Alessandro Pagano

Consigliere TAR Campania-Napoli

 

Norme procedurali e di organizzazione dei TTAARR

 

Pubblicato sul Sito il 5 ottobre 2010

 

 

 Sarò conciso come il codice impone…almeno lo spero…

 

Impronto volutamente il mio intervento ad una certa enfasi –che in genere curo di evitare – ma le presenti circostanze mi sembrano renderla appropriata: non solo per la qualitas dei presenti, ma soprattutto – e vengo al tema dell'incontro – perché, come stato rilevato in altra evenienza “non è esperienza comune assistere all’alba di un quid novi giuridico”.

Stante la estrema vicinanza di queste giornate con l’entrata in vigore del Codice, ritengo perciò prioritario (oltre al commento ad alcune specifiche disposizioni procedurali) ricercare insieme la “giusta” intonazione con cui gestire tale novità.

Questa mi sembra essere la ragione più importante del nostro incontro ed apprezzabile quindi la scelta del Consiglio di Presidenza di propiziare l’occasione per discuterne.

La percezione del NOVUM, insito nella codificazione, è – lo ribadisco – il mio più meditato contributo alla giornata: un modesto ausilio affinché, da parte nostra, si imposti correttamente quel cammino che ci condurrà, nel tempo, a trasformare le “disposizioni” procedurali, in “norme” e quindi in “diritto vivente”.

Le mie sono dunque considerazioni essenzialmente di sistema su cui inserire la disamina delle procedure e delle disposizioni organizzatorie: è anche il frutto degli scambi di idee che ho potuto avere, sul tema, con i colleghi di questo Tribunale e, soprattutto, con quelli della mia sezione: il pres. Antonino Amodio, i consiglieri Buonauro, Di Vita e Di Popolo.

 

La codificazione. Ho letto commenti riduttivi sul Codice quale normativa codificata da inserire nel gruppo delle altre edite nel tempo attuale ove la scelta del legislatore non può essere complessiva, globale, ma affidata a discipline di settore (codice della privacy, delle comunicazioni et similia).

Respingo questa impostazione.

La codificazione è sempre scelta continentale europea, alta, impegnativa: se, per il nostro codice, non è stato Napoleone a porvi mano, costituisce parimenti un punto fermo storico, con una forte carica legittimante.

A che penso richiamando il concetto lato di legittimazione? Non è casuale che ancora recentemente la Cassazione ritenesse di prendersi carico della legittimazione della giustizia amministrativa, riconoscendole la piena autonomia a fornire la risposta di giustizia richiesta nei confronti della pubblica Amministrazione; illuminanti sono le espressioni della Consulta, ad es. nella sentenza n. 204/2004, ove si discorre della “piena dignità” del giudice amministrativo.

Di un solo colpo, il Codice ha eliminato (ove ve ne fosse stato bisogno) ogni residua necessità di tali discorsi.

Anche il Presidente del Consiglio di Stato ha fatto riferimento alle esigenze sostanziali e formali della codificazione: basta qui rimarcare come il canone costituzionale del giusto processo imponga una riserva di legge qualificata (secondo l’art. 111 “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”): l’eliminazione delle fonte regolatrici secondarie è stato quindi un doveroso allineamento alla Costituzione.

Ma possiamo spaziare su scala planetaria posto che la più influente filosofia politica nord americana, facente capo a John Rawls, immagina (almeno lì) la Giustizia quale “primo requisito delle istituzioni sociali”. (Plaudito dal premio Nobel Amartya Sen che ritiene Rawls, il più eminente teorico della Giustizia del 900).

 

Vengo al NOVUM sostanziale. Il Codice ha, giova sottolinearlo, eliminato di colpo anche ogni vaexata questio; sicchè –come mi preme ancora di riaffermare – siamo in presenza di una svolta di cultura della giurisdizione; ci troviamo come (mi si passi l’esempio forse presuntuoso) come Silvio Spaventa il giorno della prima udienza camerale nella neo–istituita IV sezione del Consigli di Stato.

Ecco perché è importante poterne parlare subito: c’è un lavoro di nostra programmazione oserei dire esistenziale nel contatto con la nuova procedura che abbisogna – da ora – di tutta la chiarezza e la profondità ermeneutica che gli stadi fondanti, per loro stessa natura, impongono.

Ci è richiesta la consapevolezza che è tutto da ripensare, propiziata dal predetto superamento in blocco di antiche dispute.

Erra pertanto, a mio giudizio, chi pensa che il legislatore abbia solo sistemato quanto già esisteva.

A tacer d’altro, il Codice ha una portata innanzitutto aggregativa, richiamando il CPC (si veda il “Rinvio esterno” ex art. 39) il CPA mostra la sua completa osmosi all’impianto dei codici processuali esistenti e non solo: il CPC è strettamente connesso al Codice Civile (visivamente: tramite il libro sesto “Della tutela dei diritti”) ed il Codice Civile è irrelato a sua volta a quello Penale: si pensi al ruolo cardine dell’art. 185 C.P. nella dinamica risarcitoria fra diversa accezione del danno nell’art. 2043 C.C. e nell’art. 185 citato, anche in relazione alla portata della riserva di legge ex art. 2059 C.C. in tema di danno non patrimoniale.

La lettura delle prime norme del CPA, a loro volta, non possono non rimandare alla concomitante lettura della legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990): i parallelismi sono evidenti. Comune richiamo alle istanze europeiste, consonanza fra giusto processo e giusto procedimento, cadenzata durata del procedimento e ragionevole durata del processo, assoluta centralità della partecipazione, da un lato e del contraddittorio, dall’altra.

 

In questo scenario da meditare, i prospetti problematici mi sembrano allora del tutto rovesciati.

La consegna al G.A. di un corpo processuale nuovo ed in sintonia con i tempi, reca con sé, probabilmente, una pecca all’eccesso, nel senso che questa volta..ci è stato – forse – d a t o  t r o p p o.

 

L’impegno fondante nello studio delle norme procedurali è allora quello, nella consapevolezza del nuovo, di traghettare in acconce forme giuridiche il meglio che il codice ci offre, non snaturandolo con interventi di chiusura (ormai inattuali e dunque barbarici), ma neanche facendo implodere il processo, con il cattivo uso o peggio con l’abuso delle potenzialità che l’apparato processuale ci rende disponibile.

Il passaggio è per me delicatissimo, in quanto sono convinto che le strutture processuali hanno la capacità di influenzare quelle sostanziali: in questa affermazione mi trovo in buona compagnia, posto che le Sezioni Unite della Cassazione, delibando, ad es., sul tormentato tema dell'accertamento del nesso causale (Sez. Un. dell’11.7.2002) rilevano come la mancata investigazione del nesso agisca come elemento di dequotazione della stessa struttura sostanziale di riferimento (reato –in quella sede– ma possiamo aggiungere, paradigma aquiliano o analogo che sia: consequenziale è il richiamo ai giudizi risarcitori che ora più che mai ci interessano).

Valga, allora, il richiamo alla relazione illustrativa del Codice ove afferma: “Si è, peraltro, redatto un codice che, secondo la tradizione della giustizia amministrativa, accanto alla disciplina processuale, affronta anche le questioni sostanziali intimamente connesse… In ciò il codice risente della peculiare caratteristica delle norme processuali amministrative, che nella legislazione italiana vengono non di rado introdotte in occasione di leggi che regolano l’azione amministrativa nei più svariati settori”.

 

Sullo scenario così tracciato, va meditata la disciplina delle prove: si registra qui, a mio avviso, un campo di impegnativa analisi.

Il regime delle prove. La scelta di un regime probatorio egualitario fra amministrato e pubblica amministrazione non è, infatti, opzione di breve momento: è anche il “precipitato” giuridico di una serie di impostazioni costituzionali ed europee che hanno influenzato la codificazione di cui discutiamo.

In questo il CPA si pone con un peculiare carattere di contemporaneità. Si affianca agli altri codici, ma nessuno – si badi – fra quelli vigenti ha la carica di attualità che connota il nostro.

Basta andare alle disposizioni di apertura che considero veri architravi di tutta la struttura processuale.

Vi sono indicati motivi di pregio che dobbiamo saper ben valorizzare.

Brevemente: l’affettività della tutela di cui all’art. 1 (realizzata ex art. 7 c. 7 per il tramite della concentrazione della tutela dinanzi al G.A.) è diretta emanazione dell’art. 24 della Cost.: articolo che, come afferma la migliore dottrina costituzionale, è un super–principio, caratterizzante la nostra Carta.

Effettività della tutela – efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa: altra assonanza testuale fra processo e procedimento.

Qualità già sottolineata è il richiamo, centrale e consapevole all’inerenza della giustizia amministrativa al sistema europeo: il nostro è il primo corpus processuale varato dopo l’inserimento dell’art. 117, 1° comma, Cost. che condiziona l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi internazionali.

Nessun Codice delinea dunque un processo recependo organicamente in modo così consapevole il quadro europeo che ci caratterizza: tanto lo rende, di fatto, laboratorio permanente del diritto processuale “europeo”.

La rete europea di garanzie. In argomento, si raffronti il richiamo, svolto nell’ultima relazione del Primo Presidente della Cassazione in ordine al diritto ormai “sconfinato” ove le tutele si aggregano in luoghi geograficamente distanti, nazionali e sovranazionali.

Come meglio è stato detto, il richiamo esplicito ai principi del diritto europeo (sia dell’Unione europea, sia della CEDU) realizza quella tendenza dell’ordinamento a strutturarsi “come un sistema connotato dall’esistenza di una rete europea di garanzie costituzionali e processuali, da tribunali sovranazionali e nazionali, che interagiscono come giurisdizioni appartenenti a sistemi differenti ma tra loro collegati”.

La “rete” europea innesta un ulteriore passaggio sul predetto carattere osmotico fra codici che si intreccia al tema delle prove alla cui trattazione intendo pervenire: già la traslatio judici consente la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda; a tale codificazione si aggiunge che le prove raccolte in altro processo, valgano come argomenti di prova, in quello poi riproposto innanzi al G.A. (art. 11 c. 6 CPA).

Per incidens, ricordo che i princìpi del diritto europeo derivanti dalla CEDU sono direttamente applicabili dal giudice nazionale, ove non si renda necessario un controllo di costituzionalità sulla norma interna incompatibile con la norma europea (Corte Cost. n. 348 e n. 349 del 2007).

In questo contesto, merita un rimando (estemporaneo) la sentenza della Corte di Giustizia – grande sezione – 13 giugno 2006 (n. C–173-/03 Soc. Traghetti del Mediterraneo c. Repubblica Italiana).

La sentenza si inscrive nel circuito della responsabilità dello Stato che fa capo alla sentenza Francovich, si è arricchita del caso Kobler e che ora, con la decisione summenzionata, tocca un ambito su cui non mi pare (almeno a quanto mi risulta) elaborata la riflessione necessaria: quello delle conformità al diritto europeo delle limitazioni legali di responsabilità del magistrato nella attività interpretativa delle norme.

Di qui (credo) non del tutto eliminabili le “tensioni” con la scelta legislativa inserita nella L. 13 aprile 1988 n. 117 e nella relativa pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 18/1989).

 

Altro principio che dobbiamo saper accogliere in tutta la sua portata procedurale è quello del contradditorio (art. 2 CPA).

Come è stato affermato, “Il principio del contraddittorio può essere inteso in duplice accezione:

–nella sua dimensione oggettiva, esso costituisce metodo di accertamento della verità;

-nella sua dimensione soggettiva.. e costituisce estrinsecazione del diritto di difesa.”

“Non vi è dubbio che il principio sia stato recepito dall’art. 111 della Costituzione principalmente nella sua dimensione oggettiva: in tal senso depone la collocazione sistematica della garanzia, concepita non quale corollario del diritto di difesa (nel qual caso la sua enunciazione avrebbe dovuto seguire la garanzia del diritto di difesa: cfr. art. 24, comma secondo, della Costituzione), bensì quale fondamentale “norma sulla giurisdizione”, inserita (l’interprete deve ritenere non casualmente) nell’art. 111 della Costituzione, che apre la sezione dedicata alle “Norme sulla giurisdizione” (Sezione II del Titolo IV).”

 

L’esigenza del contraddittorio è ora pienamente recepita anche nel giudizio di ottemperanza. L’art. 114 prevede, infatti, che la diffida sia facoltativa, ma che il ricorso venga notificato alla pubblica Amministrazione “e a tutte le parti” del giudizio definito dalla sentenza.

Una lodevole esigenza di pienezza del contraddittorio si riscontra anche nell’audizione presidenziale nella misura cautelare monocratica (art. 56 c. 2).

La definizione del giudizio nel merito in esito all’udienza cautelare (art. 60) può verificarsi se il giudice accerti la completezza del contraddittorio.

Ancora: se il giudice, all’udienza di discussione, ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, la deve indicare in udienza dandone atto a verbale, al fine di evitare ogni “effetto sorpresa”.

 

Una certa contrazione, va tuttavia segnalata, del rispetto pieno del contraddittorio nella norma che consente di definire il processo anche se il contraddittorio non sia integro, ove il ricorso sia manifestamente inaccoglibile (cfr., art. 49 II° c.).

 

Colleghiamo allora questa impostazione generale (racchiusa soprattutto nelle prime norme del Codice) con il “troppo” che la nuova procedura ci offre.

L’eccedenza cui mi riferisco è, secondo la mia lettura, da rimarcare, in via di rilevante esemplificazione, nella disciplina procedurale delle prove, cui accennavo.

Le esigenze di completezza del contraddittorio, della effettività della giustizia, il collegamento col diritto europeo hanno comportato una chiara scelta riferita alla disciplina probatoria che, all’art. 64, sintetizza –nella disponibilità, onere e valutazione della prova– il principio di cui all’art. 2697 C.C. e, di pari importanza, quella di matrice giurisprudenziale sulla vicinanza della prova (in sintesi, secondo tale criterio, ciascun contendente deve comprovare la quota probatoria relativa ai fatti alla stessa più “prossimi”: a partire da Cass. sez. un. civ. n. 13533/2001).

E’ questo il luogo processuale ove dovrà esplicarsi tutta la nostra sapienza alchemica nel rinvenire soluzioni che non mortifichino le aperture del codice e salvino, al contempo, il concentrato ritmo del processo amministrativo in uno ad una peculiare, innegabile, posizione della Amministrazione che non può essere quella tout court riassunta nel principio della parità delle parti e delle “armi”.

Al di là di suggestioni teutoniche, v’è il pericolo che l’attuazione del sistema probatorio possa trasformare il processo, consentendo di realizzare ed imporre una verità processuale –quale ricostruibile, nel giudizio, attraverso l’espletamento delle prove – del tutto disancorata dal provvedimento amministrativo.

La verità processuale. In altri ed ancora più stringenti termini, dalla parità dei carichi probatori potrebbe uscire (insisto, è una mia personale lettura) potrebbe uscire una verità processuale tale da ribaltare in toto quanto il provvedimento amministrativo riassume.

Si tratta di disciplina processuale, come ho già detto, capace di influenzare (rectius: riscrivere) la cifra del rapporto fra cittadino e pubblici poteri.

Qui, a mio avviso, il calco del processo civile che il legislatore ci offre, va utilizzato con matura attenzione. Per adoperare una espressione immaginifica: il processo amministrativo nato come occasione per la verifica della legittimità del provvedimento –tanto da dare ingresso alla nota formula dell’interesse legittimo come occasionalmente protetto – non può divenire luogo di accertamento ex novo del rapporto amministrativo, occasionato dall’impugnazione dell’atto.

A ciò può portare, caricandone il significato, una visione del processo che si riconosca nella traslazione dall’atto al rapporto, che tale si legittima proprio con riferimento al regime probatorio.

Occorre coniugare sapientemente istanze innovative – che vanno esaltate – con logiche di concentrazione e soprattutto di rispetto della disarmonia prestabilita fra amministrato e potere amministrativo che continua a caratterizzare l’esercizio della discrezionalità della p.A. e ci connota quale “giudice naturale dell'interesse legittimo”: se è vero, come pare, che oltre il 90% del nostro contenzioso sia di natura impugnatoria.

Congruamente – dopo aver affermato il principio della parità delle armi – la relazione al Codice coglie la problematica, sottolineando che vi sono specificità correlate alla natura delle vicende trattate dalla giurisdizione amministrativa che si caratterizzano pur sempre per la presenza del pubblico potere.

A prima lettura, rimane però il problema – spero che le attuali giornate ed i lavori di gruppo lo chiarifichino – che qui riaffermo: il processo amministrativo potrebbe portare, tramite una civilistica istruzione probatoria, a negare completamente la “realtà” amministrativa sfociata nel provvedimento impugnato. Ciò almeno nella giurisdizione generale di legittimità ove l’oggetto del processo, come ben sappiamo, dopo l’iniziale verifica della effettiva titolarità di un reale interesse legittimo, si sposta alla critica della attività istruttoria amministrativa che ha generato il provvedimento impugnato e dunque alla ricostruzione dei fatti che uno sviluppo probatorio processuale potrebbe anche completamente alterare in quanto la verità del processo ben può differire da quella fenomenica già ricostruita da un soggetto pur con caratura pubblica.

La valutazione della nuova disciplina in tema di prove si collega altresì alla critica perimetrazione dei poteri ufficiosi che pur permangono: ordine di esibizione; di ispezione, verificazione, consulenza tecnica “se indispensabile” (art. 63); acquisizione di informazioni e documenti “utili ai fini del decidere” che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione (art. 64, c. 3).

E’ un rapporto che definisco critico, atteso che l’iniziativa probatoria delle parti non può che comportare la tendenziale eccezionalità dei poteri officiosi del giudicante.

Mi si potrebbe obiettare che l’apertura alle prove civilistiche è da tempo in corso; rispondo: non però avallata da una precisa disposizione di legge (di codice) che distribuisca fra le parti l’onere probatorio e, in connessione al suo assolvimento, determini l’esito della lite: tanto in adesione criteri fondanti il processo – per i quali mantengo una positiva, oserei dire entusiastica adesione – soprattutto, per le scelte legislative che si caratterizzano in tema di pregiudiziale e quant’altro che ci libera da un ingombro teorico che non poco ci ha affaticato nell’ultimo decennio.

 

Sempre in relazione al canone del giusto processo, osservo, infine, come una istruttoria dilatata incida su tempi processuali; come è stato bene precisato, Il processo può essere ingiusto per il sol fatto che dura, lo è certamente quando dura troppo, di sicuro è arbitrario quando consente alla pubblica amministrazione che gode del potere di autotutela esecutiva, di consolidare illegittimamente situazioni di vantaggio senza assicurare tutela al cittadino che abbia visto leso un suo interesse legittimo o diritto soggettivo.

 

La sinteticità. Altro snodo da contemperare è la sostanziale “parità delle armi” con le forme sintetiche che il codice impone.

Il processo amministrativo deve, in generale, esprimersi in forme sintetiche: alla sintesi rimanda l’art. 3, ma può esso ritenersi una costante del codice.

L’art. 73 prescrive, infatti, che la discussione all’udienza si a svolta in maniera sintetica. Pari sinteticità è prevista in sede camerale ove si tratta della “sospensiva” (art. 55).

Il processo –mi sembra che questo sia il cuore pulsante procedurale – deve tendere ad una sentenza di merito: così uno degli esiti prioritari dell’udienza camerale è proprio quello di identificare quei profili di apprezzabile favor per la tesi del ricorrente che consenta la fissazione della udienza di discussione, parimenti va richiamata la previsione generalizzata della decisione in forma semplificata (art. 60), quasi residualmente, permane dunque la delibazione della “sospensiva” che impone comunque la fissazione del merito; evidente snellezza si rapporta alla previsione dei riti abbreviati, la cui ratio è sempre e comunque pervenire, in breve tempo, ad una sentenza di merito (artt. 119 e seg.).

…Insomma. È l’annosa questione delle oscillazioni del pendolo fra garanzie e risultato.

Il legislatore è volato alto.. indicandoci valori–guida di particolare spessore ed impegno processuale.. richiede però anche rapidità e qualità nella gestione ed esito del processo.. sta a noi riuscire, come spero, in questo difficile coniugio..che consenta di pensare al titolo dell’art. 2 non come ad un “fastidioso ossimoro”..

 

Una ultimissima notazione, quale dubbio sistemico (approfitto della autorevole presenza del prof. Verde). L’art. 186–quater CPC ove si prevede che l’ordinanza successiva alla chiusura della istruzione possa acquistare “l’efficacia della sentenza impugnabile” potrebbe ricomprendere tutte le ordinanze cautelari ex art. 21 L. 1034/1971 e così liberare i Tribunali dall’arretrato? L’economicità dei tempi, d’altra parte, come sopra abbiamo visto con l’art. 49, II° c. CPA, consente finanche la contrazione del principio del contraddittorio.

 

Ringrazio tutti per l’attenzione