Antonio ROMANO-TASSONE

Ordinario di diritto amministrativo
nell'Università di Reggio Calabria

La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro*

 

Pubblicato sul sito il 16 dicembre 2010

 

I

Secondo l’insegnamento tradizionale, consolidatosi verso la metà del XX secolo, ma tuttora largamente diffuso e condiviso, la giurisdizione esclusiva presenta, rispetto alla giurisdizione di legittimità, un duplice profilo di specialità: sotto l’aspetto del criterio di riparto, e sotto l’aspetto del modulo processuale.

Il primo profilo distintivo è ben noto, e rappresenta, anzi, la caratteristica principale della giurisdizione esclusiva: secondo l’opinione comunemente accolta, esso consiste nel fatto che il giudice amministrativo, nell’ambito di questa sua speciale attribuzione, può conoscere tanto di interessi legittimi che di diritti soggettivi. La stessa ragion d’essere di questa giurisdizione, quindi, starebbe proprio nell’“inestricabile intreccio” che in talune materie si crea tra le due situazioni giuridiche legittimanti al ricorso.

Il secondo aspetto è altrettanto conosciuto, ma assai meno frequentemente considerato, e consiste nel fatto che nell’ambito della giurisdizione esclusiva convivono da tempo due modelli processuali: quello stesso della giurisdizione di legittimità, fondato sulla tutela di annullamento, per quanto attiene ai rapporti c.d. “autoritativi”; quello della tutela di “spettanza”, per quanto attiene ai rapporti c.d. “paritetici”.

Mentre il primo carattere è originario ed intrinseco - ed anzi, è ritenuto fondativo della giurisdizione esclusiva ed identificativo della sua stessa nozione-, il secondo costituisce il frutto di una lenta ma costante evoluzione, che, partendo da posizioni iniziali ben diverse (l’istituzione della giurisdizione esclusiva aveva infatti come dichiarato scopo quello di assoggettare i diritti soggettivi alle medesime forme di tutela degli interessi legittimi), aveva condotto all’affermazione del principio per cui la sottrazione della cognizione dei diritti soggettivi al giudice ordinario non doveva tradursi in un decremento qualitativo della loro protezione, sicchè il giudice amministrativo che ne conoscesse in via esclusiva poteva avvalersi dell’intero strumentario del processo civile.

E’ appena il caso di osservare che questi due aspetti sono in relazione reciproca, sia nel senso (abbastanza evidente) che l’uno spiega l’altro, sia nel senso (assai meno indagato) che tra di essi corre un nesso (non logico-giuridico, ma assiologico-sistematico) di tendenziale implicazione, per cui la evanescenza dell’uno determina ripercussioni negative anche sulla consistenza dell’altro.

Secondo la comune (e storicamente non errata) opinione, tale relazione vede(va), come elemento dominante e caratterizzante, la specialità del criterio di riparto, mentre la specialità del modulo processuale starebbe, rispetto alla prima, in posizione derivata, e per ciò stesso secondaria.

E’ infatti l’intrinseca differenza tra la protezione accordata al diritto soggettivo (che si deve tradurre in una tutela di spettanza) e quella propria dell’interesse legittimo (che si realizza attraverso la tutela di annullamento) ad imporre che il giudice cui siano affidate entrambe le situazioni giuridiche soggettive modelli il proprio operato ora sulle esigenze dell’una, ora sulle esigenze dell’altra.

Ed è stata appunto la percezione di tale differenza – ed il fatto che essa fosse ritenuta insopprimibile- ad indurre la giurisprudenza del Consiglio di Stato prima (attraverso la ben nota sentenza “Fagiolari”), il legislatore del 1971 dopo, e la Corte costituzionale ancora più tardi (attraverso le sentenze additive degli anni ’80), ad abbandonare quella che pure la Relazione al Re che accompagnava il decreto istitutivo del 1923 indicava come la ragione fondamentale della creazione della giurisdizione esclusiva: assoggettare i diritti soggettivi al medesimo trattamento processuale degli interessi legittimi, là dove fossero più marcate le esigenze di pubblico interesse alla definizione della controversia.

Ma il rapporto tra i due elementi caratterizzanti la giurisdizione esclusiva si era in effetti rivelato, da subito, assai più complesso, ed il ruolo trainante per la definizione dell’istituto e la sua collocazione nel sistema era stato ben presto assunto, in realtà, proprio dal (la specialità del) modulo processuale.

            Ciò che, d’altronde, risponde bene ai principi ispiratori di un ordinamento democratico, perché il riparto di giurisdizione, nella sua essenza, attiene al problema del giudice, mentre l’assetto del processo attiene al problema della tutela: ed è il giudice, in un ordinamento democratico, a dover esser scelto in funzione delle esigenze di tutela del cittadino, e non la tutela a dover esser accordata al cittadino in ragione ed a misura dei poteri del giudice.

            E’ ovvio che i due profili (giudice e tutela), considerati nella dinamica del processo, non sono né scissi, né completamente scindibili; ma non vi possono essere dubbi su quale sia, tra di essi, primario, e quale rivesta invece ruolo servente.

            Del resto, che il connotato della duplicità del modulo processuale, una volta introdotto, fosse destinato ad incidere profondamente sulla definizione dell’ubi consistam della giurisdizione esclusiva, lo si era potuto verificare da subito, sia pure essenzialmente in negativo.

L’affermazione della necessaria presenza di due modelli processuali differenziati all’interno della giurisdizione esclusiva smentisce infatti palesemente, fin dal suo apparire, l’idea che possa rinvenirsi nell’“inestricabile intreccio” tra diritti soggettivi ed interessi legittimi la ratio dell’attribuzione di talune materie al giudice amministrativo, giacchè quello stesso intreccio, che si assume “inestricabile” ai fini del riparto di giurisdizione, bisogna poi accuratamente districare ai fini della individuazione del modulo processuale da applicare alle singole liti.

 

                                               II   

Ma l’importanza sistematica e conformante di questa caratteristica, solo apparentemente secondaria, doveva infine esprimersi anche in senso positivo, attraverso l’impronta che il modello processuale tipico della giurisdizione esclusiva incide profondamente sulla fisionomia dell’istituto.

Sono proprio le successive evoluzioni di tale modulo a determinare, intorno agli anni ’90, una nuova collocazione sistematica ed un peso sempre maggiore della giurisdizione esclusiva nel quadro delle attribuzioni del giudice amministrativo.

In quegli stessi anni in cui il giudizio su rapporti paritetici ed il giudizio su rapporti autoritativi vengono nettamente separati dalle sentenze additive della Consulta, infatti, l’assetto processuale della giurisdizione esclusiva inizia a mostrare i segni di una profonda trasformazione, che vede i due modelli del giudizio d’annullamento e del giudizio di spettanza, prima fortemente differenziati, tendere mano a mano ad accostarsi, sin quasi a fondersi, verso la fine del secolo, in un modulo di tutela unitario, di tipo reintegratorio-risarcitorio, che è stato efficacemente denominato “di piena giurisdizione”.

Questo accostamento della protezione giudiziale degli interessi legittimi agli schemi propri della tutela di spettanza ha certo molte cause, ma la principale va’ sicuramente individuata nel fatto che le situazioni di interesse legittimo sono andate incontro, sul piano sostanziale, ad una sempre più intensa subiettivazione, che, accompagnandosi al venir meno della capacità dell’apparato amministrativo di rappresentare esaustivamente l’interesse dell’intero ordinamento, fa’ sì che le pretese del privato ad un certo bene della vita divengano una componente interna (e non siano più un elemento esterno) dello stesso interesse pubblico.

Il giudizio di legittimità, di conseguenza, acquista via via caratteri più intensamente soggettivi (basti pensare alla -sotto molti aspetti fondamentale- “scoperta” dell’efficacia conformativa del giudicato d’annullamento), accostandosi così sempre più intimamente ai moduli processuali tipici del giudizio su diritti, ed adottando, per questo, proprio il modello di tutela che era stato elaborato a tal fine nell’ambito della giurisdizione esclusiva, attraverso l’adattamento dello schema generale del giudizio di annullamento alle istanze di definizione del rapporto tra p.a. e cittadino .

Si verifica, quindi, una tendenziale convergenza e riunificazione dei diversi modelli processuali della giurisdizione amministrativa, riunificazione che si attua dapprima all’interno della giurisdizione esclusiva (Fabri), poi, molto rapidamente, tra quest’ultima e la giurisdizione di legittimità.

Ciò rende, infine, sempre meno sostenibile lo stesso carattere “speciale” della giurisdizione esclusiva, per il semplice fatto che è adesso quest’ultima a fornire il modulo di base su cui si costruisce lo schema del giudizio amministrativo, in tutte le sue varie forme e declinazioni.

 

                                               III

Questo processo di de-specializzazione della giurisdizione esclusiva non è apprezzabile solo per quanto concerne il modulo processuale, ma –a testimonianza del condizionamento che le ragioni della tutela esercitano sul problema dell’individuazione del giudice- ha evidenti ricadute anche sul piano (della specialità) del criterio di riparto.

La penetrazione della tutela di “giurisdizione piena” all’interno della giurisdizione di legittimità ribalta infatti i rapporti tra quest’ultima e la giurisdizione esclusiva, elevando la seconda –in luogo della prima- a normale modus agendi del giudice amministrativo.

In parallelo, aumenta in misura esponenziale l’interesse per l’individuazione di un nuovo fondamento della giurisdizione esclusiva.

Superata l’ormai insoddisfacente impostazione tradizionale (basata – lo si rammenta- sull’“inestricabile intreccio” di diritti ed interessi), la ricerca del fondamento della giurisdizione esclusiva – sia pure per varie e non sempre omogenee ragioni- si indirizza quindi nuovamente verso la incombente presenza dell’interesse pubblico, –questo sì!- “inestricabilmente” legato all’azione amministrativa (è notorio che di un “interesse privato” della p.a. non può propriamente farsi questione, neppure quando essa agisca jure privatorum).

L’espansione della giurisdizione esclusiva, che si rivela inarrestabile per tutto l’ultimo trentennio del XX secolo, risponde infatti, con sempre maggiore convinzione e piena consapevolezza, all’idea che tutta l’attività dell’amministrazione - in quanto intimamente funzionalizzata, in misura maggiore o minore, al perseguimento del pubblico interesse- dia vita a controversie legittimamente assegnabili (anzi: che è in linea di principio opportuno assegnare) alla cognizione del giudice amministrativo, quale che sia la situazione giuridica soggettiva concretamente azionata dal cittadino, perchè la focalizzazione della giurisdizione esclusiva sulle esigenze del pubblico interesse tende naturalmente ad attenuare le differenze tra le diverse situazioni giuridicamente protette di cui il ricorrente si faccia portatore in giudizio.

Se i motivi più immediatamente apprezzabili di questa tendenza sembrano superficialmente accostarla a quello stesso indirizzo che si era affermato alle origini della giurisdizione esclusiva- con l’applicazione di un modulo processuale unico a situazioni di cui non viene in rilievo la diversa consistenza intrinseca (potrebbe ritenersi: ora come allora, offuscata dalla prospettiva della preminente tutela dell’interesse pubblico)-, non si può tuttavia non accorgersi che l’ispirazione che muove la nuova tendenza è di segno assolutamente opposto, perché, mentre negli anni ‘20 tutto ciò discendeva dalla prevalenza accordata al tema del potere del giudice –e, se si vuole, della p.a.- sul tema della protezione del cittadino, ora accade l’esatto contrario, e sono le esigenze di miglior tutela del cittadino a sostenere la richiesta di un riposizionamento della giurisdizione esclusiva nel contesto della giurisdizione amministrativa (ergo: di un riposizionamento della giurisdizione amministrativa nei confronti della giurisdizione ordinaria).

Né deve ingannare il richiamo al preminente “interesse pubblico”, che in entrambi i casi viene invocato a giustificazione della deroga a- (ovvero della manipolazione de-) il criterio di riparto: perché allora si trattava di un interesse dell’apparato pubblico, identificato con quello dell’amministrazione quale soggetto di diritto, oggi è invece questione dell’interesse generale dell’ordinamento, inclusivo – e non esclusivo- dell’interesse materiale del privato.   

Questa (non lieve) differenza è resa palese, ancora una volta, dal fatto stesso che la tendenziale unificazione del modulo processuale adottato sia per i diritti che per gli interessi avvenga –come si è detto- in direzione invertita rispetto alle origini: non è più il modello del processo “di legittimità” (o di annullamento) ad estendersi a posizioni di diritto soggettivo, ma è piuttosto il modello processuale “di spettanza” a permeare sempre più profondamente il giudizio su interessi legittimi.

La “nuova” competenza esclusiva si propone dunque, sul piano della  giurisdizione come su quello della tutela (o, più esattamente: sul piano della giurisdizione, perché sul piano della tutela), quale modello di valore generale. Ben lungi dal profilarsi come eccezionale, l’attribuzione al giudice amministrativo della cognizione di intere materie finisce con l’apparire, infatti, la soluzione fisiologica – ed anzi: ottimale- del problema di giurisdizione, e questo sul piano stesso delle esigenze di protezione del cittadino, cui viene garantita adeguata tutela attraverso la generale applicazione, da parte del giudice amministrativo, degli schemi della “giurisdizione piena”.

  

                                    IV  

Come è fin troppo noto, questo moto di espansione si interrompe bruscamente in seguito alla emanazione della sentenza n. 204/2004 della Consulta.

In essa, il Giudice delle leggi esclude infatti che l’attribuzione di intere materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo possa legittimamente prescindere dalla circostanza che in queste si riscontri l’esercizio di poteri autoritativi da parte della p.a., quindi dalla almeno potenziale presenza, in esse, di situazioni di interesse legittimo frammiste a situazioni di diritto soggettivo.

Il disegno di costruire il giudice amministrativo come giudice elettivo – e tendenzialmente unico- delle controversie in cui sia parte una p.a., perseguito attraverso l’espansione dell’ambito della giurisdizione esclusiva, viene dunque accantonato, e quest’ultima continua così ad esser concepita come soluzione speciale e derogatoria della questione del riparto.

Questo improvviso arresto non si comunica, tuttavia, al moto di riunificazione del modello del processo amministrativo sulla base degli schemi di tutela tipici della giurisdizione esclusiva, che conferma pertanto, sotto questo aspetto, il proprio valore generale.

La specialità della giurisdizione esclusiva, dopo la sentenza della Corte costituzionale, si concentra dunque tutta e soltanto nel criterio di riparto, mentre il modulo processuale unitario cui essa si informa si de-specializza ulteriormente, estendendosi tendenzialmente all’intera giurisdizione amministrativa.

Il Codice del 2010 non sembra affatto mutare tale situazione (né d’altronde ci si poteva attendere, per difetto di delega, che esso incidesse sulla questione del riparto).

Da un lato, l’ art. 7 ribadisce dunque a chiare lettere la specialità del criterio di riparto su cui si basa la giurisdizione esclusiva.

Dall’altro, il modulo processuale adottato nella giurisdizione esclusiva non si distingue ormai da quello generale del giudice amministrativo, se non per qualche –sia pur non insignificante- dettaglio (ammissibilità dell’arbitrato; autonomia dell’azione di condanna; esperibilità del procedimento monitorio; probabile ammissibilità della provvisionale).

 

                                               V

Se questi sono la storia passata ed il panorama del presente, quale futuro attende la giurisdizione esclusiva?

A mio avviso, è possibile immaginare tre scenari: l’atrofia; l’involuzione; lo sviluppo.

Il primo scenario è, sostanzialmente, già oggi davanti a noi: ricondotta a mero criterio speciale di riparto, la giurisdizione esclusiva perde di consistenza sistematica, e si rivela -come Ledda aveva già osservato nel 1972- poco più che un espediente. La lunga, faticosa, paratattica elencazione dell’art. 133 del Codice, del resto, offre bene il senso di una intrinseca a-sistematicità, della assenza (e comunque, della non-evidenza) di un nucleo ricostruttivo.

Esaurita la sua missione storica (rimodellare il processo amministrativo in modo quanto più possibile consono alle esigenze di una tutela di spettanza), la giurisdizione esclusiva -potrebbe sostenersi- è adesso destinata a rientrare nell’ombra, riducendosi ad una mera anomalia del sistema.

 

                                               VI

Il secondo è un rischio concreto, e fa temere, già nell’immediato futuro, l’arretramento dei livelli di tutela raggiunti dalla giurisdizione amministrativa sul piano della protezione degli interessi legittimi, in nome dell’integrità del criterio di riparto, così come concepito (se si vuole: ribadito) dalla Consulta.

Mi sembra infatti che la ritrovata centralità semantica del carattere derogatorio rispetto alla ordinaria redistribuzione delle competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non abbia soltanto l’effetto di immiserire il profilo sistematico della giurisdizione esclusiva, ma metta in pericolo i risultati che quest’ultima ha permesso di conseguire sotto il profilo della piena tutela degli interessi legittimi.

Il nesso sistematico-assiologico che – come si è osservato- corre tra i due caratteri distintivi della giurisdizione esclusiva, tende in qualche modo a far sì che l’uno segua in larga misura le sorti dell’altro: abbiamo visto come la generalizzazione del modulo di tutela dei diritti, un tempo caratteristica della giurisdizione esclusiva, ne avesse comportato la de-specializzazione anche quale criterio di riparto. Nulla esclude, tuttavia, che si possa assistere ora al processo inverso, nel senso che la ribadita specialità della giurisdizione esclusiva in quanto vertente (anche) su diritti soggettivi, potrebbe condurre nuovamente all’accentuazione della specialità del modulo processuale di tutela dei diritti rispetto al modulo processuale di protezione degli interessi legittimi  

Per comprendere come ciò possa accadere, bisogna tener presente che l’affermazione del modello processuale unitario di c.d. “piena giurisdizione” (già formatosi nell’ambito della giurisdizione esclusiva, e che prima il legislatore del 2000, ed oggi il Codice, propongono come schema fondativo generale dell’intero processo amministrativo) è fenomeno relativamente recente, sicchè l’idea che tra processo dei diritti e processo degli interessi esista una fondamentale omogeneità risulta tuttora largamente estranea alla cultura degli operatori giuridici (e non del tutto familiare alla stessa dottrina), nella quale, anzi, domina la concezione opposta, che ha ispirato –come si è visto- la differenziazione processuale della giurisdizione esclusiva.

In questo contesto, può sorgere (non solo negli operatori) il dubbio che se il complesso dei poteri attribuiti dal Codice al giudice amministrativo venisse utilizzato anche nell’ambito della giurisdizione di legittimità (e non soltanto in sede di giurisdizione esclusiva), quel giudice finirebbe sovente per proteggere veri e propri diritti, esorbitando quindi dalla propria sfera di attribuzioni giurisdizionali.

Questa preoccupazione potrebbe quindi ispirare una lettura delle norme del Codice che tenda a scongiurare l’eventuale violazione del limite esterno della giurisdizione di legittimità, riservando alle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva gran parte (e soprattutto: la parte più innovativa e qualificante) dello strumentario di tutela che pure il Codice stesso assegna tout court al giudice amministrativo.

Alludo –com’è subito chiaro, e come si preciserà ancora meglio più avanti- soprattutto all’azione di condanna di carattere non-risarcitorio, che il testo dell’art. 30, comma 1°, disegna chiaramente quale rimedio generale, esperibile a tutela tanto di interessi che di diritti, ma che si potrebbe esser tentati di collegare ai soli diritti soggettivi (ergo: ai soli settori di competenza esclusiva), in nome della integrità dei limiti della giurisdizione amministrativa.

La ribadita specialità del criterio di riparto adottato per la giurisdizione esclusiva potrebbe quindi comportare, in sintesi, la ri-specializzazione del modulo processuale tipico di quest’ultima, inducendo gli operatori a ri-produrne la differenziazione vuoi rispetto alla giurisdizione di legittimità, vuoi all’interno della stessa giurisdizione esclusiva, ancora una volta marcando, così, una netta e profonda separazione tra processo dei diritti e processo degli interessi.

La storia –come il fiume- non si può fermare: ed un moto evolutivo che si veda sbarrare la strada verso il proprio naturale sbocco, può anche involvere, rovesciando il proprio corso all’indietro.    

 

                                               VII

Il terzo scenario –a mio avviso, l’unico auspicabile, ma forse il meno probabile dei tre- presuppone il superamento del blocco imposto dalla Consulta alla de-specializzazione della giurisdizione esclusiva come criterio di riparto.

Superamento che potrebbe esser tentato, a dire il vero, anche mantenendo ferma l’impostazione seguita dal Giudice delle leggi, ma negando, sotto questo stesso profilo, la specialità della giurisdizione esclusiva. Che potrebbe esser quindi del tutto assimilata alla giurisdizione generale di legittimità, in quanto si ritenga che essa si eserciti, sempre e comunque, su meri interessi legittimi, e mai su diritti soggettivi.

            Si è detto, per esempio, al riguardo (Police) che la giurisdizione esclusiva, così come disegnata dalla Consulta, non è affatto, in senso proprio, “esclusiva”: se il giudice amministrativo è inteso quale giudice del potere della p.a., infatti, egli non potrà mai conoscere di diritti soggettivi, perché di fronte al potere sono configurabili solo interessi legittimi.

Questa tesi non può tuttavia essere accolta, per vari motivi.

In primo luogo, vi ostano considerazioni di ordine testuale: il Codice contiene infatti disposizioni che parlano espressamente di diritti soggettivi tutelati dal giudice amministrativo (arbitrato; decreto ingiuntivo), delle quali si può certo sminuire la portata pratica, ma cui non si può negare, almeno a priori, significato. Tanto più che -come è stato osservato (Scoca)- in realtà la Consulta non pretende che la giurisdizione esclusiva abbia ambito limitato all’esercizio di poteri autoritativi da parte della p.a., ma soltanto che l’amministrazione possegga tali poteri nelle materie oggetto di esclusiva attribuzione al giudice amministrativo da parte del legislatore.

Ma soprattutto, il Codice, per il fatto stesso di adottare integralmente il modulo di tutela di “piena giurisdizione”, suggerisce chiaramente che è vera piuttosto l’ipotesi contraria, e cioè che il giudice amministrativo, anche al di fuori delle materie di giurisdizione esclusiva, può tutelare –e talvolta effettivamente tutela- veri e propri diritti soggettivi.

Il riferimento principale è, ancora una volta, all’azione di condanna generale ed atipica (art. 30), che sembra da porre in stretta relazione a quanto già dispone la norma sui poteri del giudice del silenzio (art. 31), là dove consente di affermare la fondatezza della “pretesa ad un provvedimento amministrativo” avanzata in giudizio dal cittadino, e di ordinare alla p.a. di agire in tal senso. Pretesa cui, a questo punto, sembra difficile negare la consistenza di un diritto soggettivo, almeno quando il potere autoritativo della p.a. si riveli vincolato, e questo non tanto in astratto, ma anche – ed anzi: soprattutto- in concreto, per la “spendita” e l’esaurimento della discrezionalità da parte dell’amministrazione.

Quest’ultima ipotesi è forse quella che meglio consente di comprendere quale sia, oggi, l’essenza della tutela che il giudice amministrativo è chiamato a fornire al cittadino. Una tutela che è, in linea di principio, rivolta indifferentemente a diritti ed ad interessi, proprio perché il compito essenziale del giudice consiste adesso nel verificare se le pretese materiali del cittadino assumano la consistenza degli uni ovvero degli altri, e questo non già alla luce della norma attributiva e conformativa del potere, ma soprattutto in considerazione dell’esito del procedimento amministrativo da cui promana il provvedimento impugnato.

Si tratta di una forma di protezione incisiva ed efficace, che da un lato radica la preferenza per il giudice speciale quale giudice del potere – giacchè solo il giudice amministrativo appare in grado di valutare quanto il potere stesso abbia prodotto sul piano dell’assetto degli interessi confliggenti-, e dall’altro evidenzia, conseguentemente, la necessità di una rilettura aggiornata del criterio di riparto.

Se di quest’ultimo si accredita ancora la versione originaria (ed ormai tralaticia), infatti, esso appare allora destinato a contrastare questa evoluzione: perché quest’ultima presuppone chiaramente la possibilità che il giudice amministrativo conosca di (quelli che si mostrano infine come) diritti nell’intera sfera della sua giurisdizione, e non soltanto nell’ambito delle materie di pertinenza esclusiva.

Come si è già osservato, la riaffermazione del criterio di riparto nei suoi termini tradizionali sembra destinata a favorire soluzioni restrittive della tutela accordabile sulla base del Codice, limitando, per esempio, la possibilità per il cittadino di ottenere pronunce di condanna alle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva (ciò che la stessa lettera dell’art. 30, invece, parrebbe chiaramente escludere).

Si tratterebbe, a mio avviso, di un rimedio peggiore del male, perché in tal modo si assoggetterebbero le regole della tutela alla necessità di conservare l’assetto del riparto di giurisdizione, ossia si conformerebbe la protezione offerta al cittadino alle esigenze del giudice, e non viceversa.

L’uscita da questa impasse va’ pertanto cercata altrove, e cioè sviluppando le implicazioni del modulo di “giurisdizione piena”- qual è delineato da Police nel noto saggio del 2001, e qual è sostanzialmente proposto dal Codice-, in forza del quale il giudice amministrativo accorda a diritti ed interessi una tutela che è identica come strumentario di base, ma diversa, infine, per contenuto.

Questa è d’altronde l’impostazione stessa del Codice, che delinea un modello unitario del processo amministrativo, applicabile con eguale portata satisfattiva a qualsiasi situazione giuridica tutelata.

A mio parere, una giustizia amministrativa moderna non può non tener conto della mutata consistenza delle situazioni giuridiche soggettive del cittadino nei confronti del potere amministrativo, che è seguita all’inserimento degli interessi materiali del privato tra le componenti dell’interesse pubblico inteso quale interesse dell’ordinamento, inserimento che determina a sua volta la coincidenza strutturale, e non più soltanto occasionale (ed in fondo irrilevante), tra soddisfazione dei primi e realizzazione del secondo.

Tali situazioni, oggi, hanno dunque diversa consistenza, ma un identico sostrato materiale, il chè, ad un tempo, consente (anzi: impone) che la loro tutela avvenga attraverso uno strumentario processuale fondamentalmente unitario, e richiede, perché sia possibile graduare l’intensità della protezione, un giudice capace di discernerne la fine sostanza, quasi mai identificabile sul piano dell’applicazione del diritto obiettivo, e che giace per lo più nascosta tra le pieghe del procedimento.

In questo appunto – è la mia convinzione- sta la ragione profonda della preferenza per il giudice amministrativo.

Rispetto a questa esigenza (che ispirava chiaramente la legge di delegazione ed il progetto di codice licenziato dalla commissione, ma che ha lasciato cospicue tracce anche nel testo infine pubblicato), il criterio di riparto testualmente riproposto nella Carta del 1948 si rivela tendenzialmente disfunzionale e distorsivo, in quanto comporta la possibile compromissione del diritto di difesa dei cittadini, ossia di un principio di ben più elevato pregio assiologico-giuridico rispetto alla stessa integrità della giurisdizione.

Il dettato dell’art. 103 della Costituzione va’ dunque interpretato evolutivamente ed in conformità all’art. 24, riconoscendo che quanto poteva ritenersi “particolare” nel 1948 non ha più, oggi, alcun connotato di specialità, perché diritti ed interessi sono, ai nostri giorni, (non inestricabilmente intrecciati, ma) almeno potenzialmente riscontrabili nei confronti dell’intera gamma dei poteri della p.a., e non più in alcune materie soltanto.         

In tal modo, forse, il futuro della giurisdizione esclusiva potrà tingersi di colori meno grigi, e la tensione verso la più ampia tutela del cittadino, che ne ha sempre mosso e percorso le vicende, potrà trovare infine compiuta realizzazione.

 

           

   

*Intervento al Convegno “Il codice del processo amministrativo”, Lecce, 12/13 novembre 2010. L’autore desidera ringraziare gli Amici Salentini, ed in particolare il Presidente Antonio Cavallari, per l’affettuosa e generosa ospitalità.