condanna alla emissione di un provvedimento; 3. L’azione di condanna al risarcimento del danno per la  lesione degli interessi legittimi: il problema della autonomia dell’azione risarcitoria; 3.1 Il Termine decadenziale; 3.2 La decorrenza del termine decadenziale nel caso di domanda risarcitoria proposta dopo l’esperimento dell’azione di annullamento; 3.3 La decorrenza del termine nel caso di danni derivanti dall’inosservanza del termine per provvedere; 3.4 La riduzione del risarcimento per il danno evitabile con l’uso dell’ordinaria diligenza: le divergenti ispirazioni che stanno alla base della norma e la loro incidenza sul suo iter formativo; 3.5 L’azione risarcitoria autonoma in corso di giudizio; 3.6 Il risarcimento del danno in forma specifica;

 

1. Introduzione

 

Il tema delle azioni costituisce il cuore stesso del nuovo codice amministrativo.

La  nuova codificazione si  propone, infatti, non come una semplice operazione di riordino delle varie fonti in cui è  sparsa la disciplina del processo amministrativo, ma come un intervento di più ampia portata, inteso a portare  a compimento il processo di avvicinamento delle forme di tutela dell’interesse legittimo a quelle del diritto soggettivo iniziato con la celeberrima sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la risarcibilità di tale posizione soggettiva.

Invero, la legge 205 del 2000, attribuendo al g.a. il potere di condannare la p.a. al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione degli interessi legittimi, ha arricchito la giurisdizione amministrativa di uno strumento di tutela che, in precedenza, si riteneva estraneo alla sua natura eminentemente impugnatoria.

Alla domanda se tale in tal modo si fosse trasfigurato il ruolo costituzionale del g.a., attribuendogli in via generalizzata controversie meramente patrimoniali vertenti su diritti soggettivi, la Corte Costituzionale ha dato risposta negativa, osservando che quella sul risarcimento del danno non costituisce una giurisdizione su diritti soggettivi, bensì una forma di tutela ulteriore dell’interesse legittimo che si aggiunge a quella demolitorio conformativa (sentenza n. 204 del 2004).

La Consulta ha aggiunto che ciò realizza compiutamente il disegno costituzionale in quanto  all’interesse legittimo deve essere garantita, al pari del diritto soggettivo, una tutela giurisdizionale  piena ed effettiva (art. 24 Cost.) ed il g.a., che ne è il “giudice naturale”, deve poter, quindi, disporre di tutti gli strumenti e le azioni che sono a tal fine necessarie.

Pertanto, a differenza di ciò che avveniva in passato, l’attribuzione di una determinata controversia all’uno o all’altro dei due ordini giurisdizionali non deve più comportare una limitazione delle forme di tutela esperibili, dovendo essere entrambi i giudici in grado di accordare al cittadino in modo pieno, celere ed effettivo tutte le utilità che il diritto sostanziale riconnette alla posizione soggettiva dedotta in giudizio, sia essa di diritto soggettivo o di interesse legittimo.

Coerentemente con tali premesse di fondo l’art. 7 del nuovo codice[1] non pone più al centro della giurisdizione amministrativa l’impugnazione di un atto ma la posizione soggettiva lesa dallo scorretto esercizio del potere amministrativo che può manifestarsi attraverso atti, provvedimenti, comportamenti o accordi.

E, altrettanto coerentemente, gli strumenti di tutela,  i poteri cognitori e quelli istruttori che il nuovo codice attribuisce al giudice amministrativo, a differenza di quanto accadeva in passato, non sono diversi a seconda che egli agisca in sede di giurisdizione di legittimità o in sede di giurisdizione esclusiva[2].

In linea con tale impostazione la disciplina delle azioni di cognizione contenuta nel  capo II del titolo III del codice era in origine molto ricca  comprensiva di plurime ed articolate forme di tutela che si affiancavano alla tradizionale azione di annullamento. Il testo licenziato dalla Commissione mista costituita presso il Consiglio di Stato, che ha redatto la bozza di codice trasmessa al Governo, prevedeva, infatti, la possibilità di esperire anche azioni di accertamento e condanna, ivi compresa l’azione di adempimento che consentiva al ricorrente, che avesse azionato un interesse legittimo pretensivo, di chiedere la condanna dell’amministrazione alla emanazione del provvedimento richiesto o denegato.

Nel corso del passaggio governativo il testo del codice è  stato però fatto oggetto di una incisiva revisione che, a detta di molti, ne ha fortemente ridotto l’impatto innovativo, soprattutto per quello che riguarda la disciplina delle azioni.

E’ stata, infatti, espunta l’azione di adempimento. L’azione di accertamento da rimedio a carattere generale è divenuta uno strumento preordinato ad ottenere la declaratoria degli atti amministrativi nulli ed è stata sottoposta ad un termine decadenziale di 180 giorni.

Anche l’azione risarcitoria per la lesione di interessi legittimi ha subito modifiche che sembrano ridurne le potenzialità.

Infatti, il termine previsto per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma, che nella bozza licenziata dalla Commissione era di 180 giorni, è stato ulteriormente ristretto a 120 giorni. Viene, inoltre, confermato  il carattere residuale di tale azione, imponendo al ricorrente di  dimostrare che il danno  non avrebbe potuto essere evitato ricorrendo ad altri mezzi di tutela previsti dall’ordinamento.

Tali modifiche, come vedremo, per quanto inopportune e contrastanti con le linee portanti dell’opera di codificazione del processo amministrativo, non ne hanno, tuttavia, minato l’impianto sistematico: il codice, se correttamente interpretato, rimane comunque un’opera importante che consolida le conquiste giurisprudenziali relative  alla tutela dell’interesse legittimo ed, anzi, le fa progredire nell’ottica di un tutela piena ed effettiva di tale posizione soggettiva.

 

2. La tutela reintegratoria dell’interesse legittimo: le azioni di annullamento e condanna.

 

La tutela dell’interesse legittimo continua a ruotare attorno all’azione di annullamento che è riproposta  nella sua dimensione tradizionale di strumento preordinato alla caducazione degli atti viziati da incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (art. 29).

Ciò non significa, tuttavia, che il codice conservi integra l’impronta cassatoria del giudizio di legittimità che, in precedenza, limitava la cognizione del giudice ai  soli profili  dell’azione amministrativa dedotti come vizi dell’atto, lasciando ogni ulteriore determinazione ai successivi provvedimenti dell’autorità amministrativa.

Le novità che caratterizzano la nuova normativa processuale riguardano, infatti,  proprio le misure ulteriori  rispetto all’annullamento che la sentenza del giudice amministrativo può contenere.

Scompare, infatti, la formula  secondo cui la pronuncia di annullamento deve fare salvi gli ulteriori provvedimento della autorità amministrativa[3].

La sentenza  del giudice che annulla l’atto non si ferma, quindi, al momento cassatorio ma può contenere anche ulteriori misure fra cui spiccano quelle tendenti ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, in precedenza riservate al giudice dell’ottemperanza e che ora possono, invece, essere adottate “anche in sede di cognizione (art. 34 comma 1 lett. “e”).

Ma il codice va oltre.

L’azione di annullamento può, infatti, essere accompagnata o seguita da un’azione di condanna (art. 30 comma 1) attraverso la quale il giudice può adottare tutte le misure idonee a tutelare la posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (art. 34 comma 1 lett. “c”).

Tale azione di condanna «atipica» non riguarda solo la tutela dei diritti soggettivi, né va confusa con quella al risarcimento del danno in forma specifica che il codice tiene da essa ben distinta.

Si tratta, invece, di  un’azione di condanna ad un facere della p.a. che  mira alla   integrale e diretta  soddisfazione della posizione soggettiva di interesse legittimo lesa dall’atto impugnato.

Il codice rimane vago sui possibili contenuti di tale azione.

Essa potrà senza dubbio consistere in una pronuncia ordinatoria che indichi i comportamenti che la p.a. deve tenere per reintegrare la posizione soggettiva lesa dal provvedimento allo stato in cui essa si trovava prima della sua emanazione: in tale tipologia rientreranno, ad esempio, gli ordini di rilasciare o rimettere in pristino il fondo occupato manipolato dalla p.a. in esecuzione di un provvedimento di espropriazione o di occupazione annullato o di reintegrare un impiegato illegittimamente licenziato (con relativa ricostruzione della carriera).

La pronuncia di condanna potrà poi servire per far ottenere al privato prestazioni consequenziali alla emanazione di un provvedimento ampliativo o ad un accordo amministrativo (sussidi, finanziamenti, consegna di beni anche demaniali etc.).

Il punto più controverso è, però, se  l’azione di condanna “atipica”  possa consentire al ricorrente di  ottenere  una pronuncia che ordini alla p.a. ad emettere il provvedimento ampliativo da essa illegittimamente denegato, recuperando, così, per tale via, l’azione di adempimento.

Non paiono sussistere ostacoli di ordine letterale o sistematico a tale conclusione.

Dal punto di vista letterale la formula ampia  con cui il codice  descrive il contenuto che può assumere la sentenza di condanna atipica appare idonea a comprendere ogni tipo di misura ordinatoria, senza esclusione alcuna.

Nel nuovo contesto sistematico del codice, inoltre,  non sembra  più lecito  affermare che il giudice non potrebbe mai arrivare e definire il contenuto del provvedimento richiesto dal privato, in quanto la sua cognizione sarebbe limitata ai soli vizi dell’atto  dedotti nel ricorso.

Tale assunto poteva valere quando l’unica azione a disposizione del titolare dell’interesse legittimo pretensivo era quella di annullamento; ma oggi che il codice contempla anche l’azione di condanna nulla si oppone a che l’oggetto del giudizio di annullamento possa essere integrato, sottoponendo all’esame del giudice anche quei tratti vincolati di azione amministrativa che, siccome non presi in considerazione dalla motivazione o dagli atti preparatori che hanno preceduto l’atto impugnato, non potevano essere dedotti come motivi di impugnazione[4].

Siffatta impostazione consente, peraltro, di colmare una lacuna del processo amministrativo di legittimità.

Fino alla entrata in vigore del codice, infatti, la pronuncia del giudice in ordine alla  spettanza di un determinato provvedimento amministrativo era consentita soltanto in sede di  giudizio sul silenzio nel quale, a seguito della riformulazione dell’art. 2 della L. 241 del 1990 operata dalla L. 80 del 2005, il privato poteva chiedere non solo l’accertamento dell’obbligo della p.a. di provvedere ma anche che venisse dichiarata la fondatezza della propria istanza.

Un’analoga possibilità non era, invece, prevista nel caso di impugnazione di un atto di diniego, poichè, in tale ipotesi, il giudizio continuava a vertere soltanto sui profili di illegittimità dell’azione amministrativa deducibili come vizi dell’atto, con conseguente facoltà della p.a. di reiterare un nuovo provvedimento negativo sulla base di motivi diversi da quelli esaminati dal giudice[5].

Sotto il profilo sostanziale il legislatore ha cercato di colmare tale lacuna con l’art. 10 bis della L. 241 del 1990 il quale obbliga  la p.a. che intenda adottare un provvedimento di diniego a comunicare preventivamente al privato “i motivi che ostano all’accoglimento della istanza”.

Tale disposizione, pur avendo direttamente ad oggetto solo la completezza del contraddittorio procedimentale, ha importanti riflessi anche sul piano della tutela giurisdizionale. Essa, infatti,  introduce  il principio secondo cui la p.a non ha solo l’obbligo di emanare il provvedimento conclusivo del procedimento entro il termine all’uopo previsto, ma, quando si tratta di poteri che incidono su istanze ampliative della sfera giuridica del cittadino,  deve altresì esercitare il proprio potere in maniera completa ed esaustiva, in modo da consentire al richiedente  di contestare fin da subito in giudizio tutti i possibili profili ritenuti ostativi all’accoglimento della sua istanza, senza lasciare margini per una rinnovazione del provvedimento di diniego su basi diverse.

Tuttavia, in difetto di una norma processuale analoga a quella contenuta nel comma 8° dell’art. 2 della L. 241 del 1990, che, in caso di mancato  esercizio del potere amministrativo, consente al giudice di accertare direttamente i presupposti per l’accoglimento della istanza, l’interesse del privato  ad ottenere un esame completo ed esaustivo della propria istanza, pur essendo protetto dall’art. 10 bis della L. 241 del 1990, è rimasto  privo di tutela giurisdizionale.

L’azione di condanna atipica consente oggi di superare tale vuoto di tutela..

Essa, infatti, potrà essere azionata tutte le volte in cui la p.a., violando l’art. 10 bis della L. 241 del 1990, rigetti   un’istanza del privato limitandosi a compiere solo alcuni degli accertamenti all’uopo necessari. In tali ipotesi i presupposti non accertati dalla p.a., e, quindi non deducibili sub specie di vizi del provvedimento di diniego, potranno essere dedotti in giudizio come causa petendi dell’azione di condanna al rilascio del provvedimento favorevole.

Tale azione viene  così a costituire un’appendice del giudizio di annullamento avente una struttura ed una finalità analoghe a quelle del giudizio sul silenzio nel quale, parimenti,  il privato tende a superare gli effetti negativi di un omissione della p.a. deducendo direttamente davanti al giudice i profili del potere che non hanno formato oggetto di un provvedimento amministrativo.

 

2.1 I limiti all’esperimento della azione di condanna alla emissione di un provvedimento.

 

La proponibilità di un’azione di condanna avente ad oggetto il rilascio di un provvedimento illegittimamente denegato non è tuttavia incondizionata ma incontra precisi limiti.

Il codice, infatti, pur non prevedendo più  salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa dopo la pronuncia di annullamento, pone comunque altri paletti  che hanno il medesimo scopo di salvaguardare l’autonomia dell’azione amministrativa.

In primo luogo vale il principio sancito dall’art. 7 comma 6 del codice secondo cui, in sede di giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione.

L’azione di condanna alla emanazione del provvedimento denegato non potrà, quindi, considerarsi ammissibile allorché, a seguito dell’annullamento del diniego, residuino ancora in capo alla p.a. poteri di valutazione discrezionale o tecnico-discrezionale.

Inoltre, il g.a. potrà solo condannare l’amministrazione ad emettere un certo provvedimento ma non anche adottare direttamente l’atto richiesto, poiché anche tale potere è consentito solo nell’esercizio della giurisdizione di merito (art. 34 comma 1 lett. “d”).

Di più difficile interpretazione è l’altro limite che il codice pone ai poteri decisori del g.a., consistente  nel divieto di “pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

Nella versione iniziale dell’articolato  licenziata dalla commissione mista, tale limite riguardava solo l’azione di accertamento e trovava la sua ragion d’essere nel fatto che il legislatore voleva evitare  che il g.a. potesse condizionare l’operato della p.a. quando il procedimento non era ancora concluso.

La predetta limitazione non operava, quindi, nel caso di proposizione della azione sul silenzio dopo la scadenza del termine per provvedere o nel caso di esperimento della (inizialmente prevista) azione di adempimento che era proponibile solo dopo l’annullamento di un atto di diniego illegittimo.

A seguito della revisione governativa, che ha eliminato l’azione di accertamento,  il divieto di pronunciare in relazione a poteri amministrativi non ancora esercitati è stato mantenuto  ed ha trovato collocazione  nell’art. 34 che riguarda tutte le tipologie i pronuncia del g.a., assumendo, in  tal modo,   portata generale.

Non è facile dare un significato alla disposizione in questa sua nuova collocazione.

Essa, infatti, se presa alla lettera, collide con la possibilità data al giudice di accertare autonomamente  la fondatezza della pretesa nell’ambito del giudizio sul silenzio  che non ha alle spalle poteri amministrativi già esercitati.

Si potrebbe ipotizzare che il legislatore abbia inteso escludere il potere del g.a. di pronunciarsi sulla domanda del privato tutte le volte in cui i fatti costitutivi del potere non trovino rispondenza nell’istruttoria compiuta dall’amministrazione e debbano, quindi, essere accertati per la prima volta in sede giurisdizionale.

Ma una siffatta interpretazione appare in contraddizione con una pluralità di dati testuali e sistematici offerti dal codice.

Viene innanzitutto in considerazione il disposto del terzo comma dell’art. 31 che, nel giudizio sul silenzio, ammette sempre che il giudice possa accertare la fondatezza della istanza quando «si tratta di attività vincolata», escludendo che questi possa sostituirsi alla p.a. nel compiere   accertamenti istruttori  solo quando «residuino ulteriori margini di discrezionalità».

Inoltre, ai fini della questione ora esaminata, non appare irrilevante il fatto che il codice abbia rimosso molti  dei limiti che, in precedenza, caratterizzavano l’istruttoria nel giudizio di legittimità.

Infatti, non solo sono stati ampliati i mezzi  ammissibili[6], ma anche i presupposti dell’istruzione non sono più correlati alla  necessità di chiarire aspetti lacunosi o contraddittori dell’istruttoria compiuta dall’amministrazione in sede procedimentale (art. 44 comma 1 R.D. 1054 del 1924).

Oggi, pertanto, è consentito un pieno e diretto accesso al fatto da parte del giudice amministrativo la cui indagine non deve essere necessariamente diretta a chiarire o confutare elementi già emergenti dal dossier approntato dalla p.a., ma ben può riferirsi a profili di fatto autonomi in quanto rilevanti ai fini della decisione[7].

Il significato da attribuire al divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati non sembra, quindi dover essere diverso da quello che tale formula aveva nella originaria bozza di codice approvata dalla commissione mista: tale limite preclude l’esperimento di qualunque forma di azione giurisdizionale prima che la p.a. abbia provveduto o che sia scaduto il termine per provvedere. Una volta verificatisi tali presupposti processuali il g.a. può accertare se sussistono le condizioni di fatto per l’emanazione del provvedimento favorevole illegittimamente   omesso o  denegato con il solo  limite di non potersi sostituire alla p.a. nell’effettuare apprezzamenti discrezionali o accertamenti tecnici ad essa riservati.

 

3. L’azione di condanna al risarcimento del danno per la  lesione degli interessi legittimi: il problema della autonomia dell’azione risarcitoria.

 

Al momento della entrata in vigore del codice la questione processuale più dibattuta in ordine alla azione di condanna al risarcimento del danno per la lesione di interessi legittimi riguardava, come è noto, la sua autonomia da quella di annullamento dell’atto lesivo.

Tale problema è stato al centro di un acceso confronto dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale che ha visto contrapporsi l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Il giudice del riparto ha, infatti, accolto la tesi della autonomia dell’azione risarcitoria per lesione degli interessi legittimi rispetto alla domanda di annullamento dell’atto lesivo, ritenendo che, dal punto di vista dell’illecito civile, il provvedimento illegittimo  venga in considerazione  non come atto della autorità produttivo di determinati effetti giuridici da rimuovere,  ma come mero fatto  immediatamente  lesivo di una posizione soggettiva da cui deriva un’obbligazione risarcitoria volta a riparare il danno patrimoniale conseguente.

Di diverso avviso è stato, invece, il Consiglio di Stato il quale, ha, invece, ritenuto che la domanda risarcitoria per la lesione di un interesse legittimo presupponga sempre la previa impugnazione dell’atto lesivo.

La ricostruzione interamente privatistica della responsabilità  della p.a. per lesione di interessi legittimi operata dalla Corte di Cassazione al giudice amministrativo è sembrata in contrasto  con  taluni  principi fondamentali del diritto  amministrativo sostanziale e processuale fra cui, in particolare: quello secondo cui l’efficacia imperativa dell’atto amministrativo comporta che le conseguenze da esso prodotte debbano essere considerate conformi alla legge fino a quando esso  non venga annullato; quello secondo cui  la stabilità dei rapporti giuridici creati dal provvedimento deve essere presidiata da un termine decadenziale breve e non può essere minata dalla possibilità di proporre l’azione  risarcitoria entro il termine quinquennale di prescrizione; quello secondo cui la cognizione del g.a sull’atto lesivo deve avere carattere necessariamente principale e non incidentale, in quanto la giurisdizione del g.a., diversamente da quella ordinaria, non e’ preordinata  alla risoluzione di controversie in cui sono in gioco solo interessi individuali delle parti, ma e’ altresì volta a garantire l’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa.

La disciplina dell’azione risarcitoria  dettata dal  nuovo codice dovrebbe rappresentare un momento di composizione e compromesso fra le divergenti posizioni sopra ricordate.

L’articolato, infatti,  prevede, da un lato,   l’abbandono del modello rigido  di relazione fra l’azione risarcitoria e quella di annullamento basato sulla pregiudiziale amministrativa, ma, dall’altro, controbilancia l’autonomia della azione risarcitoria  assoggettandola ad un termine decadenziale breve, benché più lungo di quello per l’impugnazione dell’atto lesivo, e, soprattutto,  escludendo la risarcibilità delle conseguenze dannose che avrebbero potuto essere evitate ricorrendo ad altri strumenti di tutela.

 

3.1 Il Termine decadenziale.

 

Con riguardo al primo profilo, il nuovo codice, ha affrancato la proposizione dell’azione risarcitoria  dal termine  di sessanta giorni previsto per l’impugnazione dell’atto lesivo, ma, al contempo, ha introdotto un autonomo termine decadenziale di 120 giorni per la sua instaurazione.

Oggi, pertanto, dall’inoppugnabilità dell’atto non deriva più la perdita di ogni rilevanza giuridica della lesione dell’interesse legittimo, ma solo il venir meno della possibilità di esperire uno dei mezzi di tutela che l’ordinamento predispone a presidio di tale posizione  soggettiva, mentre la definitiva copertura dell’operato della p.a. da ogni forma di reazione giurisdizionale contro l’atto lesivo dell’interesse legittimo si perfeziona solamente con il decorso del più lungo termine previsto per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma.  

Non del tutto chiara risulta, però, l’individuazione del momento i cui il predetto termine inizia a decorrere. Il comma 3° dell’art. 30 prevede, infatti,  che la domanda di risarcimento per la lesione di interessi legittimi debba essere proposta entro il termine di centoventi giorni «dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo».

La prima parte della norma riproduce la formula dell’art. 2947 del codice civile che fa decorrere la prescrizione quinquennale del diritto al  risarcimento “dal momento in cui il fatto si è verificato”, mentre, la seconda  riconduce il dies a quo dal quale decorre il termine decadenziale alla conoscenza del provvedimento nei casi in cui il danno derivi direttamente da questo.

Il modo in cui è formulata la disposizione fa sorgere il dubbio se il legislatore abbia inteso ricollegare la decorrenza del termine per la proposizione della azione risarcitoria alla semplice   percezione da parte della vittima della lesione della sua  posizione soggettiva ad opera del provvedimento (cd. «danno evento») oppure al momento in cui si sono verificate le conseguenze dannose sul piano patrimoniale o dei diritti della persona (cd. «danno conseguenza»).

Fra le due alternative quella più rispondente alla logica risarcitoria  e al dato letterale della norma sembra essere la prima: diversamente da quanto avviene per l’azione di annullamento, ai fini dell’utile esperimento della azione risarcitoria non è, infatti, sufficiente la semplice percezione della lesione della sfera giuridica individuale  provocata dall’atto illegittimo, ma è  altresì necessaria un’esatta percezione delle conseguenze dannose che, nella maggior parte dei casi, non avviene al momento della conoscenza dell’atto ma in quello in cui tali conseguenze si sono prodotte e sono divenute conoscibili alla vittima anche in relazione al nesso eziologico che le lega al fatto illecito

La lettura della norma che appare preferibile è, quindi,  quella che fa decorrere il termine per la proposizione della azione risarcitoria dal momento in cui le conseguenze dannose  siano esattamente percepibili e quantificabili dalla vittima con l’uso dell’ordinaria diligenza, salva l’ipotesi, da considerarsi eccezionale, in cui l’emanazione del  provvedimento illegittimo costituisca non solo fonte della lesione della posizione soggettiva ma anche un danno conseguenza.

 

 

3.2 La decorrenza del termine decadenziale nel caso di domanda risarcitoria proposta dopo l’esperimento dell’azione di annullamento.

 

Il termine per la proposizione della azione risarcitoria muta qualora venga esperita anche l’azione di annullamento dell’atto lesivo. In tal caso il comma 5° dell’articolo in commento prevede che la domanda risarcitoria possa essere formulata in corso di giudizio e fino al 120° giorno dal  passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.

La norma costituisce un corollario dello sfavore con cui il codice guarda alla proposizione dell’azione risarcitoria autonoma. Infatti, qualora il danneggiato non voglia correre il rischio di vedersi decurtato il risarcimento del danno evitabile con l’ordinaria diligenza, deve preventivamente impugnare l’atto e, va da sé, che, in tal caso, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento  debba rimanere sospeso fino a quando i mezzi di tutela alternativi atti ad evitare il danno non siano esauriti.

Pertanto, logica avrebbe voluto che la sospensione del termine durasse fino al momento in cui il danno provocato dall’atto illegittimo fosse stato, per quanto possibile,  rimosso a seguito della esecuzione del giudicato da parte della p.a. o di un commissario ad acta nominato dal giudice della ottemperanza.

Il codice, invece, individua il dies a quo dal quale il termine decorre nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto l’annullamento la quale, di per sé, raramente vale ad eliminare   la lesione subita dal privato, occorrendo, quasi sempre, al tal fine, un nuovo esercizio di potere amministrativo che tenga conto degli effetti conformativi del giudicato.

Ciò produce non poche incongruenze.

Infatti, il danneggiato, per non incorrere in decadenza,  è costretto ad esperire un’azione risarcitoria “autonoma” anche qualora la p.a. non abbia ancora concluso il procedimento diretto a dare esecuzione al giudicato, frustrando, così, la stessa ragion d’essere della norma che è quella di dare la preferenza alla tutela demolitorio conformativa. Oppure, sempre per evitare di perdere definitivamente il diritto al risarcimento, il privato si vede costretto ad instaurare il giudizio di ottemperanza avvalendosi della previsione di cui al comma 4° dell’art. 112 che consente di proporre l’azione risarcitoria in tale sede, ma sempre nel termine di 120 giorni. Anche quest’ultima  soluzione appare, tuttavia, poco coerente in quanto impone al privato di adire il giudice della ottemperanza pur quando  l’amministrazione si sia tempestivamente  attivata per dare  spontanea esecuzione al giudicato ma non abbia ancora concluso il  relativo procedimento.

 

Vi sono poi ipotesi in cui il danno viene in essere soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza come accade quando, dopo tale momento, si verifichi un evento che renda impossibile l’emanazione del provvedimento favorevole chiesto dal privato.

In questi casi il termine per la proposizione della azione risarcitoria non può iniziare a decorrere dal momento in cui la sentenza  di annullamento è diventa definitiva ma deve iniziare a conteggiarsi solo a seguito del prodursi del danno, perché è solo da quel momento il diritto al risarcimento può essere fatto valere.

Il termine  previsto dalla norma riguarda, quindi, le domande concernenti i danni già esistenti prima della formazione del giudicato. Mentre per i danni successivi che siano causalmente riconducibili  al provvedimento illegittimo il termine decorrerà dal momento del loro verificarsi.

Una disciplina speciale è poi dettata per i danni derivanti dalla mancata esecuzione del giudicato da parte della p.a., i quali, ai sensi degli artt. 112 comma 3° e 114 comma 4° lettera “e” del codice, possono essere chiesti nell’ambito del giudizio di ottemperanza  entro il più ampio termine decennale in cui tale giudizio può essere introdotto.

 

3.3 La decorrenza del termine nel caso di danni derivanti dall’inosservanza del termine per provvedere.

 

Il comma 4°  dell’art. 30 disciplina, poi,  l’ipotesi in cui il danno non derivi da un provvedimento ma dall’inosservanza del termine per la conclusione del procedimento (cd. “danno da ritardo”).

In tal caso, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di danno derivante da illegittimo diniego dell’istanza,  è previsto che il termine di 120 giorni per la proposizione dell’azione risarcitoria inizi a decorrere dal momento in cui cessa l’inadempimento e cioè quando l’amministrazione (o il commissario nominato dal g.a.) emetta il provvedimento dovuto.

Il ritardo della p.a. nel provvedere viene, quindi, considerato alla stregua di un “illecito permanente” che cessa soltanto al momento dell’adozione dell’atto conclusivo del procedimento sulla falsariga di quanto il Consiglio di Stato aveva già affermato.

Il codice chiarisce, tuttavia,  che, nel caso in cui l’azione contro il silenzio della p.a. non venga instaurata  entro un anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento, l’azione risarcitoria  deve essere proposta entro i successivi centoventi giorni.

La soluzione adottata dal legislatore, discostandosi da quanto fino ad oggi affermato dalla giurisprudenza (che assegna al termine per intraprendere il giudizio sul silenzio una valenza meramente processuale), presuppone che il decorso del termine annuale comporti l’estinzione dell’obbligo della p.a. di provvedere,  e faccia, quindi, venir meno l’illecito omissivo.

 

 

3.4 La riduzione del risarcimento per il danno evitabile con l’uso dell’ordinaria diligenza: le divergenti ispirazioni che stanno alla base della norma e la loro incidenza sul suo iter formativo.

 

Come si è già anticipato il codice  non colloca  più il nesso fra l’azione risarcitoria e quella di annullamento  nel momento del prodursi dell’antigiuridicità della lesione, ma in quello successivo della possibile eliminazione  o riduzione delle conseguenze dannose derivanti dall’illecito. Il comma 3° della norma in commento esclude, infatti, la risarcibilità dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria  diligenza e fra i modelli di comportamento diligente atti ad evitare il danno include “l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”.

L’evidente ambiguità della formula risente della tensione irrisolta fra due opposti orientamenti che si sono fronteggiati durante l’iter formativo del codice: il primo espresso da   coloro che  auspicavano un pieno recupero della pregiudiziale amministrativa addossando esclusivamente al ricorrente l’onere di evitare il prodursi o l’aggravarsi del danno causato dal provvedimento illegittimo attraverso la sua tempestiva impugnazione, e l’altro da  coloro che attribuivano alla norma solo la funzione di temperare il principio della autonomia dell’azione risarcitoria per lesione degli interessi legittimi, consentendo al giudice di verificare, caso per caso, se la mancata impugnazione dell’atto sia dipesa  da un intento malizioso del ricorrente, interessato più a lucrare una somma di danaro che  a conseguire un provvedimento favorevole, oppure se l’onere di evitare l’aggravamento del danno avrebbe potuto essere assolto anche dalla p.a. attraverso l’esercizio dei suoi poteri di autotutela.

In relazione alla prevalenza in un certo momento dell’una o dell’altra posizione si sono succedute nell’iter formativo dell’articolato diverse formulazioni della norma.

Nella versione  licenziata dalla Commissione mista era previsto che il giudice amministrativo avrebbe dovuto escludere i danni evitabili attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza, “anche attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o invito all’autotutela”.

La revisione governativa del testo inviato alle Commissioni parlamentari  ha cancellato ogni riferimento all’invito all’autotutela ricollegando l’esclusione del risarcimento “anche” alla mancata “impugnazione, nel termine di decadenza, degli atti lesivi di interessi legittimi”.

Nel corso delle audizioni tenutesi presso la Commissione Giustizia della Camera la predetta formulazione della norma è stata oggetto di critiche da parte del mondo accademico.

Degne di menzione sono però le osservazioni formulate dal Primo Presidente della Corte di Cassazione secondo cui “le modifiche introdotte nel nuovo testo rendono la soluzione inaccettabile in quanto a) ulteriormente riducono il termine di decadenza; b) condizionano il riconoscimento della tutela non già ad elementi di leale collaborazione ma alla formale previa proposizione di una diversa azione di un’azione di annullamento” dando “così vita ad una norma poco comprensibile atteso che, da un lato, si afferma l’esistenza di una tutela risarcitoria autonoma, ma, dall’altro, la si subordina all’aver formalmente attivato la tutela impugnatoria”.

Delle critiche del Primo Presidente ha in qualche modo tenuto conto il  parere approvato dalla Commissione permanente giustizia il quale, al fine di accentuare il potere di valutazione del giudice, conformemente ai principi generali espressi dall’art. 1227 c.c., ha proposto l’eliminazione del riferimento alla mancata impugnazione dell’atto lesivo fra le circostanze che il giudice deve valutare ai fini della esclusione del risarcimento sostituendolo con una dizione più generica secondo cui il fra i comportamenti diligenti di cui  il g.a. dovrebbe tener conto vi sarebbe “anche”  l’”esercizio di ogni mezzo di tutela”.

In sede di approvazione finale del testo il Governo ha ulteriormente modificato la formulazione contenuta nel parere della Commissione giustizia prevedendo che il giudice debba escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, “anche attraverso il ricorso agli strumenti di tutela previsti”.

Appare evidente come sul punto il legislatore non sia riuscito ad esprimere un orientamento chiaro ed univoco preferendo ricorrere a formule ambigue che lasciano all’interprete la soluzione dei problemi.

Volendo comunque tentare un approccio ermeneutico oggettivo e sistematico alla norma balza subito all’occhio che essa è volta a risolvere un problema di rapporti fra diverse forme di tutela che è del tutto estraneo all’art. 1227 del codice civile. Detto articolo, infatti,  in armonia con i principi solidaristici a cui e’ ispirata l’intera disciplina delle obbligazioni del codice civile, impone al danneggiato di attivarsi per non aggravare la posizione del debitore  compiendo quegli atti che, senza un particolare sforzo economico, possono ridurre o contenere il danno. Non rientra però fra  i doveri del danneggiato quello di agire giudizialmente contro il debitore per ridurre un danno (come ad esempio la maturazione degli interessi moratori) che potrebbe essere evitato  attraverso lo spontaneo adempimento dell’obbligazione.

L’onere di esperire mezzi di tutela diversi dall’azione risarcitoria  per non aggravare il danno   non può, quindi, essere mutuato dalla citata disposizione civilistica ma costituisce una regola «speciale»  che  affonda le sue radici in una  permanente concezione pubblicistica della responsabilità della p.a. per l’esercizio della sua funzione autoritativa secondo la quale l’annullamento dell’atto lesivo costituisce il modo ordinario di protezione dell’interesse legittimo.

Ciò, tuttavia, non significa necessariamente che l’onere di ridurre il danno debba essa addossato esclusivamente sul soggetto leso sul presupposto che egli potrebbe provocare l’annullamento dell’atto lesivo impugnandolo in sede giurisdizionale o amministrativa. Uguale possibilità, infatti, ha anche l’amministrazione esercitando il suo potere di annullamento d’ufficio.

Sul punto, come si è accennato, la disciplina del codice, dopo aver oscillato nel suo iter formativo nell’uno e nell’altro senso, è rimasta alla fine volutamente ambigua, lasciando aperta la questione se fra gli “strumenti di tutela previsti” il cui esperimento avrebbe potuto evitare o ridurre il danno possa includersi anche l’invito alla p.a. ad esercitare il suo potere di annullamento dell’atto lesivo. La risposta a tale domanda implica un’analisi più approfondita in ordine alla doverosità dell’esercizio del potere di autotutela a fronte della commissione di un illecito provvedimentale.

Infatti, alla tesi che addossa anche alla p.a. l’onere di rimuovere il danno attraverso l’annullamento dell’atto lesivo sembrerebbe ostare il noto principio secondo cui il potere di annullamento officioso del provvedimento  costituirebbe uno strumento di autotutela attivabile nell’esclusivo interesse pubblico ed al quale la p.a. non sarebbe obbligata a ricorrere anche per rimediare alla lesione  di un interesse del privato, essendovi altri rimedi a tal fine preordinati.

Tale assunto, tuttavia, presuppone  che la lesione inferta al privato dall’atto illegittimo sia divenuta giuridicamente irrilevante a causa del consumarsi dei rimedi che questi ha a sua disposizione per tutelare la sua posizione soggettiva. E’ solo in tal caso che il potere di annullamento è attivabile solo in via di autotutela e non per sopperire ad una tutela non più esperibile. Quando, invece, la lesione della posizione soggettiva non è ancora divenuta incontestabile, la posizione della p.a. rispetto all’esercizio del proprio potere di autoannullamento muta. Non a caso, infatti, la giurisprudenza ha affermato che la p.a. è obbligata a prendere in considerazione un’istanza di annullamento officioso presentata dal soggetto leso prima della decorrenza del termine di impugnazione dell’atto lesivo

Il principio della spontaneità della autotutela non pare, quindi, invocabile, a fronte di un istanza di annullamento presentata prima della scadenza del termine di 120 per la proposizione della azione risarcitoria: fino a tale momento, infatti, l’emanazione del provvedimento illegittimo rimane qualificabile come un fatto illecito di cui è la p.a. in primis ad essere responsabile e, quindi,  onerata della rimozione delle relative  conseguenze dannose.

L’onere del privato di esperire i mezzi di tutela previsti può quindi consistere nell’informare l’amministrazione dei profili di illegittimità da cui è affetto l’atto e dei danni che lo stesso sta provocando nella sua sfera patrimoniale o personale.

Spetterà poi alla p.a. esaminare l’istanza e trarne le debite conseguenze.

Il giudice dovrà valutare il comportamento di entrambe le parti alla luce di un parametro di diligenza e buna fede: sarà, quindi, censurabile, sotto questo punto di vista, il comportamento della p.a., che, nonostante il carattere palese  dei vizi e dei danni evidenziati dal soggetto leso, rifiuti pretestuosamente di annullare l’atto. Ed altrettanto censurabile dovrà ritenersi il comportamento del privato che proponga l’azione risarcitoria senza aver prima assolto all’onere di cooperazione con l’amministrazione o lo abbia assolto in modo parziale o insufficiente (non evidenziando taluni vizi o tacendo importanti profili relativi al danno).

Ciò,  peraltro, non rende la decisione dell’amministrazione in ordine all’annullamento dell’atto lesivo obbligatoria e, quindi, coercibile attraverso il giudizio sul silenzio: il decorso del termine di sessanta giorni  per l’impugnazione dell’atto preclude infatti, come in passato, ogni forma di reazione giurisdizionale atta a rimetterne in discussione gli effetti. Per cui, spirato tale termine,  la rimozione degli effetti dell’atto costituisce una scelta discrezionale della p.a. che dovrà  bilanciare i costi ed i benefici per l’interesse pubblico che derivano dalla mancata eliminazione di conseguenze dannose che essa può essere condannata a risarcire.

 

3.5 L’azione risarcitoria autonoma in corso di giudizio.

 

Il Codice disciplina anche l’ipotesi in cui l’opzione per la tutela risarcitoria  autonoma intervenga  dopo la proposizione dell’azione di annullamento, prevedendo  che “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori” (art. 34 comma 3).

L’abbandono della domanda di annullamento viene, quindi, condizionato al venir meno della utilità della pronuncia di annullamento, circostanza che può verificarsi non solo nel caso in cui sopravvenga un evento che renda impossibile la soddisfazione della pretesa sostanziale del privato (come una nuova normativa che impedisca l’accoglimento di una istanza che originariamente avrebbe potuto essere favorevolmente esitata), ma anche nelle ipotesi in cui, nelle more del giudizio, il privato perda ogni ragionevole interesse ad ottenere un determinato provvedimento favorevole (ad esempio perché il costo della immobilizzazione delle risorse necessarie ad intraprendere una determinata attività economica impedita dal provvedimento impugnato divenga insostenibile e non esigibile).

In tali fattispecie sembra preferibile ritenere che il ricorrente non debba scontare il rischio della decurtazione del risarcimento per la perdita della utilità che  avrebbe potuto conseguire coltivando ad oltranza la domanda di annullamento, in quanto ciò significherebbe addossargli anche le conseguenze derivanti dai tempi (non brevi) del giudizio costringendolo ad insistere per l’ottenimento di un bene a cui a causa dell’illegittimità dell’azione  amministrativa e della durata del processo egli non ha più alcun interesse a conseguire.

 

 

3.6 Il risarcimento del danno in forma specifica

 

Il codice prevede che la condanna al risarcimento del danno possa avvenire anche in forma specifica.

Tale rimedio non va confuso con l’azione di condanna reintegratoria o di adempimento, che abbiamo già esaminato.

L’importanza della distinzione non è solo teorica in quanto il codice disciplina le due azioni di condanna in maniera diversa qualora esse siano dirette alla tutela di interessi legittimi: la proposizione della domanda di risarcimento in forma specifica  è subordinata ad un termine decadenziale di 120 giorni, ma può avvenire anche in via autonoma, senza la previa impugnazione dell’atto lesivo. La condanna ripristinatoria, invece,  non può essere chiesta autonomamente dalla impugnazione dell’atto lesivo (art. 30 comma 1) ma non è assoggettata ad alcun termine decadenziale.

Il problema della esatta qualificazione delle due forme di tutela si pone in modo evidente quando l’azione venga proposta a seguito del passaggio in giudicato della sentenza  di annullamento dell’atto lesivo:  se si tratta di una domanda di condanna al risarcimento del danno in forma specifica essa dovrà essere proposta a pena di decadenza  entro 120 giorni da quello in cui la sentenza di annullamento è diventata definitiva, mentre, qualora si tratti di una domanda di condanna avente natura ripristinatoria, non sussiste alcun termine decadenziale per la sua proposizione.

Ad esempio,  nel caso della richiesta di reintegro nella disponibilità di beni illegittimamente occupati dalla p.a. in base a provvedimenti di espropriazione o occupazione annullati dal giudice amministrativo, inquadrare la domanda  nell’ambito del risarcimento in forma specifica, come suole fare oggi la giurisprudenza, porta alla indesiderata conseguenza che la restituzione del bene espropriato rimanga definitivamente impedita qualora il proprietario non la chieda entro previsto il termine decadenziale.

Specularmente il problema può anche presentarsi quando la condanna ad un facere venga proposta senza il previo annullamento dell’atto lesivo: anche qui ai fini dell’ammissibilità dell’iniziativa processuale sarà necessario stabilire se il comportamento richiesto alla p.a. abbia natura di risarcimento in forma specifica  oppure costituisca la reintegrazione della posizione soggettiva lesa.

La distinzione fra le due tipologie di azioni dovrà essere operata in base al diverso risultato a cui esse mirano che, per quanto riguarda le azioni di condanna mera è quello di far cessare la lesione in atto della posizione soggettiva mediante un comando  puntuale che indichi alla p.a. il  modo in cui  deve comportarsi per restituire o attribuire al ricorrente la specifica utilità che gli doveva essere garantita  sul piano sostanziale,  mentre per quanto riguarda la condanna al risarcimento in forma specifica è quello di eliminare un danno già prodotto mediante l’imposizione al danneggiante dell’obbligo di compiere una determinata attività materiale “nuova” alla quale egli prima dell’illecito non sarebbe  stato tenuto (ad esempio la ricostruzione di un immobile abbattuto in esecuzione di un ordinanza di demolizione poi annullata).

 

 



[1] L’art. 7 comma 1 del nuovo codice, a differenza dell’art. 26 del T.U. sul Consiglio di Stato, che incentrava la giurisdizione del GA sull’annullamento di atti aventi ad oggetti interessi di individui o enti morali, afferma che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi, e, nelle particolari materie previste dalla legge, di diritti soggettivi..”, ponendo così al centro del giudizio la tutela della posizione soggettiva e non l’atto che la lede.

[2] Ed anche le differenze con la giurisdizione di merito  sono assai meno marcate che in passato a causa del venir meno dei limiti istruttori e decisori che il vecchio ordinamento processuale imponeva al g.a. in sede di giurisdizione di legittimità. Oggi, infatti, il giudice, anche in tale  sede,  può indagare pienamente il fatto attraverso strumenti autonomi quali la c.t.u. o la prova testimoniale (art. 63). Inoltre, la pronuncia di annullamento non deve necessariamente fare salvi gli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa anche quando i profili residui di esercizio del potere vertano su elementi che non richiedono valutazioni o accertamenti discrezionali. L’unico limite che soffre il g.a. nell’ambito della giurisdizione di legittimità è quello di non potersi sostituire all’amministrazione (art. 7 comma 6) nell’apprezzamento dell’interesse pubblico,  nell’applicazione al caso concreto di regole tecniche opinabili che rientrano in una sfera di responsabilità riservata alla p.a. o nell’emanare direttamente il provvedimento richiesto dal privato (art. 34 comma 1 lett. «d»).

[3] La riserva all’autorità amministrativa degli atti successivi alla pronuncia di annullamento era, come è noto, prevista  dall’art. 45 del R.D 1058 del 1924 e l’art. 26 della L. 1034 del 1971.  Tale  formula ha sempre rappresentato un limite invalicabile ai poteri cognitori  esercitabili dal GA in sede di giurisdizione di legittimità, confinandoli all’esame dei singoli vizi di legittimità dell’atto proposti nei motivi di ricorso e precludendo così al giudice amministrativo di poter prendere in esame il conflitto sostanziale di interessi fra cittadino e p.a. in ordine al modo favorevole o sfavorevole con cui deve essere esercitato il potere, consentendo, così, alla p.a. di  riemettere un nuovo provvedimento avente il medesimo contenuto lesivo di quello annullato, ancorchè depurato dai vizi di legittimità accertati dal giudice.

[4] Tale impostazione, trova, peraltro, conferma anche nell’art. 40 comma 1 lett. “b” del codice che, nello specificare il “contenuto del ricorso”, non identifica più l’oggetto della domanda con il solo atto o provvedimento impugnato.

[5] E’ vero che nel caso in cui anche il nuovo provvedimento fosse affetto da ulteriori vizi di legittimità il cittadino poteva impugnarlo, ma tale meccanismo dava luogo ad una serie potenzialmente infinita di giudizi qualora la p.a. avesse di volta in volta giustificato in modo diverso la rinnovazione dell’atto lesivo.

[6] Il codice ammette anche in sede di giurisdizione di legittimità non solo l’esperimento della c.t.u. (pur condizionandolo alla sua indispensabilità – art. 67 -) ma anche della prova testimoniale sia pur solo in forma scritta (art. 63 comma 3). Tali mezzi istruttori, in origine, erano ammessi solo nell’ambito della giurisdizione di merito (art. 44 comma 2 R.D. 1054 del 1924). Solo con la riforma del processo amministrativo operata dalla L. 205 del 2000 fu introdotta la possibilità di ammettere la c.t.u. anche in sede di giurisdizione di legittimità. 

[7] Nè si potrebbe obiettare che una siffatta ricostruzione sarebbe incompatibile con la tradizionale posizione «passiva» assunta nel processo amministrativo dalla p.a., la quale non avrebbe la possibilità di contraddire le deduzioni del ricorrente con elementi diversi da quelli emergenti dalla motivazione dell’atto impugnato o dei suoi atti preparatori. Infatti, i poteri processuali della p.a., già ampliati dall’art. 21 octies della L. 241 del 1990, sono stati ulteriormente rinvigoriti dal codice del processo amministrativo che, accogliendo il principio dispositivo e quello di non contestazione (art. 64 comma 1), ed ammettendo esplicitamente la possibilità per le parti resistenti di formulare vere e proprie «eccezioni» anche di natura sostanziale,  ha notevolmente ampliato la autonomia delle parti nella definizione del thema decidendum e del thema probandum.