La giurisdizione amministrativa:
effettività e pienezza della tutela
Luigi Maruotti (Presidente di sezione
del Consiglio di Stato)*
* Il presente lavoro costituisce il testo scritto,
integrato da note, della relazione svolta a Lecce il 12 novembre
§ 1. La
continuità tra l’art. 1 del Codice e gli orientamenti della giurisprudenza
amministrativa: due riflessioni sulle esigenze pratiche e sulla semplificazione
della normativa sulla giurisdizione. - § 2. La rilevanza del diritto europeo
nelle materie sostanziali. - § 3. Alcune regole del Codice sulla effettività della
tutela. - § 4. La rilevanza del diritto europeo in materia processuale.
1. La continuità tra l’art. 1 del Codice
e gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa: due riflessioni sulle
esigenze pratiche e sulla semplificazione della normativa sulla giurisdizione.
Il principio di effettività della tutela è stato sempre
il punto di riferimento della giurisprudenza amministrativa, che ha elaborato importanti
orientamenti, sia per la tutela degli interessi legittimi (in tema di
impugnazione del silenzio, di tutela cautelare, di esecuzione del giudicato),
sia per la tutela di diritti (in tema di atti paritetici e di proponibilità di
azioni dichiarative e di condanna).
Per verificare se il Codice costituisca un ulteriore
deciso passo in avanti verso l’effettività della tutela, occorre esaminare tutte
le disposizioni del decreto legislativo n. 104 del 2010, e quindi anche gli
allegati al Codice, perché anch’essi incidono sulla possibilità che le pronunce
del giudice amministrativo siano giuste e tempestive.
Credo che il decreto legislativo contenga moltissime
luci e solo qualche piccola ombra.
Un’ombra allarmante mi sembra la mancanza delle specifiche
misure organizzative volte ad agevolare la definizione dei processi entro un
termine ragionevole, ma la stessa legge delega imponeva una riforma a costo
zero.
Quest’ombra è resa più evidente da alcune recenti leggi
che hanno indotto molti valorosi colleghi a chiedere il collocamento a riposo:
ora i TAR e il Consiglio di Stato possono contare su un numero molto limitato
di magistrati, in tutto complessivamente circa 300.
Gli attuali gravi vuoti di organico rendono difficile
il rispetto del principio della ragionevole durata del processo.
Passiamo ora però alle luci, che sono moltissime.
Le sentenze possono essere giuste e tempestive quando
concorrono quattro circostanze.
Primo, quando vi è la fattiva collaborazione tra
difensori e giudici.
Secondo, quando vi è la certezza sul riparto di
giurisdizione.
Terzo, quando vi è la chiarezza delle disposizioni
sostanziali da applicare.
Quarto, quando le regole processuali consentono al
giudice di dare al ricorrente tutta le utilità spettanti in base al diritto
sostanziale.
La prima riflessione riguarda la cooperazione tra
difensori e giudici.
Per l’art. 2, comma 1, “il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione
della ragionevole durata del processo”.
Rivolgo ai difensori un accorato invito, affinché si
attengano al principio espresso dall’art. 3, comma 2, sulla redazione degli
atti in maniera “sintetica”.
Troppo spesso ci sono ricorsi, memorie, appelli anche
oltre il centinaio delle pagine, che senza alcuna giustificazione incidono
negativamente sul buon andamento del processo: come si può pretendere che i
processi abbiano una durata ragionevole, quando gli scritti impediscono un
numero maggiore di sentenze?
Anche le eccezioni solo dilatorie incidono
negativamente sul servizio-giustizia.
Forse l’alto numero delle pagine è dovuto a due
fattori.
Il primo, l’esigenza di indicare nelle parcelle i
relativi compensi.
Il secondo, la speranza che un maggior numero di
pagine possa convincere un giudice incerto o pregiudizialmente contrario alla
tesi sostenuta.
Spero da un lato che i giudici sappiano far sempre
percepire alle parti che essi decidono la controversia non in base a personali
costruzioni dogmatiche o ideologiche, ma in applicazione dei superiori valori
della Costituzione e del diritto europeo.
Dall’altro lato, spero che, con le statuizioni sulle spese
di giudizio e senza incidere sul diritto alla difesa, i giudici impongano il
rispetto del principio di sinteticità, affinché i comportamenti processuali non
incidano sulla stessa salute dei magistrati decidenti.
Anche i giudici devono però rispettare il principio di
sinteticità e di chiarezza.
Affinché la speranza di giustizia diventi realtà, i
giudici devono anche interpretare ogni disposizione del Codice nel senso che fin
dove è possibile va verificato se il ricorrente ha ragione o torto, senza
formalismi, applicando con larghezza l’istituto della rimessione in termini per
errore scusabile, ai sensi degli articoli 11, comma 5, e 37.
Una seconda riflessione riguarda l’esigenza che vi sia
certezza delle regole sul riparto di giurisdizione.
Il Codice contiene disposizioni che finalmente
dovrebbero impedire l’ulteriore sorgere di conflitti di giurisprudenza tra il
Consiglio di Stato e le Sezioni Unite.
Gli articoli 7 e 113 hanno adoperato le stesse
espressioni utilizzate dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del
2004 e n. 191 del 2006, per le quali si giustificano la giurisdizione di
legittimità e quella esclusiva quando si tratti di una controversia concernente
l’esercizio della funzione pubblica.
Viene da ricordare una considerazione del tedesco
Bachov (per cui il procedimento non è altro che una tecnica di diluizione del
potere), cui aggiungerei la mia considerazione ‘li dove c’è il procedimento, lì
c’è l’interesse legittimo, salve le eccezioni previste dalla legge’.
L’art.
Anche nelle materie devolute alla giurisdizione
esclusiva, specialmente in materia espropriativa o di gestione delle discariche
di rifiuti, è decisiva la verifica che i comportamenti siano stati posti in
essere nel corso del procedimento, e dunque siano riconducibili all’esercizio
del potere, come anche precisato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.
140 del 2007 (per la quale la legge ordinaria può prevedere la giurisdizione
esclusiva anche quando siano coinvolti diritti fondamentali).
Gli articoli 7 e 133 sono stati redatti dalla Commissione
speciale nel più profondo rispetto dei principi formulati dalle sentenze della
Corte Costituzionale del 2004, del 2006 e del 2007 e spero che si possano
considerare relitti del passato le dispute che hanno a lungo riguardato i
criteri di riparto.
2. La rilevanza del diritto europeo
nelle materie sostanziali.
Una terza riflessione riguarda l’esigenza che siano di
facile applicazione le disposizioni sostanziali da applicare.
L’ordinamento amministrativo è sottoposto a continue
riforme, anche su impulso del diritto europeo.
Le discipline dei contratti pubblici di appalto e
della materia ambientale sono segnate dal primato delle normative dell’Unione
Europea, il che spesso impone al giudice la verifica della compatibilità della
regola nazionale rispetto a quella dell’Unione, avente valore preminente.
Anche il testo unico sugli espropri e il Codice del
paesaggio costituiscono l’attuazione dei principi elaborati dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo (si pensi alla tutela spettante al proprietario espropriando,
ai principi sull’indennità di esproprio e alla disciplina sull’esercizio del
diritto di prelazione di beni sottoposti a vincolo artistico e storico)
Poiché l’art.
Il serbatoio di regole sostanziali derivanti dal
diritto dell’Unione Europea è alimentato da due fonti.
La prima è l’art. 340 del TFUE (sui “principi generali comuni ai diritti degli
Stati membri”), che attribuisce rilevanza alla certezza del diritto, alla
intangibilità degli effetti delle decisioni che hanno definito una
controversia, al rispetto del legittimo affidamento, al principio di
proporzionalità, decisivo per verificare anche la ragionevolezza di un atto sanzionatorio.
La seconda fonte è
L’altro serbatoio di regole sostanziali
del diritto europeo è invece alimentato dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo risulta soprattutto
interessante per i limiti che incontra la legge retroattiva.
Il legislatore ‘non può fare ciò che vuole’, sia
quando si tratti di una legge retroattiva generale e astratta, cioè
interpretativa, sia quando si tratti di una legge contra personam.
Per
A maggior ragione, è contraria alla CEDU la legge
retroattiva contra personam in tre
casi:
a) quando sani un illecito che abbia già dato luogo ad
una soccombenza in un giudizio[1];
b) quando contenga disposizioni contro poche persone[2], per
orientare a favore dell’amministrazione “l’esito imminente” di uno specifico
giudizio[3];
c) quando intenda eliminare gli effetti di una
decisione irrevocabile, interferendo sui diritti consolidatisi[4].
3. Alcune regole del Codice sulla
effettività della tutela
La quarta e ultima riflessione riguarda le regole del
Codice sulla effettività della tutela.
Innanzitutto, il principio di effettività va coniugato
col principio della parità delle parti, sancito dall’art. 1, comma 1, di cui
costituisce applicazione l’art. 73, comma 3.
Quando il giudice intende porre a base della sentenza
una questione rilevabile d’ufficio, deve consentire le deduzioni delle parti.
Inoltre l’art. 42 disciplina non solo il ricorso
incidentale (per il quale rilevano tuttora i principi formulati dalla decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2008), ma anche la domanda riconvenzionale.
Soprattutto quando un ricorrente chieda un
risarcimento del danno, deducendo la responsabilità dell’amministrazione, questa
può proporre una domanda riconvenzionale e chiedere il risarcimento,
comprovando la responsabilità del ricorrente.
L’art. 42 sulla domanda riconvenzionale è coerente con
l’art. 7, comma 7, per il quale innanzi al giudice amministrativo si applica il
principio di concentrazione “di ogni
forma di tutela”.
La concentrazione è stata prevista anche dall’art. 30,
per l’azione di “condanna al risarcimento
del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato
esercizio di quella obbligatoria”.
Questa regola della concentrazione era stata già
affermata dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000 ed è stata ribadita, in
coerenza con tre chiare statuizioni della Corte Costituzionale.
Già la sentenza n. 292 del 2000, al § 3.2., aveva
ammesso che la concentrazione della tutela innanzi al giudice amministrativo
fosse coerente con l’art. 24 della Costituzione, quando si fosse chiesto il
risarcimento del danno arrecato dal provvedimento amministrativo.
Le due ulteriori sentenze della Corte Costituzionale
(la n. 204 del 2004, al § 3.4.1., e la n. 191 del 2006, al § 4.2.) hanno ancor
più chiaramente osservato che la tutela risarcitoria è uno “strumento di tutela
ulteriore rispetto a quella classico-demolitoria”: si tratta della piena tutela
dell’interesse legittimo (e non di un fantomatico diritto), non si applica
l’art. 2043, ma la regola pubblicistica ora trasfusa nell’art. 30 del Codice.
La giurisdizione amministrativa sulla domanda
risarcitoria discende perciò direttamente dall’art. 103 della Costituzione, per
il quale solo il giudice amministrativo conosce dell’interesse legittimo, per
ogni relativa forma di tutela.
L’art. 30, nel testo entrato in vigore, contiene altre
due regole fondamentali, che sono chiavi di volta del sistema.
Il comma 3 prevede il termine di decadenza di 120
giorni per proporre la domanda ‘autonoma di risarcimento’, così riducendo il
termine di 180 giorni ipotizzato dalla commissione speciale che ha redatto la
bozza del codice.
La regola risponde pienamente ai principi enunciati
dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 165 del 1998, che rimise alla
scelta discrezionale del legislatore ogni determinazione sui rapporti
intercorrenti tra la domanda di annullamento e quella risarcitoria.
Ritengo apprezzabile la soluzione imposta dal
legislatore delegato sulla questione della cd pregiudizialità, perché coerente
con il principio di non contraddizione, su cui mi soffermai qui a Lecce nel
precedente Convegno svoltosi il 9 ottobre 2009[5]: chi
può proporre il ricorso d’annullamento in una delle due sedi della giustizia
amministrativa, e dunque anche col ricorso straordinario, può chiedere il
risarcimento del danno entro il termine ‘lungo’ di 120 giorni, mentre chi si
può avvalere soltanto del ricorso al TAR ed entro un termine più breve, perché
la legge esclude il ricorso straordinario, come in tema di appalti o di
elezioni, può fondatamente chiedere il risarcimento solo se agisce entro il medesimo
termine breve previsto per l’azione di annullamento (come si può desumere
dall’art. 30, comma 3, secondo periodo).
Inoltre, per il comma 6, di ogni domanda risarcitoria
“per lesioni di interessi legittimi o,
nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce
esclusivamente il giudice amministrativo”.
Tale disposizione è stata opportunamente sollecitata dalla
Commissione affari costituzionali del Senato, preoccupata dall’ipotesi che le
Sezioni Unite, malgrado le sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004
e n. 191 del 2006, potessero affermare una concorrente giurisdizione ordinaria
sulla base delle sentenze delle medesime Sezioni Unite nn. 500 e 501 del 1999,
il cui dictum – già dissonante con
l’art. 35 del d.lg. n. 80 del 1998 - era peraltro già stato smentito anche
dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000.
Per la tenuta del sistema, mi auguro che non vi siano
ardite proposte interpretative, secondo cui la parola “decadenza” dovrebbe essere interpretata quale sinonimo di
“prescrizione”: come gli studenti universitari, anche il legislatore è
consapevole della distinzione tra prescrizione e decadenza.
Come ultimo argomento di natura processuale, intendo
soffermarmi sulla questione delle ‘azioni proponibili’.
Il Codice non richiama l’azione ‘atipica’ e non
ammette esplicitamente le azioni di adempimento e di accertamento, cui faceva invece
riferimento la bozza approvata dalla commissione speciale.
Tale ‘accantonamento’ è stato criticato da molti,
perché ridurrebbe la possibilità di dare una tutela effettiva.
Personalmente, a parte considerazioni teoriche sui
massimi sistemi, ritengo che le critiche non siano condivisibili.
Sarebbe stata profondamente negativa per il buon
andamento dell’azione amministrativa, e per la buona gestione dei processi, una
regola che avesse consentito di accertare nel processo la fondatezza di una
pretesa riguardante un interesse di pretesa.
I giudici amministrativi, il cui numero è estremamente
esiguo, non possono essere impropriamente investiti di una funzione tipica delle
migliaia di pubbliche amministrazioni, cioè quella di definire i procedimenti
ad istanza di parte.
Già nell’attuale quadro normativo vi sono difficoltà per
rispettare il principio della durata ragionevole del processo.
A quali insormontabili problemi si andrebbe incontro
se ogni mancata definizione di un procedimento amministrativo comportasse la
definizione diretta in sede processuale?
Può il giudice amministrativo decidere se è fondata
una domanda di permesso di costruire?
E poi, sarebbe compatibile con la tenuta del sistema
la conseguente decisione delle questioni tramite un consulente?
Perciò condivido il contenuto dell’articolo 31 sul
silenzio, per il quale “il giudice può
pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta
di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità”.
In altri termini, il giudice si può pronunciare sulla
fondatezza della pretesa solo quando ‘una è la soluzione conforme alla legge’ e
una sola sia la questione da decidere.
L’esclusione dell’azione generale di accertamento,
così come la mancata previsione di una azione ‘atipica’, non significano però che
vi sia un vulnus legislativo all’effettività della tutela.
Già il solo articolo 1, consente al giudice di
ammettere l’azione che possa far ottenere tutte le utilità che spettano in base
al diritto sostanziale.
Già le decisioni dell’Adunanza Plenaria n. 17 del 1955
e n. 1 del 1983 hanno ammesso che la sentenza, nel caso di annullamento dell’atto
impugnato, possa anche accertare la caducazione dell’atto meramente
consequenziale.
Altre disposizioni, anche se non richiamate dal
Codice, prevedono poi peculiari poteri del giudice amministrativo, ad esempio
quelli previsti dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 198 del 2009, che
consente di emanare ordini per “ripristinare
il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio”.
Molte disposizioni sulla giurisdizione esclusiva poi comportano
l’attrazione della disciplina sulle azioni, previste da altre leggi amministrative
e perfino dal codice civile.
Per le Sezioni Unite, quando si tratti della
inefficiente gestione dei rifiuti, la giurisdizione esclusiva comporta la
proponibilità di azioni volte ad ottenere misure di tutela (Sez. Un., n. 27187
del 2007 e ord. n. 11832 del 2009), anche in applicazione dell’art. 844 del
codice civile, con l’esperibilità dell’azione inibitoria.
Quando si tratta della occupazione sine titulo di un fondo, riconducibile
all’esercizio del pubblico potere, ad es. quando è annullato un atto ablatorio
o il procedimento non si è concluso del decreto di esproprio, per l’Adunanza
Plenaria è pacifico che si possa agire con l‘azione di restituzione.
Ed è anche ammissibile l’azione costitutiva ex art.
2932, quando l’amministrazione addirittura come parte ricorrente agisce nei confronti del soggetto privato, che non
abbia trasferito il diritto di proprietà in violazione di una convenzione di
lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4107 del 2010).
Anche in tema di pubblico servizio, il ricorrente può
chiedere ogni misura di tutela: ad esempio, in materia scolastica, il
ricorrente può chiedere misure inibitorie, per la rimozione dell’arredo
scolastico, anche del crocefisso, o per la verifica della modalità di
insegnamento della educazione sessuale (Sez. Un., ord. n. 2656 del 2008), salve
le questioni sulla fondatezza di tali pretese.
Più in generale, ritengo che dagli art. 24 e 103 della
Costituzione, e dall’art. 1 del Codice del processo, si tragga la regola della
esperibilità della azione atipica nel processo amministrativo, anche di quella
inibitoria, a tutela della posizione soggettiva fatta valere.
Sarà poi il giudice amministrativo, a valutare se
l’azione è in concreto proponibile.
Non mi pare che l’art. 34, comma 2, precluda
l’esperibilità di una generale azione inibitoria, pur se esso dispone che “in nessun caso il giudice può pronunciare
con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
In base al principio di effettività, il comma 2 va interpretato nel senso che il giudice non
può sostituirsi all’amministrazione nella emanazione di un provvedimento e non
può attribuire il bene della vita, quando si tratti di un interesse di pretesa.
Si possono però verificare casi in cui sia impellente
la tutela di un interesse di difesa.
Si pensi al caso in cui, durante il periodo estivo in
una zona frequentata solo d’estate, una amministrazione comunichi ai sensi
dell’art. 7 della legge sul procedimento che intenda disporre la chiusura di un
ristorante, perché ritenuto privo di alcuni requisiti o perché la licenza
commerciale non risulta legittimamente emanata.
Se l’amministrazione disponesse illico et immediate la chiusura dell’esercizio, si potrebbe configurare
un danno per l’interessato per il solo fatto che ‘nel periodo di punta’ vi sia
la chiusura, anche se poi un decreto cautelare monocratico potrebbe consentire
una riapertura del ristorante inevitabilmente tardiva.
Dopo aver ricevuto l’avviso ex art. 7, l’interessato può
chiedere al giudice una misura inibitoria anche in sede cautelare, apportando
elementi che evidenzino l’erroneità della posizione dell’amministrazione.
Si può elaborare un ulteriore principio, simile a
quanto è stato disposto nel settore degli appalti.
In base alla clausola stand still, infatti, per i
tempi stabiliti dalla legge il provvedimento di aggiudicazione non può essere
senz’altro seguito dalla stipula del contratto, dovendosi attendere il decorso
dei termini volti alla utile proposizione del ricorso di primo grado.
Allo stesso modo, in altri settori si può ammettere
che l’amministrazione – salvi i casi di particolare urgenza - possa eseguire un
proprio provvedimento solo dopo aver consentito l’effettività della tutela, col
corrispondente potere del giudice di inibire l’immediata esecuzione del
provvedimento che l’amministrazione intenda emettere.
Il discorso porterebbe lontano, ma basta rilevare che
nessuna norma preclude la esperibilità dell’azione atipica, che discende dagli
stessi principi costituzionali, dall’art. 1 del Codice e dagli stessi articoli
6 e 13 della CEDU, come già affermato dal Consiglio di Stato.
4. La rilevanza del diritto europeo in
materia processuale.
Mi avvio a concludere, richiamando la giurisprudenza
della Corte di Strasburgo sugli articoli 6 e 13 della CEDU, la cui importanza è
stata sottolineata dalla Commissione affari costituzionali nel parere reso sulla
bozza del Codice.
Per la Corte di Strasburgo. il principio di
effettività si può ritenere rispettato quando sono rispettate tre regole fondamentali:
a) la prima esige che la decisione finale irrevocabile
attribuisca al ricorrente vittorioso
tutte le utilità che gli spettano in base al diritto sostanziale, e sia anche
tempestiva e dunque utile, perché emanata nel rispetto del principio della ragionevole
durata del giudizio;
b) la seconda esige che la decisione irrevocabile sia
rapidamente eseguita e che, altrimenti, il ricorrente vittorioso possa agire
con una azione di esecuzione, per ottenere l’ottemperanza della amministrazione
recalcitrante;
c) la terza esige che nel corso del giudizio possa
essere emanata ogni opportuna misura cautelare, affinché la decisione possa
attribuire tutte le utilità che spettano in base al diritto sostanziale.
Per
E’ perciò apprezzabile che il Governo, come risulta
dalla relazione illustrativa, abbia redatto l’art. 112, comma 1, lettera d),
ammettendo il rimedio dell’ottemperanza anche alle decisioni straordinarie del
Presidente della Repubblica.
Questa lettera d) è una norma di ottemperanza al
sistema CEDU.
Infatti, come più volte affermato dalla CEDU sin dal
caso Hornsby dal 1997, gli articoli 6 e 13 comportano che gli Stati devono
necessariamente prevedere tutte le azioni che rendano il rimedio di giustizia
effettivo e non illusorio[9], in
relazione sia alla fase di cognizione che a quella di esecuzione[10], da
considerare una indefettibile fase del giudizio[11].
Per comprendere poi come i giudici sentano il
principio di effettività, infine può essere utile il richiamo a due recenti
sentenze del Consiglio di Stato.
Una decisione della Sesta Sezione (n. 3674 del 2006)
ha riguardato un caso in cui il Ministero dell’Interno a distanza di circa 10
anni non aveva ancora eseguito un giudicato del giudice ordinario: in
applicazione diretta degli articoli 6 e 13 CEDU, la decisione ha fissato le
modalità di esecuzione, disponendo che,
decorso un certo termine, il funzionario omittente avrebbe dovuto pagare di
tasca propria 200 euro per ogni giorno di ritardo.
Ovviamente, l’esecuzione in quel caso vi è stata
subito dopo la decisione del Consiglio di Stato.
Ora un analogo potere di condanna è stato previsto
dall’art. 114, comma 4, lettera e), del Codice, che ancora una volta ha
esplicitato una regola affermatasi in giurisprudenza.
Una decisione della Quarta Sezione (n. 1220 del 2010) ha richiamato gli articoli
6 e 13 della CEDU per ritenere ammissibile la domanda volta ad ottenere una
pronuncia avente natura di titolo esecutivo, per ottenere in via coattiva da un
soggetto privato la restituzione di una somma indebitamente corrisposta dall’amministrazione.
Ora l’articolo 115, comma 2, del Codice ha
espressamente disposto che le pronunce del giudice amministrativo che
dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo anche per
l’esecuzione forzata.
Anche queste decisioni mi inducono a formulare due rapide
conclusioni.
La prima è che l’articolo 1 del Codice va interpretato
alla luce degli articoli 24 e 103 della Costituzione e degli articoli 6 e 13
della CEDU, sicché il giudice amministrativo può considerare ammissibile ogni azione
volta a dare piena tutela al ricorrente che abbia ragione.
La seconda è che il richiamo ai principi del diritto
europeo, di cui all’articolo
Non è però così. Per definire la controversia, il
giudice amministrativo deve tenere conto non solo della norma scritta, ma anche
dei valori superiori di giustizia e moralità posti a fondamento della Convenzione
Europea.
E’ compito del giudice decidere la controversia
applicando la normativa dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo con prevalenza rispetto ad ogni eventuale contraria
determinazione del legislatore periferico.
Ci sarà vera giustizia quando i giudici daranno sempre
effettiva applicazione a questi valori superiori, costi quello che costi.
[1] CEDU, Sez. I, 16 novembre 2006, Muzevic c. Croazia, §
83; CEDU, Sez. I, 19 ottobre 2006, Kesyan c. Russia, § 64; CEDU, 7 giugno 2005,
Fuklev c. Ucraina, § 84; CEDU, 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turchia, § 95; CEDU,
25 marzo 1999, Iatridis c. Grecia, § 66; CEDU, 20 novembre 1995, Pressos
Compania Naviera.
[2] CEDU, Sez. IV, 10 novembre 2004, Lizarraga c. Spagna,
§ 55, 58, 64, 70; sul divieto di incidere retroattivamente su un restricted circle of persons, § 55; sul
divieto di leggi ad personam, § 58;
sul divieto di interference, § 64;
sugli intangible right, § 70; CEDU,
Sez. IV, 28 ottobre 1999, Zielinski c. Francia, § 54, 57.
[3] CEDU, 9 dicembre 1994, Stran c. Grecia, § 49; CEDU,
22 ottobre 1997, Papageorgiuou c. Grecia, § 112.
[4] CEDU, Sez. IV,
28 ottobre 1999, Zielinski c. Francia;
CEDU, Grande Camera, 6-10-2005, Draon c. Francia § 65 ss.; CEDU, Grande
Camera., 6 ottobre 2005, Maurice c. Francia, § 84 ss.
[5] V. il mio intervento “Il giudice amministrativo come giudice del risarcimento del danno”,
pubblicato in giustizia-amministrativa.it,
studi e contributi.
[6] CEDU, 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia, § 40; Corte
Plen., 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera, § 32; CEDU, Sez. II, 27 luglio
2004, Romashov c. Ucraina §§ 41, 42, 47; CEDU, Sez. I, 13 ottobre 2005,
Vasilyev c. Russia, § 55.
[7] CEDU, 28-4-2009, n. 14, Savino c. Italia: contrasta
con gli articoli 6 e 13 la normativa istitutiva di un sistema giurisdizionale
pur non disciplinato dalla Costituzione nazionale, quando non sia salvaguardata
l’imparzialità dei componenti degli organi decidenti.
[8] CGCE, 16 ottobre
[9] CEDU, 15 febbraio 2006, Androsov-Russia, § 51; CEDU,
27 dicembre 2005, Iza c. Georgia, § 42; CEDU, Sez. II, 30 novembre 2005 (30
novembre 2004), Mykhaylenky c. Ucraina, § 51; CEDU, Sez. I, 24 febbraio 2005,
Plotnikovy c. Russia, § 22; CEDU; Sez. II, 22 febbraio 2005 (6 giugno 2005),
Sharenok c. Ucraina, § 25.
[10] CEDU, Sez. II, 27 luglio 2004, Romashov c. Ucraina.
[11] CEDU, Sez. I, 7 luglio 2005 (7 ottobre 2005),
Malinovskiy c. Russia, § 39.