La giurisdizione amministrativa: effettività e pienezza della tutela

Luigi Maruotti (Presidente di sezione del Consiglio di Stato)*

 

* Il presente lavoro costituisce il testo scritto, integrato da note, della relazione svolta a Lecce il 12 novembre 2010, in occasione del Convegno su “Il codice del processo amministrativo”.

 

§ 1. La continuità tra l’art. 1 del Codice e gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa: due riflessioni sulle esigenze pratiche e sulla semplificazione della normativa sulla giurisdizione. - § 2. La rilevanza del diritto europeo nelle materie sostanziali. - § 3. Alcune  regole del Codice sulla effettività della tutela. - § 4. La rilevanza del diritto europeo in materia processuale.

 

 

1. La continuità tra l’art. 1 del Codice e gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa: due riflessioni sulle esigenze pratiche e sulla semplificazione della normativa sulla giurisdizione.

Il principio di effettività della tutela è stato sempre il punto di riferimento della giurisprudenza amministrativa, che ha elaborato importanti orientamenti, sia per la tutela degli interessi legittimi (in tema di impugnazione del silenzio, di tutela cautelare, di esecuzione del giudicato), sia per la tutela di diritti (in tema di atti paritetici e di proponibilità di azioni dichiarative e di condanna).

Per verificare se il Codice costituisca un ulteriore deciso passo in avanti verso l’effettività della tutela, occorre esaminare tutte le disposizioni del decreto legislativo n. 104 del 2010, e quindi anche gli allegati al Codice, perché anch’essi incidono sulla possibilità che le pronunce del giudice amministrativo siano giuste e tempestive.

Credo che il decreto legislativo contenga moltissime luci e solo qualche piccola ombra.

Un’ombra allarmante mi sembra la mancanza delle specifiche misure organizzative volte ad agevolare la definizione dei processi entro un termine ragionevole, ma la stessa legge delega imponeva una riforma a costo zero.

Quest’ombra è resa più evidente da alcune recenti leggi che hanno indotto molti valorosi colleghi a chiedere il collocamento a riposo: ora i TAR e il Consiglio di Stato possono contare su un numero molto limitato di magistrati, in tutto complessivamente circa 300.

Gli attuali gravi vuoti di organico rendono difficile il rispetto del principio della ragionevole durata del processo.

Passiamo ora però alle luci, che sono moltissime.

Le sentenze possono essere giuste e tempestive quando concorrono quattro circostanze.

Primo, quando vi è la fattiva collaborazione tra difensori e giudici.

Secondo, quando vi è la certezza sul riparto di giurisdizione.

Terzo, quando vi è la chiarezza delle disposizioni sostanziali da applicare.

Quarto, quando le regole processuali consentono al giudice di dare al ricorrente tutta le utilità spettanti in base al diritto sostanziale.

La prima riflessione riguarda la cooperazione tra difensori e giudici.

Per l’art. 2, comma 1, “il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo”.

Rivolgo ai difensori un accorato invito, affinché si attengano al principio espresso dall’art. 3, comma 2, sulla redazione degli atti in maniera “sintetica”.

Troppo spesso ci sono ricorsi, memorie, appelli anche oltre il centinaio delle pagine, che senza alcuna giustificazione incidono negativamente sul buon andamento del processo: come si può pretendere che i processi abbiano una durata ragionevole, quando gli scritti impediscono un numero maggiore di sentenze?

Anche le eccezioni solo dilatorie incidono negativamente sul servizio-giustizia.

Forse l’alto numero delle pagine è dovuto a due fattori.

Il primo, l’esigenza di indicare nelle parcelle i relativi compensi.

Il secondo, la speranza che un maggior numero di pagine possa convincere un giudice incerto o pregiudizialmente contrario alla tesi sostenuta.

Spero da un lato che i giudici sappiano far sempre percepire alle parti che essi decidono la controversia non in base a personali costruzioni dogmatiche o ideologiche, ma in applicazione dei superiori valori della Costituzione e del diritto europeo.

Dall’altro lato, spero che, con le statuizioni sulle spese di giudizio e senza incidere sul diritto alla difesa, i giudici impongano il rispetto del principio di sinteticità, affinché i comportamenti processuali non incidano sulla stessa salute dei magistrati decidenti.

Anche i giudici devono però rispettare il principio di sinteticità e di chiarezza.

Affinché la speranza di giustizia diventi realtà, i giudici devono anche interpretare ogni disposizione del Codice nel senso che fin dove è possibile va verificato se il ricorrente ha ragione o torto, senza formalismi, applicando con larghezza l’istituto della rimessione in termini per errore scusabile, ai sensi degli articoli 11, comma 5, e 37.

Una seconda riflessione riguarda l’esigenza che vi sia certezza delle regole sul riparto di giurisdizione.

Il Codice contiene disposizioni che finalmente dovrebbero impedire l’ulteriore sorgere di conflitti di giurisprudenza tra il Consiglio di Stato e le Sezioni Unite.

Gli articoli 7 e 113 hanno adoperato le stesse espressioni utilizzate dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, per le quali si giustificano la giurisdizione di legittimità e quella esclusiva quando si tratti di una controversia concernente l’esercizio della funzione pubblica.

La Corte Costituzionale ha definito il giudice amministrativo quale “giudice naturale della funzione pubblica”, che sicuramente è esercitata quando la legge prevede l’applicazione di regole esorbitanti dal diritto privato o si tratti di un procedimento amministrativo.

Viene da ricordare una considerazione del tedesco Bachov (per cui il procedimento non è altro che una tecnica di diluizione del potere), cui aggiungerei la mia considerazione ‘li dove c’è il procedimento, lì c’è l’interesse legittimo, salve le eccezioni previste dalla legge’.

L’art. 7 ha quindi imposto l’irrilevanza dei criteri sui quali vi sono state divergenze giurisprudenziali ai massimi livelli: per l’impugnazione dell’atto innanzi al giudice amministrativo, poco importano la sua natura o la gravità del vizio dedotto, bastando che esso sia riconducibile all’esercizio del potere amministrativo, il che sempre si ha quando è formulata un’istanza e vi sia un interesse pretensivo.

Anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, specialmente in materia espropriativa o di gestione delle discariche di rifiuti, è decisiva la verifica che i comportamenti siano stati posti in essere nel corso del procedimento, e dunque siano riconducibili all’esercizio del potere, come anche precisato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 2007 (per la quale la legge ordinaria può prevedere la giurisdizione esclusiva anche quando siano coinvolti diritti fondamentali).

Gli articoli 7 e 133 sono stati redatti dalla Commissione speciale nel più profondo rispetto dei principi formulati dalle sentenze della Corte Costituzionale del 2004, del 2006 e del 2007 e spero che si possano considerare relitti del passato le dispute che hanno a lungo riguardato i criteri di riparto.

 

2. La rilevanza del diritto europeo nelle materie sostanziali.

Una terza riflessione riguarda l’esigenza che siano di facile applicazione le disposizioni sostanziali da applicare.

L’ordinamento amministrativo è sottoposto a continue riforme, anche su impulso del diritto europeo.

Le discipline dei contratti pubblici di appalto e della materia ambientale sono segnate dal primato delle normative dell’Unione Europea, il che spesso impone al giudice la verifica della compatibilità della regola nazionale rispetto a quella dell’Unione, avente valore preminente.

Anche il testo unico sugli espropri e il Codice del paesaggio costituiscono l’attuazione dei principi elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (si pensi alla tutela spettante al proprietario espropriando, ai principi sull’indennità di esproprio e alla disciplina sull’esercizio del diritto di prelazione di beni sottoposti a vincolo artistico e storico)

Poiché l’art. 1 ha ancorato il principio di effettività della tutela ai principi del diritto europeo, il giudice amministrativo deve dare rilevanza a due ‘serbatoi di regole sostanziali’, affermate dal diritto dell’Unione Europea (e dunque dalla Corte di Lussemburgo) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (e dunque dalla Corte di Strasburgo).

Il serbatoio di regole sostanziali derivanti dal diritto dell’Unione Europea è alimentato da due fonti.

La prima è l’art. 340 del TFUE (sui “principi generali comuni ai diritti degli Stati membri”), che attribuisce rilevanza alla certezza del diritto, alla intangibilità degli effetti delle decisioni che hanno definito una controversia, al rispetto del legittimo affidamento, al principio di proporzionalità, decisivo per verificare anche la ragionevolezza di un atto sanzionatorio.

La seconda fonte è la Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 (sui “diritti fondamentali dell’Unione europea”), che ha acquisito lo “stesso valore giuridico dei Trattati” con il Trattato di Lisbona.

         L’altro serbatoio di regole sostanziali del diritto europeo è invece alimentato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo risulta soprattutto interessante per i limiti che incontra la legge retroattiva.

Il legislatore ‘non può fare ciò che vuole’, sia quando si tratti di una legge retroattiva generale e astratta, cioè interpretativa, sia quando si tratti di una legge contra personam.

Per la Corte di Strasburgo (CEDU, Sez. IV, Zielinski c. Francia, 28 ottobre 1999) è contraria alla CEDU la legge di interpretazione autentica, generale e astratta, quando non sussistono “motivi imperativi di interesse generale”, configurabili solo se la norma interpretativa corrisponda all’originario contenuto di quella interpretata, risolva oscillazioni giurisprudenziali e si applichi nei giudizi pendenti, rispettando i diritti acquisiti (per l’applicazione di tale principio, v. Cons. Stato, Sez. IV, n. 7551 del 2010).

A maggior ragione, è contraria alla CEDU la legge retroattiva contra personam in tre casi:

a) quando sani un illecito che abbia già dato luogo ad una soccombenza in un giudizio[1];

b) quando contenga disposizioni contro poche persone[2], per orientare a favore dell’amministrazione “l’esito imminente” di uno specifico giudizio[3];

c) quando intenda eliminare gli effetti di una decisione irrevocabile, interferendo sui diritti consolidatisi[4].

 

3. Alcune regole del Codice sulla effettività della tutela

La quarta e ultima riflessione riguarda le regole del Codice sulla effettività della tutela.

Innanzitutto, il principio di effettività va coniugato col principio della parità delle parti, sancito dall’art. 1, comma 1, di cui costituisce applicazione l’art. 73, comma 3.

Quando il giudice intende porre a base della sentenza una questione rilevabile d’ufficio, deve consentire le deduzioni delle parti.

Inoltre l’art. 42 disciplina non solo il ricorso incidentale (per il quale rilevano tuttora i principi formulati dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2008), ma anche la domanda riconvenzionale.

Soprattutto quando un ricorrente chieda un risarcimento del danno, deducendo la responsabilità dell’amministrazione, questa può proporre una domanda riconvenzionale e chiedere il risarcimento, comprovando la responsabilità del ricorrente.

L’art. 42 sulla domanda riconvenzionale è coerente con l’art. 7, comma 7, per il quale innanzi al giudice amministrativo si applica il principio di concentrazione “di ogni forma di tutela”.

La concentrazione è stata prevista anche dall’art. 30, per l’azione di “condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio  dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria”.

Questa regola della concentrazione era stata già affermata dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000 ed è stata ribadita, in coerenza con tre chiare statuizioni della Corte Costituzionale.

Già la sentenza n. 292 del 2000, al § 3.2., aveva ammesso che la concentrazione della tutela innanzi al giudice amministrativo fosse coerente con l’art. 24 della Costituzione, quando si fosse chiesto il risarcimento del danno arrecato dal provvedimento amministrativo.

Le due ulteriori sentenze della Corte Costituzionale (la n. 204 del 2004, al § 3.4.1., e la n. 191 del 2006, al § 4.2.) hanno ancor più chiaramente osservato che la tutela risarcitoria è uno “strumento di tutela ulteriore rispetto a quella classico-demolitoria”: si tratta della piena tutela dell’interesse legittimo (e non di un fantomatico diritto), non si applica l’art. 2043, ma la regola pubblicistica ora trasfusa nell’art. 30 del Codice.

La giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria discende perciò direttamente dall’art. 103 della Costituzione, per il quale solo il giudice amministrativo conosce dell’interesse legittimo, per ogni relativa forma di tutela.

L’art. 30, nel testo entrato in vigore, contiene altre due regole fondamentali, che sono chiavi di volta del sistema.

Il comma 3 prevede il termine di decadenza di 120 giorni per proporre la domanda ‘autonoma di risarcimento’, così riducendo il termine di 180 giorni ipotizzato dalla commissione speciale che ha redatto la bozza del codice.

La regola risponde pienamente ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 165 del 1998, che rimise alla scelta discrezionale del legislatore ogni determinazione sui rapporti intercorrenti tra la domanda di annullamento e quella risarcitoria.

Ritengo apprezzabile la soluzione imposta dal legislatore delegato sulla questione della cd pregiudizialità, perché coerente con il principio di non contraddizione, su cui mi soffermai qui a Lecce nel precedente Convegno svoltosi il 9 ottobre 2009[5]: chi può proporre il ricorso d’annullamento in una delle due sedi della giustizia amministrativa, e dunque anche col ricorso straordinario, può chiedere il risarcimento del danno entro il termine ‘lungo’ di 120 giorni, mentre chi si può avvalere soltanto del ricorso al TAR ed entro un termine più breve, perché la legge esclude il ricorso straordinario, come in tema di appalti o di elezioni, può fondatamente chiedere il risarcimento solo se agisce entro il medesimo termine breve previsto per l’azione di annullamento (come si può desumere dall’art. 30, comma 3, secondo periodo).

Inoltre, per il comma 6, di ogni domanda risarcitoria “per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo”.

Tale disposizione è stata opportunamente sollecitata dalla Commissione affari costituzionali del Senato, preoccupata dall’ipotesi che le Sezioni Unite, malgrado le sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, potessero affermare una concorrente giurisdizione ordinaria sulla base delle sentenze delle medesime Sezioni Unite nn. 500 e 501 del 1999, il cui dictum – già dissonante con l’art. 35 del d.lg. n. 80 del 1998 - era peraltro già stato smentito anche dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000.

Per la tenuta del sistema, mi auguro che non vi siano ardite proposte interpretative, secondo cui la parola “decadenza” dovrebbe essere interpretata quale sinonimo di “prescrizione”: come gli studenti universitari, anche il legislatore è consapevole della distinzione tra prescrizione e decadenza.

Come ultimo argomento di natura processuale, intendo soffermarmi sulla questione delle ‘azioni proponibili’.

Il Codice non richiama l’azione ‘atipica’ e non ammette esplicitamente le azioni di adempimento e di accertamento, cui faceva invece riferimento la bozza approvata dalla commissione speciale.

Tale ‘accantonamento’ è stato criticato da molti, perché ridurrebbe la possibilità di dare una tutela effettiva.

Personalmente, a parte considerazioni teoriche sui massimi sistemi, ritengo che le critiche non siano condivisibili.

Sarebbe stata profondamente negativa per il buon andamento dell’azione amministrativa, e per la buona gestione dei processi, una regola che avesse consentito di accertare nel processo la fondatezza di una pretesa riguardante un interesse di pretesa.

I giudici amministrativi, il cui numero è estremamente esiguo, non possono essere impropriamente investiti di una funzione tipica delle migliaia di pubbliche amministrazioni, cioè quella di definire i procedimenti ad istanza di parte.

Già nell’attuale quadro normativo vi sono difficoltà per rispettare il principio della durata ragionevole del processo.

A quali insormontabili problemi si andrebbe incontro se ogni mancata definizione di un procedimento amministrativo comportasse la definizione diretta in sede processuale?

Può il giudice amministrativo decidere se è fondata una domanda di permesso di costruire?

E poi, sarebbe compatibile con la tenuta del sistema la conseguente decisione delle questioni tramite un consulente?

Perciò condivido il contenuto dell’articolo 31 sul silenzio, per il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”.

In altri termini, il giudice si può pronunciare sulla fondatezza della pretesa solo quando ‘una è la soluzione conforme alla legge’ e una sola sia la questione da decidere.

L’esclusione dell’azione generale di accertamento, così come la mancata previsione di una azione ‘atipica’, non significano però che vi sia un vulnus legislativo all’effettività della tutela.

Già il solo articolo 1, consente al giudice di ammettere l’azione che possa far ottenere tutte le utilità che spettano in base al diritto sostanziale.

Già le decisioni dell’Adunanza Plenaria n. 17 del 1955 e n. 1 del 1983 hanno ammesso che la sentenza, nel caso di annullamento dell’atto impugnato, possa anche accertare la caducazione dell’atto meramente consequenziale.

Altre disposizioni, anche se non richiamate dal Codice, prevedono poi peculiari poteri del giudice amministrativo, ad esempio quelli previsti dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 198 del 2009, che consente di emanare ordini per “ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio”.

Molte disposizioni sulla giurisdizione esclusiva poi comportano l’attrazione della disciplina sulle azioni, previste da altre leggi amministrative e perfino dal codice civile.

Per le Sezioni Unite, quando si tratti della inefficiente gestione dei rifiuti, la giurisdizione esclusiva comporta la proponibilità di azioni volte ad ottenere misure di tutela (Sez. Un., n. 27187 del 2007 e ord. n. 11832 del 2009), anche in applicazione dell’art. 844 del codice civile, con l’esperibilità dell’azione inibitoria.

Quando si tratta della occupazione sine titulo di un fondo, riconducibile all’esercizio del pubblico potere, ad es. quando è annullato un atto ablatorio o il procedimento non si è concluso del decreto di esproprio, per l’Adunanza Plenaria è pacifico che si possa agire con l‘azione di restituzione.

Ed è anche ammissibile l’azione costitutiva ex art. 2932, quando l’amministrazione addirittura come parte ricorrente agisce  nei confronti del soggetto privato, che non abbia trasferito il diritto di proprietà in violazione di una convenzione di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4107 del 2010).

Anche in tema di pubblico servizio, il ricorrente può chiedere ogni misura di tutela: ad esempio, in materia scolastica, il ricorrente può chiedere misure inibitorie, per la rimozione dell’arredo scolastico, anche del crocefisso, o per la verifica della modalità di insegnamento della educazione sessuale (Sez. Un., ord. n. 2656 del 2008), salve le questioni sulla fondatezza di tali pretese.

Più in generale, ritengo che dagli art. 24 e 103 della Costituzione, e dall’art. 1 del Codice del processo, si tragga la regola della esperibilità della azione atipica nel processo amministrativo, anche di quella inibitoria, a tutela della posizione soggettiva fatta valere.

Sarà poi il giudice amministrativo, a valutare se l’azione è in concreto proponibile.

Non mi pare che l’art. 34, comma 2, precluda l’esperibilità di una generale azione inibitoria, pur se esso dispone che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

In base al principio di effettività, il comma 2  va interpretato nel senso che il giudice non può sostituirsi all’amministrazione nella emanazione di un provvedimento e non può attribuire il bene della vita, quando si tratti di un interesse di pretesa.

Si possono però verificare casi in cui sia impellente la tutela di un interesse di difesa.

Si pensi al caso in cui, durante il periodo estivo in una zona frequentata solo d’estate, una amministrazione comunichi ai sensi dell’art. 7 della legge sul procedimento che intenda disporre la chiusura di un ristorante, perché ritenuto privo di alcuni requisiti o perché la licenza commerciale non risulta legittimamente emanata.

Se l’amministrazione disponesse illico et immediate la chiusura dell’esercizio, si potrebbe configurare un danno per l’interessato per il solo fatto che ‘nel periodo di punta’ vi sia la chiusura, anche se poi un decreto cautelare monocratico potrebbe consentire una riapertura del ristorante inevitabilmente tardiva.

Dopo aver ricevuto l’avviso ex art. 7, l’interessato può chiedere al giudice una misura inibitoria anche in sede cautelare, apportando elementi che evidenzino l’erroneità della posizione dell’amministrazione.

Si può elaborare un ulteriore principio, simile a quanto è stato disposto nel settore degli appalti.

In base alla clausola stand still, infatti, per i tempi stabiliti dalla legge il provvedimento di aggiudicazione non può essere senz’altro seguito dalla stipula del contratto, dovendosi attendere il decorso dei termini volti alla utile proposizione del ricorso di primo grado.

Allo stesso modo, in altri settori si può ammettere che l’amministrazione – salvi i casi di particolare urgenza - possa eseguire un proprio provvedimento solo dopo aver consentito l’effettività della tutela, col corrispondente potere del giudice di inibire l’immediata esecuzione del provvedimento che l’amministrazione intenda emettere.

Il discorso porterebbe lontano, ma basta rilevare che nessuna norma preclude la esperibilità dell’azione atipica, che discende dagli stessi principi costituzionali, dall’art. 1 del Codice e dagli stessi articoli 6 e 13 della CEDU, come già affermato dal Consiglio di Stato.

 

4. La rilevanza del diritto europeo in materia processuale.

Mi avvio a concludere, richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sugli articoli 6 e 13 della CEDU, la cui importanza è stata sottolineata dalla Commissione affari costituzionali nel parere reso sulla bozza del Codice.

Per la Corte di Strasburgo. il principio di effettività si può ritenere rispettato quando sono rispettate tre regole fondamentali:

a) la prima esige che la decisione finale irrevocabile  attribuisca al ricorrente vittorioso tutte le utilità che gli spettano in base al diritto sostanziale, e sia anche tempestiva e dunque utile, perché emanata nel rispetto del principio della ragionevole durata del giudizio;

b) la seconda esige che la decisione irrevocabile sia rapidamente eseguita e che, altrimenti, il ricorrente vittorioso possa agire con una azione di esecuzione, per ottenere l’ottemperanza della amministrazione recalcitrante;

c) la terza esige che nel corso del giudizio possa essere emanata ogni opportuna misura cautelare, affinché la decisione possa attribuire tutte le utilità che spettano in base al diritto sostanziale.

Per la Corte di Strasburgo, gli articoli 6 e 13 si applicano a tutte le decisioni che dirimono una lite, anche se emesse da organi che non fanno parte di un ordine giudiziario[6], come avviene nel sistema italiano per gli organi parlamentari decidenti nel sistema della autodichia[7]: tale orientamento è conforme a quello della Corte di  Giustizia, che annovera tra gli organi giurisdizionali, con tutte le relative conseguenze, anche quelli che decidono il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica[8].

E’ perciò apprezzabile che il Governo, come risulta dalla relazione illustrativa, abbia redatto l’art. 112, comma 1, lettera d), ammettendo il rimedio dell’ottemperanza anche alle decisioni straordinarie del Presidente della Repubblica.

Questa lettera d) è una norma di ottemperanza al sistema CEDU.

Infatti, come più volte affermato dalla CEDU sin dal caso Hornsby dal 1997, gli articoli 6 e 13 comportano che gli Stati devono necessariamente prevedere tutte le azioni che rendano il rimedio di giustizia effettivo e non illusorio[9], in relazione sia alla fase di cognizione che a quella di esecuzione[10], da considerare una indefettibile fase del giudizio[11].

Per comprendere poi come i giudici sentano il principio di effettività, infine può essere utile il richiamo a due recenti sentenze del Consiglio di Stato.

Una decisione della Sesta Sezione (n. 3674 del 2006) ha riguardato un caso in cui il Ministero dell’Interno a distanza di circa 10 anni non aveva ancora eseguito un giudicato del giudice ordinario: in applicazione diretta degli articoli 6 e 13 CEDU, la decisione ha fissato le modalità  di esecuzione, disponendo che, decorso un certo termine, il funzionario omittente avrebbe dovuto pagare di tasca propria 200 euro per ogni giorno di ritardo.

Ovviamente, l’esecuzione in quel caso vi è stata subito dopo la decisione del Consiglio di Stato.

Ora un analogo potere di condanna è stato previsto dall’art. 114, comma 4, lettera e), del Codice, che ancora una volta ha esplicitato una regola affermatasi in giurisprudenza.

Una decisione della Quarta Sezione  (n. 1220 del 2010) ha richiamato gli articoli 6 e 13 della CEDU per ritenere ammissibile la domanda volta ad ottenere una pronuncia avente natura di titolo esecutivo, per ottenere in via coattiva da un soggetto privato la restituzione di una somma indebitamente corrisposta dall’amministrazione.

Ora l’articolo 115, comma 2, del Codice ha espressamente disposto che le pronunce del giudice amministrativo che dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo anche per l’esecuzione forzata.

Anche queste decisioni mi inducono a formulare due rapide conclusioni.

La prima è che l’articolo 1 del Codice va interpretato alla luce degli articoli 24 e 103 della Costituzione e degli articoli 6 e 13 della CEDU, sicché il giudice amministrativo può considerare ammissibile ogni azione volta a dare piena tutela al ricorrente che abbia ragione.

La seconda è che il richiamo ai principi del diritto europeo, di cui all’articolo 1, ha ulteriormente inciso sul mito del legislatore onnipotente e sulla possibilità dell’assolutismo giuridico, in nome del quale la legge può praticamente tutto.

Non è però così. Per definire la controversia, il giudice amministrativo deve tenere conto non solo della norma scritta, ma anche dei valori superiori di giustizia e moralità posti a fondamento della Convenzione Europea.

E’ compito del giudice decidere la controversia applicando la normativa dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con prevalenza rispetto ad ogni eventuale contraria determinazione del legislatore periferico.

Ci sarà vera giustizia quando i giudici daranno sempre effettiva applicazione a questi valori superiori, costi quello che costi.



[1] CEDU, Sez. I, 16 novembre 2006, Muzevic c. Croazia, § 83; CEDU, Sez. I, 19 ottobre 2006, Kesyan c. Russia, § 64; CEDU, 7 giugno 2005, Fuklev c. Ucraina, § 84; CEDU, 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turchia, § 95; CEDU, 25 marzo 1999, Iatridis c. Grecia, § 66; CEDU, 20 novembre 1995, Pressos Compania Naviera.

[2] CEDU, Sez. IV, 10 novembre 2004, Lizarraga c. Spagna, § 55, 58, 64, 70; sul divieto di incidere retroattivamente su un restricted circle of persons, § 55; sul divieto di leggi ad personam, § 58; sul divieto di interference, § 64; sugli intangible right, § 70; CEDU, Sez. IV, 28 ottobre 1999, Zielinski c. Francia, § 54, 57.

[3]  CEDU,  9 dicembre 1994, Stran c. Grecia, § 49; CEDU, 22 ottobre 1997, Papageorgiuou c. Grecia, § 112.

[4]  CEDU, Sez. IV, 28 ottobre 1999, Zielinski c. Francia; CEDU, Grande Camera, 6-10-2005, Draon c. Francia § 65 ss.; CEDU, Grande Camera., 6 ottobre 2005, Maurice c. Francia, § 84 ss.

[5] V. il mio intervento “Il giudice amministrativo come giudice del risarcimento del danno”, pubblicato in giustizia-amministrativa.it, studi e contributi.

[6] CEDU, 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia, § 40; Corte Plen., 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera, § 32; CEDU, Sez. II, 27 luglio 2004, Romashov c. Ucraina §§ 41, 42, 47; CEDU, Sez. I, 13 ottobre 2005, Vasilyev c. Russia, § 55.

[7] CEDU, 28-4-2009, n. 14, Savino c. Italia: contrasta con gli articoli 6 e 13 la normativa istitutiva di un sistema giurisdizionale pur non disciplinato dalla Costituzione nazionale, quando non sia salvaguardata l’imparzialità dei componenti degli organi decidenti.

[8] CGCE, 16 ottobre 1997, in C-69-79/96; CGCE, 18 settembre 2003, in C-292/01; CGCE, 23 dicembre 2009, C-303/08.

[9] CEDU, 15 febbraio 2006, Androsov-Russia, § 51; CEDU, 27 dicembre 2005, Iza c. Georgia, § 42; CEDU, Sez. II, 30 novembre 2005 (30 novembre 2004), Mykhaylenky c. Ucraina, § 51; CEDU, Sez. I, 24 febbraio 2005, Plotnikovy c. Russia, § 22; CEDU; Sez. II, 22 febbraio 2005 (6 giugno 2005), Sharenok c. Ucraina, § 25.

[10] CEDU, Sez. II, 27 luglio 2004, Romashov c. Ucraina.

[11]  CEDU, Sez. I, 7 luglio 2005 (7 ottobre 2005), Malinovskiy c. Russia, § 39.