Consigliere
TAR Campania-Napoli
Norme procedurali e di organizzazione dei
TTAARR
Pubblicato sul Sito il 5 ottobre
2010
Sarò conciso come il codice impone…almeno lo
spero…
Impronto volutamente il mio intervento ad una certa
enfasi –che in genere curo di evitare – ma le presenti circostanze mi sembrano
renderla appropriata: non solo per la qualitas dei presenti, ma soprattutto –
e vengo al tema dell'incontro – perché, come stato rilevato in altra evenienza “non è esperienza comune assistere all’alba
di un quid novi
giuridico”.
Stante la estrema vicinanza di queste giornate con
l’entrata in vigore del Codice, ritengo perciò prioritario (oltre al commento ad
alcune specifiche disposizioni procedurali) ricercare insieme la “giusta”
intonazione con cui gestire tale novità.
Questa mi sembra essere la ragione più importante del
nostro incontro ed apprezzabile quindi la scelta del Consiglio di Presidenza di
propiziare l’occasione per discuterne.
La percezione del NOVUM, insito nella codificazione, è –
lo ribadisco – il mio più meditato contributo alla giornata: un modesto ausilio
affinché, da parte nostra, si imposti correttamente quel cammino che ci
condurrà, nel tempo, a trasformare le “disposizioni” procedurali, in “norme” e quindi in “diritto vivente”.
Le mie sono dunque considerazioni essenzialmente di sistema su cui inserire la disamina
delle procedure e delle disposizioni organizzatorie: è anche il frutto degli
scambi di idee che ho potuto avere, sul tema, con i colleghi di questo Tribunale
e, soprattutto, con quelli della mia sezione: il pres. Antonino Amodio, i
consiglieri Buonauro, Di Vita e Di Popolo.
La codificazione. Ho letto commenti riduttivi sul Codice quale normativa
codificata da inserire nel gruppo delle altre edite nel tempo attuale ove la
scelta del legislatore non può essere complessiva, globale, ma affidata a
discipline di settore (codice della privacy, delle comunicazioni et similia).
Respingo questa impostazione.
La codificazione è sempre scelta continentale europea,
alta, impegnativa: se, per il nostro codice, non è stato Napoleone a porvi mano,
costituisce parimenti un punto fermo storico, con una forte carica legittimante.
A che penso richiamando il concetto lato di
legittimazione? Non è casuale che ancora recentemente
Di un solo
colpo, il Codice ha eliminato (ove ve
ne fosse stato bisogno) ogni residua necessità di tali
discorsi.
Anche il Presidente del Consiglio di Stato ha fatto
riferimento alle esigenze sostanziali e formali della codificazione: basta qui
rimarcare come il canone costituzionale del giusto processo imponga una riserva di
legge qualificata (secondo l’art. 111 “La
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”):
l’eliminazione delle fonte regolatrici secondarie è stato quindi un doveroso
allineamento alla Costituzione.
Ma possiamo spaziare su scala planetaria posto che la
più influente filosofia politica nord americana, facente capo a John Rawls,
immagina (almeno lì)
Vengo al NOVUM sostanziale. Il Codice ha, giova
sottolinearlo, eliminato di colpo anche ogni vaexata questio; sicchè –come mi preme
ancora di riaffermare – siamo in presenza di una svolta di cultura della
giurisdizione; ci troviamo come (mi si passi l’esempio forse presuntuoso) come Silvio Spaventa il giorno della
prima udienza camerale nella neo–istituita IV sezione del Consigli di
Stato.
Ecco perché è importante poterne parlare subito: c’è un
lavoro di nostra programmazione oserei dire esistenziale nel contatto con la nuova
procedura che abbisogna – da ora – di tutta la chiarezza e la profondità
ermeneutica che gli stadi fondanti,
per loro stessa natura, impongono.
Ci è richiesta la consapevolezza che è tutto da
ripensare, propiziata dal predetto superamento in blocco di antiche
dispute.
Erra pertanto, a mio giudizio, chi pensa che il
legislatore abbia solo sistemato quanto già esisteva.
A tacer d’altro, il Codice ha una portata innanzitutto
aggregativa, richiamando il CPC (si
veda il “Rinvio esterno” ex art. 39) il CPA mostra la sua completa osmosi all’impianto dei codici
processuali esistenti e non solo: il CPC è strettamente connesso al Codice
Civile (visivamente: tramite il libro sesto “Della tutela dei diritti”) ed il Codice
Civile è irrelato a sua volta a quello Penale: si pensi al ruolo cardine
dell’art.
La lettura delle prime norme del CPA, a loro volta, non
possono non rimandare alla concomitante lettura della legge sul procedimento
amministrativo (L. 241/1990): i parallelismi sono evidenti. Comune richiamo alle
istanze europeiste, consonanza fra giusto processo e giusto procedimento,
cadenzata durata del procedimento e ragionevole durata del processo, assoluta
centralità della partecipazione, da un lato e del contraddittorio,
dall’altra.
In questo scenario da meditare, i prospetti problematici
mi sembrano allora del tutto rovesciati.
La consegna al G.A. di un corpo processuale nuovo ed in
sintonia con i tempi, reca con sé, probabilmente, una pecca all’eccesso, nel
senso che questa volta..ci è stato –
forse – d a t o t r o p p
o.
L’impegno fondante nello studio delle norme procedurali
è allora quello, nella consapevolezza del nuovo, di traghettare in acconce forme
giuridiche il meglio che il codice ci offre, non snaturandolo con interventi di
chiusura (ormai inattuali e dunque barbarici), ma neanche facendo implodere
il processo, con il cattivo uso o peggio con l’abuso delle potenzialità che
l’apparato processuale ci rende disponibile.
Il passaggio è per me delicatissimo, in quanto sono
convinto che le strutture processuali hanno la capacità di influenzare quelle
sostanziali: in questa affermazione mi trovo in buona compagnia, posto che le
Sezioni Unite della Cassazione, delibando, ad es., sul tormentato tema
dell'accertamento del nesso causale (Sez. Un. dell’11.7.2002) rilevano come la
mancata investigazione del nesso agisca come elemento di dequotazione della
stessa struttura sostanziale di riferimento (reato –in quella sede– ma possiamo
aggiungere, paradigma aquiliano o analogo che sia: consequenziale è il richiamo
ai giudizi risarcitori che ora più che mai ci
interessano).
Valga, allora, il richiamo alla relazione illustrativa
del Codice ove afferma: “Si è, peraltro,
redatto un codice che, secondo la tradizione della giustizia amministrativa,
accanto alla disciplina processuale, affronta anche le questioni sostanziali
intimamente connesse… In ciò il codice risente della peculiare caratteristica
delle norme processuali amministrative, che nella legislazione italiana vengono
non di rado introdotte in occasione di leggi che regolano l’azione
amministrativa nei più svariati settori”.
Sullo scenario così tracciato, va meditata la disciplina
delle prove: si registra qui, a mio avviso, un campo di impegnativa
analisi.
Il regime delle prove. La scelta di un regime probatorio egualitario fra
amministrato e pubblica amministrazione non è, infatti, opzione di breve
momento: è anche il “precipitato” giuridico di una serie di impostazioni
costituzionali ed europee che hanno influenzato la codificazione di cui
discutiamo.
In questo il CPA si pone con un peculiare carattere di
contemporaneità. Si affianca agli altri codici, ma nessuno – si badi – fra
quelli vigenti ha la carica di attualità che connota il
nostro.
Basta andare alle disposizioni di apertura che considero
veri architravi di tutta la struttura processuale.
Vi sono indicati motivi di pregio che dobbiamo saper ben
valorizzare.
Brevemente: l’affettività della tutela di cui all’art. 1
(realizzata ex art. 7 c. 7 per il tramite della concentrazione della tutela
dinanzi al G.A.) è diretta emanazione dell’art. 24 della Cost.: articolo che,
come afferma la migliore dottrina costituzionale, è un super–principio,
caratterizzante la nostra Carta.
Effettività della tutela – efficienza ed efficacia
dell'azione amministrativa: altra assonanza testuale fra processo e
procedimento.
Qualità già sottolineata è il richiamo, centrale e
consapevole all’inerenza della giustizia amministrativa al sistema europeo: il
nostro è il primo corpus processuale
varato dopo l’inserimento dell’art. 117, 1° comma, Cost. che condiziona
l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi
internazionali.
Nessun Codice delinea dunque un processo recependo
organicamente in modo così consapevole il quadro europeo che ci caratterizza:
tanto lo rende, di fatto, laboratorio permanente del diritto processuale
“europeo”.
La rete europea di garanzie. In argomento, si raffronti il richiamo, svolto
nell’ultima relazione del Primo Presidente della Cassazione in ordine al diritto
ormai “sconfinato” ove le tutele si aggregano in luoghi geograficamente
distanti, nazionali e sovranazionali.
Come meglio è stato detto, il richiamo esplicito ai
principi del diritto europeo (sia dell’Unione europea, sia della CEDU) realizza
quella tendenza dell’ordinamento a strutturarsi “come un sistema connotato dall’esistenza di
una rete europea di garanzie costituzionali e processuali, da tribunali
sovranazionali e nazionali, che interagiscono come giurisdizioni appartenenti a
sistemi differenti ma tra loro collegati”.
La “rete” europea innesta un ulteriore passaggio sul
predetto carattere osmotico fra codici che si intreccia al tema delle prove alla
cui trattazione intendo pervenire: già la traslatio judici consente la salvezza
degli effetti sostanziali e processuali della domanda; a tale codificazione si
aggiunge che le prove raccolte in altro processo, valgano come argomenti di
prova, in quello poi riproposto innanzi al G.A. (art. 11 c. 6
CPA).
Per
incidens, ricordo che i princìpi del
diritto europeo derivanti dalla CEDU sono direttamente applicabili dal giudice
nazionale, ove non si renda necessario un controllo di costituzionalità sulla
norma interna incompatibile con la norma europea (Corte Cost. n. 348 e n. 349
del 2007).
In questo contesto, merita un rimando (estemporaneo) la
sentenza della Corte di Giustizia – grande sezione – 13 giugno 2006 (n.
C–173-/03 Soc. Traghetti del Mediterraneo
c. Repubblica Italiana).
La sentenza si inscrive nel circuito della
responsabilità dello Stato che fa capo alla sentenza Francovich, si è arricchita del caso Kobler e che ora, con la decisione
summenzionata, tocca un ambito su cui non mi pare (almeno a quanto mi risulta)
elaborata la riflessione necessaria: quello delle conformità al diritto europeo
delle limitazioni legali di responsabilità del magistrato nella attività
interpretativa delle norme.
Di qui (credo) non del tutto eliminabili le “tensioni”
con la scelta legislativa inserita nella L. 13 aprile 1988 n. 117 e nella
relativa pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n.
18/1989).
Altro principio che dobbiamo saper accogliere in tutta
la sua portata procedurale è quello del contradditorio (art. 2
CPA).
Come è stato affermato, “Il principio del
contraddittorio può essere inteso in duplice accezione:
–nella sua
dimensione oggettiva, esso costituisce metodo di accertamento della verità;
-nella sua
dimensione soggettiva.. e costituisce estrinsecazione del diritto di difesa.”
“Non vi è
dubbio che il principio sia stato recepito dall’art. 111 della Costituzione
principalmente nella sua dimensione oggettiva: in tal senso depone la
collocazione sistematica della garanzia, concepita non quale corollario del
diritto di difesa (nel qual caso la sua enunciazione avrebbe dovuto seguire la
garanzia del diritto di difesa: cfr. art. 24, comma secondo, della
Costituzione), bensì quale fondamentale “norma sulla giurisdizione”, inserita
(l’interprete deve ritenere non casualmente) nell’art. 111 della Costituzione,
che apre la sezione dedicata alle “Norme sulla giurisdizione” (Sezione II del
Titolo IV).”
L’esigenza del contraddittorio è ora pienamente recepita
anche nel giudizio di ottemperanza. L’art. 114 prevede, infatti, che la diffida
sia facoltativa, ma che il ricorso venga notificato alla pubblica
Amministrazione “e a tutte le parti”
del giudizio definito dalla sentenza.
Una lodevole esigenza di pienezza del contraddittorio si
riscontra anche nell’audizione presidenziale nella misura cautelare monocratica
(art. 56 c. 2).
La definizione del giudizio nel merito in esito
all’udienza cautelare (art. 60) può verificarsi se il giudice accerti la
completezza del contraddittorio.
Ancora: se il giudice, all’udienza di discussione,
ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata
d'ufficio, la deve indicare in udienza dandone atto a verbale, al fine di
evitare ogni “effetto
sorpresa”.
Una certa contrazione, va tuttavia segnalata, del
rispetto pieno del contraddittorio nella norma che consente di definire il
processo anche se il contraddittorio non sia integro, ove il ricorso sia
manifestamente inaccoglibile (cfr., art. 49 II° c.).
Colleghiamo allora questa impostazione generale
(racchiusa soprattutto nelle prime norme del Codice) con il “troppo” che la
nuova procedura ci offre.
L’eccedenza cui mi riferisco è, secondo la mia lettura,
da rimarcare, in via di rilevante esemplificazione, nella disciplina procedurale
delle prove, cui accennavo.
Le esigenze di completezza del contraddittorio, della
effettività della giustizia, il collegamento col diritto europeo hanno
comportato una chiara scelta riferita alla disciplina probatoria che, all’art.
64, sintetizza –nella disponibilità,
onere e valutazione della prova– il principio di cui all’art.
E’ questo il luogo processuale ove dovrà esplicarsi
tutta la nostra sapienza alchemica nel rinvenire soluzioni che non mortifichino
le aperture del codice e salvino, al contempo, il concentrato ritmo del processo
amministrativo in uno ad una peculiare, innegabile, posizione della
Amministrazione che non può essere quella tout court riassunta nel principio della
parità delle parti e delle “armi”.
Al di là di suggestioni teutoniche, v’è il pericolo che
l’attuazione del sistema probatorio possa trasformare il processo, consentendo
di realizzare ed imporre una verità processuale –quale ricostruibile, nel
giudizio, attraverso l’espletamento delle prove – del tutto disancorata dal
provvedimento amministrativo.
La verità processuale. In altri ed ancora più stringenti termini, dalla
parità dei carichi probatori potrebbe uscire (insisto, è una mia personale
lettura) potrebbe uscire una verità
processuale tale da ribaltare in toto
quanto il provvedimento amministrativo riassume.
Si tratta di disciplina processuale, come ho già detto,
capace di influenzare (rectius:
riscrivere) la cifra del rapporto fra cittadino e pubblici
poteri.
Qui, a mio avviso, il calco del processo civile che il
legislatore ci offre, va utilizzato con matura attenzione. Per adoperare una
espressione immaginifica: il processo amministrativo nato come occasione per la
verifica della legittimità del provvedimento –tanto da dare ingresso alla nota
formula dell’interesse legittimo come occasionalmente protetto – non può
divenire luogo di accertamento ex
novo del rapporto amministrativo, occasionato dall’impugnazione dell’atto.
A ciò può portare, caricandone il significato, una
visione del processo che si riconosca nella traslazione dall’atto al rapporto,
che tale si legittima proprio con riferimento al regime
probatorio.
Occorre coniugare sapientemente istanze innovative – che
vanno esaltate – con logiche di concentrazione e soprattutto di rispetto della
disarmonia prestabilita fra
amministrato e potere amministrativo che continua a caratterizzare l’esercizio
della discrezionalità della p.A. e ci connota quale “giudice naturale
dell'interesse legittimo”: se è vero, come pare, che oltre il 90% del nostro
contenzioso sia di natura impugnatoria.
Congruamente – dopo aver affermato il principio della
parità delle armi – la relazione al Codice coglie la problematica, sottolineando
che vi sono specificità correlate alla
natura delle vicende trattate dalla giurisdizione amministrativa che si
caratterizzano pur sempre per la presenza del pubblico
potere.
A prima lettura, rimane però il problema – spero che le
attuali giornate ed i lavori di gruppo lo chiarifichino – che qui riaffermo: il
processo amministrativo potrebbe portare, tramite una civilistica istruzione
probatoria, a negare completamente la “realtà” amministrativa sfociata nel
provvedimento impugnato. Ciò almeno nella giurisdizione generale di legittimità
ove l’oggetto del processo, come ben sappiamo, dopo l’iniziale verifica della
effettiva titolarità di un reale interesse legittimo, si sposta alla critica
della attività istruttoria amministrativa che ha generato il provvedimento
impugnato e dunque alla ricostruzione dei fatti che uno sviluppo probatorio
processuale potrebbe anche completamente alterare in quanto la verità del
processo ben può differire da quella fenomenica già ricostruita da un soggetto
pur con caratura pubblica.
La valutazione della nuova disciplina in tema di prove
si collega altresì alla critica perimetrazione dei poteri ufficiosi che pur
permangono: ordine di esibizione; di ispezione, verificazione, consulenza
tecnica “se indispensabile” (art. 63); acquisizione di informazioni e documenti
“utili ai fini del decidere” che siano nella disponibilità della pubblica
amministrazione (art. 64, c. 3).
E’ un rapporto che definisco critico, atteso che
l’iniziativa probatoria delle parti non può che comportare la tendenziale
eccezionalità dei poteri officiosi del giudicante.
Mi si potrebbe obiettare che l’apertura alle prove
civilistiche è da tempo in corso; rispondo: non però avallata da una precisa
disposizione di legge (di codice) che distribuisca fra le parti l’onere
probatorio e, in connessione al suo assolvimento, determini l’esito della lite:
tanto in adesione criteri fondanti il processo – per i quali mantengo una
positiva, oserei dire entusiastica adesione – soprattutto, per le scelte
legislative che si caratterizzano in tema di pregiudiziale e quant’altro che ci
libera da un ingombro teorico che non poco ci ha affaticato nell’ultimo
decennio.
Sempre in relazione al canone del giusto processo,
osservo, infine, come una istruttoria dilatata incida su tempi processuali; come
è stato bene precisato, Il processo può
essere ingiusto per il sol fatto che dura, lo è certamente quando dura troppo,
di sicuro è arbitrario quando consente alla pubblica amministrazione che gode
del potere di autotutela esecutiva, di consolidare illegittimamente situazioni
di vantaggio senza assicurare tutela al cittadino che abbia visto leso un suo
interesse legittimo o diritto soggettivo.
La sinteticità.
Altro snodo da contemperare è la sostanziale “parità delle armi” con le forme
sintetiche che il codice impone.
Il processo amministrativo deve, in generale, esprimersi
in forme sintetiche: alla sintesi rimanda l’art. 3, ma può esso ritenersi una
costante del codice.
L’art. 73 prescrive, infatti, che la discussione
all’udienza si a svolta in maniera sintetica. Pari sinteticità è prevista in
sede camerale ove si tratta della “sospensiva” (art. 55).
Il processo –mi sembra che questo sia il cuore pulsante
procedurale – deve tendere ad una sentenza di merito: così uno degli esiti
prioritari dell’udienza camerale è proprio quello di identificare quei profili
di apprezzabile favor per la tesi del
ricorrente che consenta la fissazione della udienza di discussione, parimenti va
richiamata la previsione generalizzata della decisione in forma semplificata
(art. 60), quasi residualmente, permane dunque la delibazione della “sospensiva”
che impone comunque la fissazione del merito; evidente snellezza si rapporta
alla previsione dei riti abbreviati, la cui ratio è sempre e comunque pervenire,
in breve tempo, ad una sentenza di merito (artt. 119 e
seg.).
…Insomma. È
l’annosa questione delle oscillazioni del pendolo fra garanzie e
risultato.
Il legislatore
è volato alto.. indicandoci valori–guida di particolare spessore ed impegno
processuale.. richiede però anche rapidità e qualità nella gestione ed esito del
processo.. sta a noi riuscire, come spero, in questo difficile coniugio..che
consenta di pensare al titolo dell’art. 2 non come ad un “fastidioso ossimoro”..
Una ultimissima notazione, quale dubbio sistemico (approfitto della autorevole presenza del
prof. Verde). L’art. 186–quater
CPC ove si prevede che l’ordinanza successiva alla chiusura della istruzione
possa acquistare “l’efficacia della sentenza impugnabile” potrebbe ricomprendere
tutte le ordinanze cautelari ex art.
Ringrazio tutti per
l’attenzione