Vito Poli

 

L’astensione e la ricusazione del giudice amministrativo nel nuovo codice del processo amministrativo*

 

*Il presente scritto è tratto dal COMMENTARIO AL NUOVO CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO a cura di A. Quaranta e Lopilato in corso di pubblicazione per i tipi della Giuffrè.

 

Pubblicato sul Sito il 21 settembre 2010

 

 

Bibliografia

 

 

barbagallo, L’organizzazione della giustizia amministrativa, in Trattato dir. amm., V, Milano, 2003; caianiello, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1998; calabrò, A proposito di indipendenza del consiglio di stato, in FI, 2001, 555; CASO, Magistrati e avvocati dello Stato, in il Pubblico impiego non privatizzato, a cura di CARINCI – TENORE, Milano, I, 2007; chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in RD PROC, 2000, 1010; chiti, in Codice ipertestuale della giustizia amministrativa, a cura di BATTINI – MATTARELLA – SANDULLI, Torino, 2007; CIMINO, ibidem; de carolis, La ricusazione nel processo amministrativo, in DP AMM, 2000, 840; DE NICTOLIS, I profili processuali della giurisdizione del giudice amministrativo, in CARINGELLA – DE NICTOLIS – GAROFOLI – POLI, Il riparto di giurisdizione, Milano, 2008; di carlo, Il principio del contraddittorio nel diritto amministrativo, in CS, 2004, II, 724; dittrich, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Padova, 1991; DONATI, Il sistema delle fonti, in  aa.vv., Il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, in FI, 2005, V, 23 ss.; Fantacchiotti, in fantacchiotti – fresa – tenore – vitello, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010; giovannini, in Codice ipertestuale della giustizia amministrativa, a cura di BATTINI – MATTARELLA – SANDULLI, Torino, 2007; Landi, Il Consiglio di Stato ed i tribunali amministrativi regionali, Milano, 1986; mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, I, 2006; picozza, Il giusto processo amministrativo, in CS, 2000, II, 1071; Pantaleo, Trasferimento d'ufficio dei magistrati per incompatibilità ambientale, in ND, 2003, 631; PANZAROLA, La ricusazione del giudice civile, il problema della impugnabilità della decisione, Bari, 2008; passaglia, Il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Due anni dopo, in FI, 2007, V, 19; poli, Funzione nomofilattica e certezza del diritto: la vincolatività delle decisioni del giudice superiore nazionale - comunitario, in FI, 2000, IV, 219; POLI, L’incompatibilità, l’astensione e la ricusazione del giudice, in CARINGELLA – DE NICTOLIS – GIOVAGNOLI – POLI, Manuale di giustizia amministrativa, Roma, I, 2008; proto pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in FI, 2000, V, 246; proto pisani-romboli-scarselli, Ancora sull’indipendenza dei giudici del consiglio di stato, in FI, 2001, 556; pustorino, in Codice ipertestuale della giustizia amministrativa, a cura di BATTINI – MATTARELLA – SANDULLI, Torino, 2007; sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, II,1989; reggio d’aci, L’indipendenza del giudice amministrativo, in CS, 1987, II, 491; scarselli, L’imparzialità del giudice e il suo controllo, FI., 2000, I, 772; id., La terzietà e l’indipendenza dei giudici del CS, in FI, 2001, III, 269; id., Procedimento prefallimentare e rocedimenti in camera di consiglio, in aa.vv., Il d.leg. 5/06 di riforma della legge fallimentare, in FI, 2006, V, 183; SCODITTI, Il giudice comune e la tutela dei diritti fondamentali di fonte sovranazionale, in FI, 2010, V, 42; tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2005; travi, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di romano, Padova, 2001; id., Formulario annotato della giustizia amministrativa, Padova, 2005; zucconi galli fonseca, in Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di carpi - taruffo, Padova, 2006.

 

 

 

 

Sommario

__________________________________________________________________________________

1. La terzietà del giudice. - 1.1. Incompatibilità funzionale. - 1.2. Incompatibilità di servizio (ad  impieghi o uffici). - 1.2.1. Magistrati ordinari. - 1.2.2. Magistrati amministrativi. - 1.3. Incompatibilità organiche (o di sede). - 1.3.1. Magistrati ordinari. - 1.3.2. Magistrati amministrativi. - 1.4. Il fondamento costituzionale ed internazionale del principio di terzietà del giudice. - 1.4.1. Le norme internazionali. - 1.4.2. L’art. 111 Cost. - 2. Astensione e ricusazione. - 2.1. Le ipotesi di astensione obbligatoria e ricusazione. - 2.1.1. Avere interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto. - 2.1.2. Essere il giudice o il coniuge parente fino al quarto grado di una delle parti in causa o di alcuno dei difensori o essere legato da vincoli di affiliazione, o convivente o commensale abituale. - 2.1.3. Avere il giudice o il coniuge causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei difensori. -  2.1.4.  Avere il giudice, nella medesima causa, dato consiglio, prestato patrocinio, deposto come teste, prestato assistenza come consulente tecnico, conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro. - 2.1.5. Essere stato il giudice tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; amministratore o gerente di un ente, di una associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che abbia interesse nella causa. - 2.2. Astensione facoltativa. - 3. Il procedimento di ricusazione. - 3.1. Disciplina normativa -  3.2. Organo competente a decidere sulla istanza di ricusazione. - 3.3. La verifica dell’ammissibilità e della non manifesta infondatezza dell’istanza di ricusazione. - 3.4. Sospensione del giudizio principale. - 3.5. Mezzi di gravame. - 3.6. Conseguenze della mancata proposizione dell’istanza di ricusazione. - 3.7. Natura giuridica del procedimento di ricusazione.  - 4. Il procedimento di astensione.

 

 

1. La terzietà del giudice.

La posizione di assoluta indifferenza ed equidistanza del giudice dalle pretese delle parti assurge ad elemento caratteristico strutturale dell’atti­vità che il giudice stesso svolge, a garanzia sia dell’indipendenza che del prestigio della funzione.

Ben si comprende come la legge si preoccupi di dettare regole destinate a garantire comunque tale imparzialità, la cui ratio è quella di prevenire possibili conflitti di interesse, nel quadro di una più ampia normativa che configura diverse ragioni di incompatibilità per l’esercizio della funzione giurisdizionale.

L’istituto dell’incompatibilità del giudice soddisfa la precipua esigenza di tutelare la sostanza e l’immagine dell’indipendenza del giudice a qualsiasi ordine appartenga, ferma restando la discrezionalità del legislatore in ordine alle discipline particolari da applicarsi ai vari tipi di processo (CCost, 16 febbraio 2006 n. 60, in FI, 2006, I, 961, in questa sede, per ragioni di economia, si tratterà del solo processo civile ed amministrativo stante anche la parziale identità di disciplina come si vedrà meglio in prosieguo).

Tradizionalmente suole distinguersi fra tre diversi tipi di incompatibilità: funzionale, agli impieghi ed alla sede (POLI, Manuale, 225; mandrioli, 291; dittrich, 57 ss.).

Le ultime due rappresentano forme di incompatibilità in senso proprio. La ratio e l’interesse protetto dalle norme che le disciplinano, infatti, attengono a situazioni che prescindono dal singolo processo e riguardano la tutela dell’imparziale esercizio della giurisdizione, della par condicio tra i professionisti e della credibilità dell’intero ufficio giudiziario interessato; si tratta, al dunque, di una forma di tutela avanzata dell’imparzialità della giurisdizione, rivolta alla funzione giudiziaria in generale a prescindere dalla concreta decisione del caso singolo.

 

 

1.1. Incompatibilità funzionale.

Essa incide sul concreto esercizio dello ius dicere, ed è presidiata dalle norme che disciplinano l’astensione e la ricusazione del giudice relativamente al singolo processo (artt. 51 ss. c.p.c., artt. 17 e 18 in commento; in precedenza artt. 47 ss., reg. proc. Cons. St.). L’analisi di questi istituti sarà approfondita nei successivi paragrafi. Qui è sufficiente rilevare che la ricusazione e l’astensione, pur preordinate alla garanzia di imparzialità del giudice, operano su piani diversi rispetto alle incompatibilità in senso stretto che agiscono in astratto ed in via preventiva (ex plurimis, CCost, ord. 20 aprile 2004 n. 123, in CS, 2004, II, 794).

 

 

1.2. Incompatibilità di servizio (ad impieghi o uffici).

Essa priva il giudice della possibilità di svolgere determinati incarichi o attività (commerciali, imprenditoriali, alle dipendenze di privati o enti pubblici) ritenuti non confacenti all’esercizio della funzione giudiziaria.

La normativa che determina la possibilità, i limiti, le condizioni e le modalità di attribuzione di incarichi estranei ai compiti di istituto attiene allo status del magistrato, incidendo sull’indipendenza ed imparzialità della funzione giudiziaria (Cons. Stato, ad. gen., 7 giugno 1993 n. 58/93, in CS, 1994, I, 269).

 

1.2.1. Magistrati ordinari.

Soccorrono, per i soli magistrati ordinari, le norme sancite dagli artt. 16 e 17, ord. giud., e dall’art. 61 e ss. t.u.imp.civ.St. (richiamato dall’art. 16, co. 2, cit.): viene sancito un divieto generalizzato di assunzione di uffici e impieghi, pubblici o privati, anche presso società con scopo di lucro, oltre che di cumulo di più impieghi pubblici; limitate eccezioni sono previste per l’assunzione del mandato parlamentare, di incarichi in società o enti privi di scopo di lucro, o comunque gravitanti nell’orbita pubblica.

Tale disciplina risulta profondamente rimaneggiata dalle previsioni recate dall’art. 53, d. lg. 30 marzo 2001 n. 165 (parzialmente riproduttivo delle corrispondenti norme dettate dal d.lg. n. 29/1993), che però non ha mai ricevuto attuazione completa, limitatamente ai magistrati ordinari, non essendo stato emanato lo specifico regolamento relativo all’individuazione degli incarichi vietati e di quelli consentiti perché l’organo di autogoverno si è rifiutato di dare corso alla procedura normativa ritenendo incostituzionale la relativa previsione legale (CASO, 305; sull’applicabilità dell’art. 53 cit. ai magistrati ordinari,  Cons. Stato,  IV, ord. 2 novembre 2004 n. 5274, in FI, 2005, III, 597, con nota di fuzio, Sulla procedura di rilascio dell’autorizzazione degli incarichi extragiudiziari dei magistrati  ordinari).

A queste previsioni generali si aggiungono divieti sanciti da norme specifiche quale, ad. es., quello di cui all’art. 21, co. 11, l. 3 agosto 2007 n. 124, che impedisce ai magistrati tout court (quindi anche a quelli amministrativi), qualsivoglia forma di collaborazione e consulenza con i servizi di sicurezza.

 

 

1.2.2. Magistrati amministrativi.

L’art. 28, l. 27 aprile 1982 n. 186 estendeva la disciplina delle cause di incompatibilità previste per la magistratura ordinaria ai magistrati amministrativi (cimino, op. cit., 1821 ss.; barbagallo, L’organizzazione della giustizia amministrativa, in Trattato dir. amm., V, Milano, 2003, 4130 ss.).

Successivamente, il regime di equiparazione deve intendersi venuto meno, ex art. 53 d. lg. n. 16572001, che ha diversamente regolato, per le varie magistrature, la materia delle attività esterne affidandola a specifica fonte regolamentare per ciascuna di esse. Del resto i magistrati amministrativi non sono assimilabili, per garanzie di indipendenza e articolazione di carriera, a quelli ordinari (CC, SU, 29 settembre 2000 n. 1049, in FI, 2001, I, 2322; in senso fortemente critico sull’indipendenza del g.a., scarselli, La terzietà, 269; proto pisani-romboli-scarselli, 556; contra calabrò, 555; reggio d’aci,  491).

Storicamente, l’impiego dei magistrati amministrativi in attività esterne e, principalmente, nei gabinetti ministeriali, in uffici consultivi e di alta amministrazione, è un dato costante nella vita del plesso, tale da diventare un aspetto strutturale e caratteristico dello status di questi ultimi, a lungo elemento di differenziazione rispetto agli appartenenti agli altri grands corps della Repubblica.

Il regime degli incarichi extragiudiziari dei magistrati amministrativi è definito da una disciplina molto variegata, sia per fonte - leggi, regolamenti, atti amministrativi generali, - sia per oggetto - norme di sistema e interventi settoriali.

L’art. 53 d. lg. n. 165/2001 reca la disciplina generale sull’incompatibilità e sul cumulo di impieghi e incarichi, applicabile a tutti i funzionari pubblici; il co. 3, che trova specifica applicazione ai magistrati di ogni ordine, rinvia alla fonte regolamentare, limitandosi a definire una particolare garanzia procedurale, consistente nel coinvolgimento dell’or­gano di autogoverno. Neanche il regolamento attuativo – per la magistratura amministrativa il d.P.R. 6 ottobre 1993 n. 418 - tuttavia, contiene una disciplina compiuta della materia: esso, infatti, individua criteri di massima destinati ad essere ulteriormente specificati da successive delibere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.

Emerge, dunque, un complesso meccanismo di deleghe e subdeleghe a cascata. Ricostruendo il quadro, ne risulta una normativa molto articolata: sono presenti, anzitutto e in via astratta, elenchi di incarichi vietati ed ammessi; in secondo luogo, un’ampia serie di criteri sostanziali a carattere generale, alcuni ad applicazione automatica, altri che lasciano una certa discrezionalità operativa; in terzo luogo, criteri specifici, legati a singole categorie di incarichi o alla posizione dei singoli magistrati interessati; in ultimo, due diverse procedure di autorizzazione in base alla natura - fiduciaria o meno - dell’incarico.

Il rinvio del legislatore alla fonte regolamentare, per la definizione di una compiuta disciplina degli incarichi extragiudiziali, ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale; le censure di costituzionalità della delega ex art. 53, co. 3, cit., non hanno trovato accoglimento nella giurisprudenza amministrativa; in sede consultiva il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’indipendenza della magistratura possa essere efficacemente garantita anche da una serie graduata di fonti e di principi, purché accompagnata da un modulo procedimentale che coinvolga l’organo di autogoverno (Cons. Stato, ad. gen., 7 giugno 1993 n. 58/93, cit.).

La Corte costituzionale non è stata ancora investita direttamente della questione, per quanto, in un obiter dictum, relativo al d.P.R. n. 388/1995, in materia di incarichi esterni dei magistrati della Corte dei conti, abbia lasciato trapelare talune riserve (CCost, 3 giugno 1999 n. 224, in FI, 1999, I, 2781).

 La giurisprudenza di merito oscilla fra una posizione che esclude qualsiasi intervento creativo dell’organo di autogoverno dei giudici amministrativi (Cons. Stato,  IV, 9 agosto 2005 n. 4229, in CS, 2005, I, 1294, che fa leva sulla particolare valenza del principio di legalità in materia di status dei magistrati), ed un’altra che ammette l’introduzione di divieti ulteriori, rispetto a quelli espressamente individuati dalle norme primarie e secondarie, purché rispettosi delle previsioni generali poste dal regolamento n. 418 del 1993 (Cons. Stato,  IV, 30 luglio 2003 n. 4406, in FI, 2005, III, 598).

Infine giova ricordare che anche l’art. 23 bis, d. lg. n. 165/2001, nella parte in cui espressamente consente a tutti i magistrati (ordinari, amministrativi ecc.) di essere collocati in aspettativa senza assegni presso soggetti pubblici anche internazionali, è stato ritenuto fondare una ulteriore ipotesi di incarico extragiudiziario (Cons. Stato, IV, 21 luglio 2005 n. 3914, in CS, 2005, I, 1234, fattispecie relativa al diniego di collocamento fuori ruolo di magistrato amministrativo chiamato ad assumere l’incarico di presidente dell’Istituto poligrafico dello Stato, nella specie il Consiglio ha ritenuto che tale ente non potesse essere qualificato come autorità indipendente ai sensi del d.P.R. n. 418/1993).

 

 

1.3. Incompatibilità organiche (o di sede).

Le incompatibilità organiche derivano dai particolari legami che, in una determinata sede di servizio, il magistrato si trova a intrecciare con parenti, coniugi, conviventi e affini, che siano titolari di altri uffici giudiziari, di funzioni di polizia giudiziaria o attività professionale forense.

 

 

1.3.1. Magistrati ordinari.

Le cause di incompatibilità di sede sono minutamente elencate dagli artt. 18 e 19 ord. giud. novellati dal d.lg. 23 febbraio 2006 n. 109.

Viene in rilievo una disciplina assai complessa, a tratti asfissiante, che affida all’organo di autogoverno ampi spazi di intervento.

Il C.s.m. ha contribuito a completare il quadro regolatorio individuando i parametri per accertare in concreto la ricorrenza della incompatibilità di sede (deliberazioni 25 giugno 2008, in FI, 2009, III, 186; 23 maggio 2007, id., 2007, III, 405, attuative del nuovo testo degli artt. 18 e 19 cit.; 4 dicembre 2003, id., 2004, III, 20, attuativa della precedente normativa).

Per risolvere sia le situazioni di incompatibilità tipizzate che quelle innominate, l’ordinamento giudiziario ha previsto un peculiare meccanismo giuridico: il c.d. trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale, disciplinato dall’art. 2, r.d.lg. 31 maggio 1946 n. 511, il cui testo attuale, novellato dal d.lg. n. 109/2006, prevede che i magistrati «possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni. ...quando si trovino in uno dei casi di incompatibilità previsti dagli artt. 16, 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario …o quando indipendentemente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità» (sulla natura giuridica e le garanzie del procedimento di trasferimento del magistrato per incompatibilità ambientale, nonché sui poteri esercitabile dal C.s.m., da ultimo Cons. Stato, IV, 10 giugno 2010 n. 3712, in http://www.giustizia-amministrativa.it/; IV, 3 marzo 2006 n. 1035, in FI, 2007, III, 425; in dottrina FANTACCHIOTTI, 330 ss.).

 

 

1.3.2. Magistrati amministrativi.

Si ritiene comunemente che l’art. 28, l. n. 186/1982 - unitamente all’art. 13, co. 5, l. TAR - rinvii alla disciplina dell’ordinamento giudiziario non solo per le cause di incompatibilità ai servizi ma anche per quelle di sede (cimino, op. cit., 1451).

Dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario si pone un delicato problema di coordinamento normativo.

L’art. 30, d.lg. n. 109/2006 (che ha riformato gli istituti in esame con la tecnica della novella), infatti, sancisce espressamente che «il presente decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabili»; è lecito interrogarsi su quale sia la sorte del rinvio operato dalle ll. TAR e n. 186/1982; si possono ipotizzare, in tesi, le seguenti soluzioni:

a) che per i magistrati amministrativi non vi sia più alcuna disciplina tipica di rango primario, rimanendo affidato ogni ambito regolatorio alla potestà dell’organo di autogoverno (con evidenti torsioni sul piano della legittimità costituzionale), che potrebbe, in via analogica ispirarsi alla nuova normativa vigente per i magistrati ordinari;

b) che debba trovare applicazione la disciplina generale dettata dal t.u.imp.civ.St.;

c) che sia richiamabile la vecchia normativa, recata dagli artt. 18 e 19 ord. giud. nel testo antevigente, nel presupposto del carattere materiale e non dinamico del rinvio operato dalle leggi di stato della magistratura amministrativa; in questo senso si è orientata la prassi dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa in relazione a procedimenti disciplinari, di sospensione cautelare dal servizio, di accertamento di cause di incompatibilità e relativo trasferimento (delibere 23 ottobre 2009; 31 maggio 2007).

Sotto l’egida della previgente normativa, sancita dai più volte menzionati artt. 18 e 19 (nel testo antecente la novella del 2006), si distinguevano tre fattispecie.

La prima concerne l’incompatibilità ambientale «per parentela o affinità con professionisti» che esercitino abitualmente il proprio patrocinio presso l’ufficio giudiziario sede del magistrato, prevista dall’art. 18: questa disposizione trova applicazione ai soli magistrati di T.a.r., e non a quelli del Consiglio di Stato (giudice unico nazionale) in parallelo all’esenzione dal divieto prevista per i magistrati di Cassazione.

La seconda riguarda l’incompatibilità ambientale «per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede», prevista dal successivo art. 19 (per una giudizio fortemente critico sulla diffusione del fenomeno, Pantaleo, 631); il vecchio ordinamento giudiziario considerava questa disposizione derogabile ove a giudizio dell’organo di autogoverno «per il numero dei componenti il collegio o l’ufficio giudiziario sia da escludere qualsiasi intralcio al regolare andamento del servizio»; si ritiene, tuttavia, che nel Consiglio di Stato e nei T.a.r. divisi in sezioni, sia  sufficiente assegnare a sezioni diverse i magistrati interessati; il trasferimento si rende invitabile, invece, per i T.a.r. non divisi in sezioni ove l’organo di autogoverno non si pronunzi per la deroga (cimino, op. cit., 1451; Landi, 161).

Il Consiglio di presidenza, al fine di limitare il verificarsi delle due ipotesi in oggetto, ha statuito che negli atti di interpello relativi all’assegnazione di sede per prima assegnazione o per trasferimenti a domanda sia esplicitamente richiesto agli aspiranti di indicare se ricorrano o meno, in relazione a tutti i posti messi a concorso, situazioni che potrebbero dar luogo alla fattispecie di incompatibilità prevista dagli artt. 18 e 19 ord. giud. (deliberazione 28 gennaio 2005).

La terza ipotesi di incompatibilità ambientale, infine, è quella prevista dall’art. 2, r.d.lg. n. 511/1946 (vecchio testo), quando i magistrati «per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa, non possono, nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni previste dal prestigio dell’ordine giudiziario».

 

1.4. Il fondamento costituzionale ed internazionale del principio di terzietà del giudice.

 

L’imparzialità del giudice, oltre che requisito strutturale dell’attività giudiziaria, è espressione di un sistema di valori di rango costituzionale e internazionale.

Distinguere fra il rilievo costituzionale e quello internazionale del principio di imparzialità non ha solo una importanza accademica o teorica, ma pratica perché consente, in caso di violazione delle norme poste a presidio della terzietà ed imparzialità del giudice, l’accesso a diversi sistemi di tutela: davanti alla Corte costituzionale (per gli aspetti di illegittimità costituzionale di norme di legge italiana); alla Corte di Lussemburgo (per le violazioni, imputabili allo Stato italiano in tutte le sue articolazioni ivi inclusa quella giudiziaria, delle disposizioni e dei principi recati Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea); alla Corte di Strasburgo (in caso di violazione, da parte dello Stato italiano, sempre considerato in senso ampio, delle disposizioni della C.e.d.u.; sulle conseguenze costituzionali della violazione, da parte della legge italiana, della C.e.d.u. è fondamentale l’ampia ricostruzione sistematica operata da CCost, 24 ottobre 2007 nn. 348 e 349, in FI, 2009, I, 39).

 

1.4.1. Le norme internazionali.

La regola del giusto processo, declinata nelle sue componenti essenziali, fra cui quella concernente la terzietà ed imparzialità del giudice, si trova scolpita in numerose fonti internazionali: si pensi all’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948), ed all’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 16 dicembre 1966 ).

Un particolare rilievo giuridico - per il sistema di tutela apprestato direttamente, dai rispettivi ordinamenti, in favore dei singoli individui - assumono l’art. 6 C.e.d.u. e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (approvata a Nizza il 7 dicembre 2000).

L’art. 6, co. 1, C.e.d.u., nella parte che qui interessa, stabilisce che «ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei… >>. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo è costante nel distinguere tra quello che viene chiamato il profilo soggettivo e quello oggettivo dell’imparzialità. Il primo, relativo alle convinzioni personali del giudice, per il quale l’imparzialità è presunta fino a prova contraria, mentre in base al secondo il giudice deve offrire garanzie tali da escludere qualsiasi dubbio, pur sottolineandosi che l’ottica della parte, seppur rilevante, non può ritenersi decisiva, dovendo il dubbio di quest’ultima potersi dire obiettivamente giustificabile. La Corte definisce la nozione di indipendenza e di imparzialità “oggettiva”, sottolineando come sia elemento determinante che il giudice ispiri fiducia ai cittadini e che i dubbi ed i sospetti di parzialità della parte nei suoi confronti siano «obiettivamente giustificati» (Corte eur. diritti dell’uomo, 6 maggio 2003, Kleyn, in FI, 2004, IV, 565 con nota di romboli; in senso conforme pustorino, 1950).

È poi comunemente affermato che anche le apparenze vengono in proposito ad assumere rilievo, dovendo il giudice non solamente essere, ma altresì apparire assolutamente privo di interessi personali nella causa (Corte eur. diritti dell’uomo 28 gennaio 2003, Dell’Utri, in CC pen., 2003, 2062, con nota di tamietti).

È utile evidenziare che l’applicabilità della C.e.d.u. al processo amministrativo non è indiscriminata, essendo limitata alle sole controversie aventi ad oggetto questioni spiccatamente patrimoniali (da ultimo Cons. Stato,  IV, 22 giugno 2006 n. 3948, in GIUR AMM, 2006, I, 961, che, in adesione agli indirizzi consolidati della Corte di Strasburgo, afferma che esorbitano dall’alveo della norma le controversie che toccano, al pari di quelle fiscali, le prerogative del potere d’imperio degli Stati; in dottrina, per un elenco delle controversie amministrative cui si applica l’art. 6 cit., pustorino, op. cit., 1948).

L’art. 47, co. 2, della Carta di Nizza sancisce che «ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare».

Tale norma era stata consolidata dall’art. II-107 della Costituzione europea, che però, come noto, non è mai entrata in vigore (passaglia, 19).

In passato si è molto discusso del valore giuridico da riconoscere alla Carta (sui problemi concernenti la Costituzione europea e la natura giuridica della Carta di Nizza, chiti, 1956 ss.; DONATI., 23 ss. tesauro, 21 ss., 116 ss.). Pur priva di una immediata valenza giuridica, almeno in tutte le sue parti, è stato possibile comunque distinguere fra le varie norme che la compongono:

a)  quelle ricognitive di diritti già regolati da norme dei trattati o espressive di principi comuni agli ordinamenti europei (in questo caso la Carta si limita a riaffermarli al solo scopo di renderli più visibili e coordinarli in un catalogo omogeneo; secondo CCost, 23 novembre 2006 n. 394, in FI, 2007, I, 2008, la Carta di Nizza «ancorché tuttora priva di efficacia giuridica, per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei», può essere richiamata a sostegno dell’interpretazione di norme e principi nazionali; per la posizione della giurisprudenza comunitaria  CGCE, 10 luglio 2003, cause riunite C-20/00 e C-64/00, in FI, 2004, IV, 548, con nota di giovannetti);

b)  quelle ricognitive di diritti fondamentali già attribuiti dalla convenzione sui diritti dell’uomo (anche a questo riguardo la Carta nulla avrebbe aggiunto nella misura in cui ne prevede il rispetto da parte degli stati membri che sono già vincolati ad applicarli in quanto parti della convenzione; all'obbligo loro derivante dal diritto internazionale si aggiunge per essi un obbligo comunitario, ma il contenuto dell'obbligo resta invariato. Proprio allo scopo di garantire la puntuale osservanza della Convenzione l'art. 52, co. 3, della Carta, precisa che in tal caso il significato e la portata dei diritti previsti dalla Carta medesima sono uguali a quelli conferiti dalla Convenzione, salva la possibilità di una protezione più estesa);

c)  quelle attributive di diritti nuovi, in relazione ai quali è corretto porsi il problema, in concreto, del valore e dell’efficacia della Carta.

Il diritto al processo equo è stato ricondotto al secondo gruppo di norme (POLI, Manuale, 234).

A seguito dell’entrata in vigore, a far data dal 1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – ratificato con l. 2 agosto 2008 n. 130 - che ha attribuito efficacia giuridica piena alla Carta di Nizza, sono superate tutte le residue difficoltà applicative; si conferisce alla Carta il medesimo valore giuridico dei trattati; ne consegue l’applicazione immediata, da parte del giudice nazionale, del catalogo dei diritti fondamentali sancito dalla Carta - nei settori di competenza comunitaria e nei limiti in cui la singola disposizione o il principio siano muniti di effetto diretto -; in sostanza il diritto fondamentale, per trovare immediata applicazione, non deve essere individuato a conclusione di una preventiva operazione di bilanciamento ermeneutico fra principi diversi e contrapposti affidata al giudice comune, ma scaturire direttamente dalla disposizione sovranazionale contenuta nella Carta, strutturata in modo tale da consentire una sufficiente disciplina della fattispecie  (SCODITTI, 45; Corte giust. 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, in FI, 2006, IV, 133). L’attrazione di tale diritto nel catalogo dei diritti comunitari ora positivizzato, fa si che i giudici nazionali (sulla considerazione dei giudici nazionali come primi giudici comunitari, che da luogo al fenomeno della «biappartenenza» funzionale di istituzioni o apparati, sia consentito il rinvio a poli, Funzione, 219), in presenza di norme interne contrastanti, le disapplichino, secondo i consueti e ormai collaudati criteri sviluppati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte costituzionale.

E’ lecito dubitare che il requisito dell’<<effetto diretto>> assista la norma sancita dal menzionato art. 47, co. 2.

 

1.4.2. L’art. 111 Cost.

Come accennato, l’imparzialità e la terzietà del giudice costituiscono l’essenza stessa del giudizio e sono valori fondamentali del due process of law oggi esplicitamente sanciti dal nuovo art. 111, co. 2, Cost. secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

La novella dell’art. 111 Cost. ha acceso il dibattito sul ruolo dell’im­parzialità nei processi governati dal principio della domanda (quali quello civile ed amministrativo) e sul valore aggiunto recato della norma sancita dal secondo comma.

Secondo un maggioritario orientamento, l’imparzialità del giudice - e la disciplina positiva che attua tale principio - ha oggi un fondamento costituzionale (mandrioli, op. cit., 495). Enumerando sinteticamente i principali corollari, è stata sostenuta la copertura costituzionale (di carlo, Il principio del contraddittorio nel diritto amministrativo, in CS, 2004, II, 724 ss.; picozza, Il giusto processo amministrativo, id., 2000, II, 1071; proto pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in FI, 2000, V, 246 ss.):

a) del principio della domanda e della distinzione fra chi chiede e chi rende giustizia;

b) del divieto del sapere privato da parte del giudice;

c) dell’eliminazione dei condizionamenti derivanti dalla c.d. forza della prevenzione, sicché al giudice non sarebbe mai consentito di conoscere di fasi autonome dello stesso rapporto processuale;

d) del giusto processo come forma obbligatoria della funzione giudiziaria fra i cui elementi essenziali spicca quello della terzietà del giudice (accanto agli altri tre rappresentati dal contraddittorio fra le parti in condizioni di parità, dalla ragionevole durata del processo dall’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti decisori.

Altra tesi si dimostra scettica sulla possibilità che l’elevazione al rango costituzionale di talune formule, per lo più recepite dalla terminologia anglosassone, possano introdurre garanzie ulteriori rispetto a quelle che già non risultassero dal precedente quadro costituzionale, ciò in forza di una lettura realistica dell’applicazione delle garanzie costituzionali che tiene conto in concreto degli scopi ai quali si indirizzano i diversi tipi di processo (chiarloni, 1010).

Il principio del giusto processo fondato su una interpretazione innovativa dell’art. 111 cit. non ha incontrato il favore della Corte costituzionale che ha sostenuto a chiare lettere come la novella costituzionale nulla avrebbe immutato sull’impianto delle garanzie nel processo civile, posto che in tale disposizione non sarebbe contenuta alcuna prescrizione ulteriore che non fosse già compresa in altre norme costituzionali, sebbene in un sistema diffuso e non concentrato in una sola disposizione (CCost, 15 luglio 2003 n. 240, in FI, 2003, I, 2513; 26 luglio 2002 n. 411, id., 2002, I, 2921, rese in materia di poteri officiosi del giudice fallimentare); gli snodi essenziali del pensiero della Corte sono rappresentati dalle seguenti proposizioni:

a) il principio della domanda se contrapposto a quello della terzietà-imparzialità del giudice non trova diretta copertura costituzionale in quanto vi sono situazioni nelle quali l’iniziativa officiosa più che opportuna si rivela necessaria;

b) l’iniziativa officiosa non lede il principio della terzietà-imparzialità del giudice quando il procedimento è strutturato in modo che il giudice conservi il requisito di soggetto super partes mantenendosi in posizione di equidistanza e non rivestendo il ruolo di «giudice-attore»;

c) la posizione di terzietà-imparzialità è assicurata ogni volta che il procedimento per la dichiarazione di fallimento sia sollecitato ab externo e in tutti i casi di «fallimento-dipendente»; la riforma della legge fallimentare varata nel 2006 ha soppresso l’iniziativa officiosa del giudice (scarselli, Procedimento, 183 ss.).

Relativamente al processo amministrativo, gli artt. 1, 2 e 3 c.p.a. (al cui commento si rinvia), hanno operato la ricognizione espressa dei principi sopra menzionati; si tratta di una novità sconosciuta agli altri codici di procedura (sulla considerazione che tali principi fossero già insiti nel processo amministrativo anche prima della riforma dell’art. 111 Cost. cfr. Cons. Stato, VI, 23 febbraio 2009 n. 1049, in GIUR AMM, 2009, I, 242, e la ulteriore giurisprudenza ivi richiamata).

 

 

2. Astensione e ricusazione.

Si è visto come gli istituti dell’astensione e ricusazione siano preordinati a garantire l’imparzialità, e indirettamente la terzietà del giudicante dalle insidie che possono derivare da eventuali rapporti con la controversia o le parti (giovannini, op. cit., 298 ss.; caianiello, 340 ss.).

Tecnicamente ciò avviene attraverso la sottrazione al giudice - inteso quale magistrato persona fisica - della potestas iudicandi (ovvero del potere dovere di giudicare in quelle cause nelle quali si potrebbe dubitare della sua imparzialità). Tale sottrazione può avvenire o a seguito di un’iniziativa spontanea del giudice - astensione - in taluni casi dovuta, oppure attraverso una specifica contestazione ad opera della parte che ha motivo di dubitare dell’imparzialità del giudice - ricusazione. -

Per il giudizio civile, la disciplina della astensione e revocazione è dettata dagli artt. 51 ss. c.p.c.

Per il processo amministrativo, dispongono ora gli artt. 17 e 18 in esame (in precedenza, l’art. 47 reg. proc. Cons. Stato rinviava alla disciplina del c.p.c. per quanto concerne l’individuazione delle cause che danno luogo alla ricusazione o astensione dei giudici; gli artt. successivi, viceversa, disciplinavano in modo autonomo il procedimento di ricusazione del giudice e del funzionario incaricato del compimento di un mezzo istruttorio).

 

 

2.1. Le ipotesi di astensione obbligatoria e ricusazione.

Né il giudice che si astiene né la parte che lo ricusa possono fondarsi su considerazioni eminentemente soggettive o su generici sospetti.

I motivi di astensione obbligatoria generale (e conseguentemente di ricusazione) sono tassativamente indicati dall’art. 51 c.p.c., ed in quanto incidenti sulla capacità del giudice, determinando una deroga al principio del giudice naturale, sono di stretta interpretazione (sulla tassatività dell’elenco Cons. Stato, VI, ord. 28 dicembre 2009 n. 125, in GIUR AMM, 2009, I, 1696; IV, ord. 25 ottobre 2006 n. 6370, id., 2006, I, 1504; CC, SU, 30 settembre 1989 n. 3947, in FI, 1991, I, 600; mandrioli, op. cit., 292).

Si tratta di motivi comuni (per quanto sopra detto) ai giudici civili ed a quelli amministrativi.

Una ipotesi speciale, dettata per i soli consiglieri di Stato, era divisata dall’art. 43, co. 2, t.u. Cons. St., che vietava al magistrato che ha concorso al parere in una sezione consultiva di partecipare al collegio giudicante chiamato a decidere di una questione avente il medesimo oggetto di quella trattata in precedenza; la disposizione è stata abrogata espressamente dall’art. 4, co. 1, n. 4), dell’Allegato 4 al c.p.a.; tale regola non sembrava valere per i pareri resi dall’ad. gen.: dal punto di vista logico, onde evitare che si verificasse la paralisi dell’organo; dal punto di vista testuale, dato che la norma si riferiva alla partecipazione alla «sezione consultiva» al singolare, lasciando intendere la doverosità dell’intervento del magistrato in sede di ad. gen. (POLI, op. cit., 237; giovannini, op. cit., 298; caianiello, op. cit., 341; sandulli, 1408). E’ assai dubbio che la fattispecie di incompatibilità ora abrogata refluisca direttamente nella previsione dell’art. 51, n. 4) c.p.c. difettando il requisito dell’<<identità di causa>> che può ravvisarsi, a determinate condizioni, solo per l’esercizio della funzione consultiva in sede di decisione di ricorsi straordinari al Capo dello Stato.

Non costituisce di per sé violazione dell’art. 6, C.e.d.u., relativamente al diritto ad un giudice indipendente ed imparziale, il fatto che la struttura istituzionale del Consiglio di Stato consenta che alcuni dei suoi componenti possano esercitare contemporaneamente funzioni consultive e funzioni giurisdizionali (Corte eur. diritti dell’uomo, 6 maggio 2003, Kleyn cit., relativa al Consiglio di Stato olandese, nella specie, la Corte ha ritenuto non giustificati i sospetti di parzialità, in senso oggettivo, rivolti nei confronti della sezione giurisdizionale del Consiglio che aveva giudicato su ricorsi avverso l’esecuzione della pianificazione delle infrastrutture di una rete ferroviaria, rispetto alla quale il Consiglio stesso aveva espresso parere favorevole, non potendosi parlare di «stessa questione» o di «stessa decisione»; proprio in considerazione di tale sentenza, in Olanda si è venuta creando la prassi in base alla quale, qualora una delle parti avanzi dubbi sull’imparzialità del giudice amministrativo per aver questi già pronunciato parere sulla stessa materia del ricorso, la composizione della sezione giurisdizionale viene modificata in modo tale che non ne facciano parte giudici che avevano partecipato all’approvazione del parere).

Di seguito si illustrano i singoli casi.

 

2.1.1. Avere interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto.

La dottrina classica del processo amministrativo sottolinea che tale situazione di incompatibilità si verifica solo con riferimento allo specifico rapporto processuale in ordine al quale deve pronunciarsi il giudice o in ordine ad altro rapporto processuale pendente presso altro giudice avente il medesimo oggetto; il giudice ha pertanto l’obbligo di astenersi se è parte del rapporto processuale in questione ovvero se ha compiuto qualsiasi altro atto processuale in ordine alle relative controversie, in modo che si renda giuridicamente apprezzabile il suo interesse; in sostanza, non un qualunque vantaggio indiretto ritraibile dalla lite in corso impone l’astensione, ma solo quello che sia direttamente riferibile al giudice. Tale esegesi si impone per evitare che, in taluni casi, si incorra nella denegata giustizia perché si finirebbe per non trovare un giudice disinteressato (caianiello, op. cit., 343); si tratta di una preoccupazione dovuta alla possibilità che, specie in caso di controversie aventi ad oggetto questioni generali sul trattamento economico dei magistrati, non si trovino giudici privi di un interesso anche riflesso (CC, SU, 14 giugno 1995 n. 6689, in Mass., 1995, relativa a magistrato - commissario liquidatore agli usi civici - chiamato a decidere su controversia in cui era parte la p.a. cui era collegato - assessorato regionale agli usi civici -; T.a.r. Lazio, I, 15 luglio 1981 n. 563, in FI, 1982, III, 437, in materia di trattamento economico di magistrati).

La giurisprudenza civile distingue fra interesse personale e diretto
e interesse indiretto, giungendo a conclusioni parzialmente non coincidenti.

Nel primo caso, infatti, (ravvisato nelle ipotesi di scuola del giudice in causa propria o titolare di un rapporto dipendente da quello oggetto del processo), una parte di essa ritiene che il motivo di astensione possa essere invocato come vizio di nullità del provvedimento giurisdizionale anche in mancanza di preventiva richiesta di ricusazione (CC, I, 27 febbraio 2004 n. 3974, in Mass., 2004;  III, 17 febbraio 1998 n. 1668, in FI, 1999, I, 3376); nel secondo caso, invece, la ricusazione, da proporsi nei modi e tempi richiesti dalla legge, esaurisce ogni possibilità di reazione della parte (CC, I, 10 ottobre 2007 n. 21287 in Mass., 2007, 1614; II, 29 marzo 2007 n. 7702, id., 2007, 612, che configurano il vizio di costituzione del giudice, ai fini dell’art. 158 c.p.c., nel solo caso di atti giurisdizionali posti in essere da persona estranea all’ufficio; negli stessi termini è la più recente giurisprudenza amministrativa, da ultimo, Cons. Stato, VI, 23 febbraio 2009 n. 1049 cit.).

Anche l’interesse morale non patrimoniale, purché personale, può essere dedotto come motivo di astensione (in questo senso si pone il problema dell’interesse politico derivante dalla partecipazione del magistrato ad associazioni o movimenti o partiti politici; sembra ammettere la possibilità della astensione obbligatoria CCost, ord., 22 giugno 1983 n. 187, in FI, 1983, I, 3140 che ha dichiarato manifestamente inammissibile, perché il giudice a quo non fa propria l’interpretazione delle norme denunziate né sostiene che tale sia il diritto vivente, la questione di legittimità costituzionale degli art. 51 e 52 c.p.c., nella parte in cui consentono interpretazioni che impongono al giudice di astenersi e rendono ammissibile la ricusazione anche quando il giudice abbia un interesse meramente politico alla controversia, in riferimento agli art. 2 e 101 Cost.; contra CC,  I, ord. 12 ottobre 2002 n. 14573, in Mass., 2002, fattispecie relativa a giudice iscritto all’associazione magistratura democratica).

 

2.1.2. Essere il giudice o il coniuge parente fino al quarto grado di una delle parti in causa o di alcuno dei difensori o essere legato da vincoli di affiliazione, o convivente o commensale abituale.

Vengono in evidenza ipotesi di parzialità basate sui rapporti con le parti che potrebbero determinare predisposizioni favorevoli nei loro confronti.

Nella formulazione originaria la norma faceva riferimento alla moglie, ma dopo l’abrogazione del divieto di accesso delle donne in magistratura, il giudice delle leggi ha precisato che tale obbligo sussiste anche per la donna magistrato (CCost, 7 febbraio 1986 n. 37, in FI, 1986, I, 861, con nota di pizzorusso).

È stata invece ritenuta inammissibile, poiché comportante valutazioni discrezionali riservate al legislatore, la questione di legittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui, mentre impone al giudice di astenersi quando il proprio coniuge sia parente fino al quarto grado di una delle parti o di alcuno dei difensori, non prevede l’obbligo di astenersi per il giudice che sia rispetto ad essi affine in grado corrispondente, quando l’affinità sia acquisita attraverso fratelli o sorelle (CCost, 7 febbraio 1986 n. 37 cit.).

Mentre si esclude dall’ambito della norma il mero rapporto di filiazione naturale, è controverso il concetto di convivente e commensale abituale; intendendosi per lo più, con tale definizione, i sodali di una cerchia ristretta di persone che vivono in familiarità, uniti dagli stessi interessi ovvero collegati da una specifica affectio (zucconi galli fonseca, 161 ss.).

E’ stata esclusa tout court la ricorrenza di tale causa di incompatibilità per il solo fatto che un magistrato amministrativo sia chiamato a decidere una controversia di cui sia parte un altro magistrato amministrativo, ovvero perché sia legato a quest’ultimo da rapporti di collaborazione scientifica (Cons. Stato, IV, ord. 28 maggio 2009 n. 3346, in GIUR AMM, 2009, I, 807, fattispecie relativa ad istanza di ricusazione rivolta nei confronti di tutti i componenti del Consiglio di Stato chiamati a giudicare di una controversia che opponeva magistrati amministrativi; si è evidenziato come sia del tutto fisiologico ed in linea con i dettami costituzionali che le cause penali siano sempre decise dai giudici penali, quelle tributarie dai giudici tributarie ecc. ecc., anche quando parte del processo sia un magistrato appartenente alla medesima giurisdizione).

 

 

2.1.3. Avere il giudice o il coniuge causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei difensori.

La norma si riferisce a relazioni che inducono a predisposizioni sfavorevoli nei confronti di una delle parti.

Ciò si verifica in primis quando il giudice venga denunciato o sia bersaglio di azione civile (anche in sede penale); il concetto di causa pendente va esteso a qualsiasi tipo di procedimento, speciale, di esecuzione ecc. (zucconi galli fonseca, op. cit., 161).

Il giudice delle leggi ha ritenuto che detta norma non violi l’art. 3 Cost., nella parte in cui non introduce, a differenza di quanto previsto in materia di esercizio dell’azione civile verso il giudice, la possibilità di valutare la manifesta infondatezza dell’azione proposta contro il magistrato che dovrebbe astenersi (CCost, 1 luglio 1993 n. 298, in CS, 1993, II, 1159, che fa leva anche sulla impossibilità di introdurre un filtro di ammissibilità con una pronuncia additiva).

Lo stato di inimicizia non può essere solo rappresentato o vissuto a livello di percezione unilaterale e priva di qualsivoglia riscontro, ma va dedotto e provato in relazione a circostanze concrete e significative (Cons. Stato,  IV, 15 maggio 2000 n. 2766, in CS, 2000, I, 1230 ); in quest’ottica si esclude che l’appartenenza di un magistrato ad una associazione politica ex se integri il requisito della grave inimicizia nei confronti della parte che appartenga ad altra area politica (CC,  I, ord.12 ottobre 2002 n. 14573 cit.).

L’ipotesi di grave inimicizia tra il giudice e la parte va verificata solo in relazione a rapporti estranei al processo, non potendo essa ravvisarsi nel trattamento (ritenuto sfavorevole ed iniquo) riservato alla parte nel corso del giudizio (Cons. Stato,  IV, ord. 19 giugno 2007 n. 3308, in FI, 2007, III, 609, con nota di travi;  IV, 19 giugno 2003 n. 3658, id., Rep. 2003, voce Astensione, ricusazione n. 32;  IV, 1 febbraio 2001 n. 422, id., Rep. 2001, voce cit., n. 41); né è sufficiente richiamare un disagio derivante dalla deroga da un precedente indirizzo interpretativo, poiché l’inimicizia deve riguardare rapporti estranei al processo e non può consistere in comportamenti processuali del giudice ritenuti anomali dalla parte (CC, SU, ord. 8 ottobre 2001 n. 12345, in FI, 2002, I, 1613, con nota di scarselli, La ricusazione tra terzietà del giudice e indipendenza della magistratura).

Si ritiene sufficiente, ai fini dell’applicabilità della norma in questione, che sussista fra il giudice e la parte un rapporto di credito o debito e non un effettivo credito o debito, sicché rientrerebbero nel fuoco della norma le ipotesi di credito dipendente da rapporti continuativi ad es. affitto, contratto d’opera, mutuo ( zucconi galli fonseca, op. cit., 162).

Non è stato ravvisato alcun profilo di incompatibilità nei rapporti di collaborazione scientifica, editoriale, convegnistica e formativa correnti fra magistrati amministrativi (Cons. Stato, VI, ord. 29 dicembre 2009 n. 125 cit., ha escluso che un magistrato debba astenersi dal giudicare, in sede di revocazione, della decisione resa da un collega con il quale collabori a livello scientifico e formativo non potendosi configurare un rapporto di credito fra i due; è stata anche dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51 e 53 c.p.c., sollevata in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui non contemplano, per l’ipotesi su detta, l’obbligo di astensione).

L’opinione tradizionale esclude che la dipendenza del giudice dallo Stato gli inibisca di trattare controversie in cui sia parte quest’ultimo o altro ente pubblico cui sia collegato per ragioni di residenza (ad es. comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo ipotizzabile che il giudice possa essere portato, a seconda dei casi, ad avvantaggiare o danneggiare il proprio debitore o creditore (caianiello, op. cit., 343).

 

 

2.1.4.  Avere il giudice, nella medesima causa, dato consiglio, prestato patrocinio, deposto come teste, prestato assistenza come consulente tecnico, conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro.

La norma ricomprende sia l’ipotesi in cui il giudice abbia espresso un parere sulla causa e anteriormente ad essa, sia il caso in cui abbia già conosciuto la questione in un altro grado del processo; la ratio è quella di evitare i condizionamento derivanti, a qualunque titolo, dalla <<forza della prevenzione>>

Sotto tale angolazione, nel processo civile, si esclude l’obbligo di astensione:

a) nel caso in cui il giudice abbia conosciuto della causa in un processo distinto (CC, 9 luglio 1983 n. 4642, in Mass. 1983);

b) se ha giudicato in una controversia solo analoga (CC,  I, 27 dicembre 1996 n. 11505, in Mass., 1996), ancorché concernente le stesse parti ed implicante la risoluzione di identiche questioni (CC, SU, ord. 8 ottobre 2001 n. 12345, cit).

Il requisito dell’«aver conosciuto» presuppone la partecipazione ad una decisione di merito, non bastando la mera attività di istruzione della causa (CC,  II, 27 marzo 2001 n. 4412, in Mass. 2001; III, 9 febbraio 1998 n. 1323, in FI, 1999, I, 3376, con nota critica di cipriani), ovvero la delibazione della competenza (CC, III, 10 marzo 2009 n. 5753, GIUR AMM, 2009, I, 205, relativa alla partecipazione di un magistrato ad una decisione dichiarativa di incompetenza poi annullata dalla Corte di cassazione e nuovamente investito del giudizio di primo grado).

Quanto alla nozione di «altro grado» una tendenza evolutiva, imperniata sulla valorizzazione del nuovo testo dell’art. 111 Cost., supera le strettoie del dato letterale ritenendo che possa intendersi come tale anche il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario, quando per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiude la prima fase e per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi nel rispetto del principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate, il secondo assume il valore di vera e propria impugnazione (CCost, 23 dicembre 2005 n. 460, in FI, 2006, I, 639, con nota di fabiani, Terzietà del giudice fallimentare: sintonie e asimmetrie fra Consulta e legislatore, in materia di opposizione alla dichiarazione di fallimento; 15 ottobre 1999 n. 387, id., 1999, I, 3441, in materia di opposizione a decreto di repressione della condotta antisindacale, ex art. 28, l. n. 300 del 1970).

Viceversa si esclude l’applicabilità della norma allorquando sia lo «stesso ufficio giudiziario» che ha reso la pronuncia oggetto di impugnazione, competente a decidere nuovamente; in quest’ottica si è ritenuto che i magistrati che hanno pronunciato la sentenza di appello impugnata per revocazione ex art. 395 c.p.c. possono fare legittimamente parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio (CC,  lav., 12 settembre 2006 n. 19498, in FI, 2007, I, 640, con nota adesiva di barone, che da conto della prassi invalsa presso la Corte di cassazione che, da quando è stata introdotta con l’art. 391 bis c.p.c. la revocazione delle proprie sentenze, osserva rigidamente la regola secondo cui delle istanze di revocazione conoscono le stesse sezioni che hanno emanato le decisioni impugnate, ma i collegi giudicanti sono sempre costituiti da magistrati completamente diversi da quelli che avevano adottato le pronunzie impugnate per revocazione); lo stesso è a dire per l’opposizione di terzo (CC,  II, 19 novembre 1992 n. 12373, in Mass., 1992), per il giudizio di rinvio restitutorio, per l’opposizione a decreto ingiuntivo e nel caso di sentenza resa dopo ordinanza post istruttoria ex art. 186 quater, c.p.c. (CCost, ord. 31 maggio 2000 n. 168 in FI, 2000, I, 2425); per il giudizio di rinvio <<prosecutorio>>, invece, nel presupposto che la norma sancita dall’art. 383, co. 1, c.p.c. imponga inderogabilmente il rispetto del principio di alterità del <<giudice persona fisica>> e del <<giudice ufficio>> (quantomeno a livello di collegio o sezione diversa), si è ritenuto che la violazione di tale regola determini un vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. e come tale non obblighi (ma facoltizzi) la parte all’onere sancito dall’art. 52 c.p.c., fermo restando che tale vizio, ove non rilevato d’ufficio o su eccezione, non si sottrae al principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione (CC, SU, 27 febbraio 2008 n. 5087, in FI, 2008, I, 2557).

Relativamente al processo amministrativo, è stata ritenuta inconfigurabile una situazione di incompatibilità nei confronti del giudice della fase cautelare a partecipare anche alla decisione di merito della controversia (CCost, ord. 21 ottobre 1998 n. 359, in FI, 1998, I, 3033; successivamente  Cons. Stato, V, 14 aprile 2008 n. 1660, in FA-CS, 2008, 1122; tale conclusione trova il suo immediato precedente nella declaratoria di infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 c.p.c. nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione nella causa di merito per il giudice civile che abbia concesso una misura cautelare ante causam, in riferimento all’art. 24 Cost. (Cons. Stato,  VI, 9 novembre 2001 n. 5733, in FI, Rep. 2002, voce Astensione, ricusazione n. 36; CCost, 7 novembre 1997 n. 326, id., 1998, I, 1007, con nota di scarselli, Terzietà del giudice e Corte costituzionale); in via analogica si ritiene che non si verifichi incompatibilità nel caso in cui il magistrato pronunciatosi in sede di sospensiva quale componente di un collegio del Consiglio di Stato, sia successivamente transitato al Tar e debba decidere la medesima causa nel merito (travi, Formulario,  280).

In passato, nel caso di regressione del processo al giudice di primo grado per erronea declinatoria della giurisdizione, si escludeva che il componente del collegio che avesse partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la nuova causa (Cons. Stato, VI, 4 aprile 2005 n. 1477, in FI, Rep. 2005, voce Astensione, ricusazione n. 22, che ha anche dichiarato manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalità richiamando CCost, 24 luglio 1998 n. 341, id., 1998, I, 2329 pronunziatasi su ipotesi di rinvio ex art. 354 c.p.c.); successivamente, in adesione agli argomenti sviluppati dalle citate sezioni unite del 2008, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha configurato l’obbligo di astensione sia nel caso di annullamento con rinvio, sia nel caso di giudizio di revocazione, mentre lo ha escluso per i casi di opposizione di terzo e di giudizio cautelare (Cons. Stato, Ad. plen., 25 marzo 2009 n. 2, in FI, 2009, III, 323).

E’ stato ipotizzato in astratto, sebbene escluso nel caso concreto, che la formulazione da parte di un giudice amministrativo, in sede scientifica ed all’esito di una puntuale analisi critica, di apprezzamenti favorevoli sopra una sentenza resa da altro collega, integri la causa di incompatibilità in esame, inibendo al magistrato stesso di decidere sulla relativa impugnativa (Cons. Stato, VI, ord. 28 dicembre 2009 n. 125 cit.).

 

2.1.5. Essere stato il giudice tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; amministratore o gerente di un ente, di una associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che abbia interesse nella causa.

Tutte le ipotesi previste presuppongono, fra il giudice e le parti, un vincolo di tendenziale permanenza; si pensi ai rapporti di collaborazione domestica o di consulenza (dove si discute se possano essere ricompresi nel concetto di agenzia se lo si individua in senso ampio e non con riferimento esclusivo all’art. 1742 c.c.; l’art. 10, l. 21 novembre 1991 n. 374 prevede l’obbligo di astensione per il giudice di pace che abbia avuto o abbia rapporti di lavoro autonomo o collaborazione con una delle parti).

Non è configurabile tale ipotesi di astensione e ricusazione allorquando la situazione di fatto sia riferibile non a una o più persone fisiche componenti di un organo giurisdizionale, ma all’organo stesso, in quanto ciò comporterebbe il pericolo di uso distorto dell’istituto e l’irrimediabile paralisi della funzione, rimessa alla mera volontà di una delle parti (Cons. Stato,  IV, 20 luglio 2007 n. 4100, in FA-CS, 2007, 2166, fattispecie relativa all’impugnativa, da parte di un dipendente del plesso della giustizia amministrativa, di una graduatoria approvata dal segretariato generale della giustizia amministrativa, in cui il ricorrente ha sostenuto che nessun componente del Consiglio di Stato potesse decidere sul ricorso in questione, versando tutti in una situazione di incompatibilità).

 

 

2.2. Astensione facoltativa.

 

In presenza di gravi (e innominate) ragioni di convenienza il giudice può richiedere al capo dell’ufficio di appartenenza l’autorizzazione ad astenersi.

La discrezionalità riguarda soltanto l’apprezzamento delle ragioni che giustificano l’astensione e non quest’ultima che, qualora il giudice ne ravvisi i motivi, è sempre obbligatoria (zucconi galli fonseca, op. cit., 162).

Si è posto il problema della integrabilità dell’elenco tassativo di cui al primo comma dell’art. 51 c.p.c., con le situazioni di incompatibilità previste dalla legge, sulla falsariga di quanto si verifica nel processo penale (l’art. 36, lett. g), c.p.p. impone al magistrato l’astensione ogni volta che versi in una situazione di incompatibilità prevista dall’ordinamento giudiziario). La risposta è sostanzialmente positiva ove si tenga presente che le varie tipologie di incompatibilità possono integrare la clausola generale delle «gravi ragioni di convenienza» attraverso il richiamo analogico al meccanismo tipizzato dall’art. 36, lett. g), c.p.p. (mandrioli, op. cit., 292 ).

È stata dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 51, co. 2, nella parte in cui attribuisce al capo dell’ufficio un potere di diniego della richiesta di astensione, anche quando la grave ragione di convenienza riguardi il difetto (o il pericolo) di imparzialità, e non prevede il diritto del giudice ad astenersi, ovvero la possibilità delle parti di ricusare il giudice che non sia stato autorizzato ad astenersi (CCost, ord. 16 aprile 1999 n. 123, in FI, 1999, I, 2462 ).

 

 

3. Il procedimento di ricusazione.

3.1. Disciplina normativa.

Si riporta una sintesi della precedente normativa (artt. 48 e 50 reg. proc. Cons. St.), inerente il procedimento di ricusazione.

L’istanza di ricusazione:

a)  deve essere proposta almeno tre giorni prima dell’udienza designata ovvero anche oralmente e fino all’inizio della discussione davanti al collegio se non sono noti i componenti del collegio medesimo;

b) deve essere proposta direttamente al presidente della sezione o dell’ad. plen.;

c)  deve indicare (rigorosamente) i motivi di ricusazione ed i mezzi di prova delle circostanze che fondano tale richiesta;

d) deve essere sottoscritta dalla parte personalmente o da avvocato munito di procura speciale (Cons. Stato, VI, 28 dicembre 2009 n. 125 cit., che giustifica la necessità di una procura speciale,  ad hoc, non essendo sufficiente neppure quella speciale ma rilasciata nel contesto del mandato a margine del ricorso introduttivo del giudizio, atteso che la proposizione della ricusazione è collegata alla specifica contingenza relativa alla composizione del collegio resa nota solo nella prossimità dell’udienza);

e)  viene decisa dallo stesso giudice adito secondo il rito camerale;

f)  non determina la sospensione del procedimento principale;

g) se diretta contro il funzionario incaricato dell’assunzione del mezzo istruttorio deve essere proposta entro tre giorni dalla pubblicazione della decisione o del provvedimento di delegazione (ma in caso
di urgenza il presidente può provvedere alla sostituzione di quest’ultimo e in tal caso il funzionario viene avvisato immediatamente dal segretario e deve rendere delucidazioni sui motivi di ricusazione);

h) in caso di rigetto della istanza la parte (ma non quella pubblica)
è condannata ad una sanzione amministrativa pecuniaria fino ad euro 15 (la norma ha una chiara funzione deterrente e la deroga in favore della p.a. si giustifica soltanto in ragione della necessità di valorizzare lo spirito collaborativo e non punitivo nei rapporti fra pubblici poteri, in termini giovannini, op. cit., 299; si segnala che la norma analoga sancita dall’art. 54, co. 3, c.p.c. è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede che il giudice possa e non debba condannare al pagamento della sanzione, ciò in quanto la necessarietà della sanzione non permette una valutazione delle condizioni del caso concreto determinando una irragionevole compromissione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.,  CCost, 21 marzo 2002 n. 78, in FI, 2002, I, 1614);

i)          l’accoglimento dell’istanza non ha effetto sugli atti anteriori (tale previsione viene interpretata letteralmente, nel senso che la violazione del dovere di astensione sia irrilevante fino all’accoglimento dell’istanza di ricusazione, Cons. Stato, V, 30 luglio 1982, in CS, 1982, I, 891; contra travi, Commentario 516, secondo cui tutti gli atti processuali, ma solo quelli, svolti con la partecipazione del giudice incompatibile sono nulli, anche se precedenti l’accoglimento dell’istanza).

La distinzione, per il processo amministrativo, fra la disciplina del procedimento per la decisione sull’istanza di ricusazione (dettata in modo specifico dagli illustrati artt. 48-50 cit. che hanno natura di atto legislativo, CCost, 9 dicembre 2005 n. 441, in FI, 2006, I, 647) e la individuazione dei casi di ricusazione (demandata al c.p.c. dall’art. 47 del reg. proc. Cons. St.), costituiva un dato acquisito (da ultimo Cons. Stato,  IV n. 3308 del 2007, cit.; tale distinzione è stata sottolineata in precedenza da Cons. Stato,  IV, ord. 30 gennaio 2001 n. 709 e  IV, 17 febbraio 2000 n. 911, in FI, 2001, III, 269 e 285, che hanno evidenziato le peculiarità del procedimento di ricusazione caratterizzato da un ritmo serrato, dalla mancanza di una previsione espressa di sospensione e di divieto di partecipazione dell’interessato alla decisione della relativa istanza; sul punto v. le osservazioni esageratamente critiche di scarselli, La terzietà e l’indipendenza dei giudici del CS, ibidem, 269).

 L’art. 18 c.p.a. ha significativamente riformato la disciplina del procedimento di ricusazione; queste le novità rispetto alla disciplina previgente:

a)           facoltà del giudice, chiamato a decidere sulla controversia principale, di sospenderne il corso in attesa della definizione dell’incidente di ricusazione;

b)           previsione di una fase eventuale del procedimento di ricusazione destinata alla delibazione dell’inammissibilità e manifesta infondatezza della domanda di ricusazione ai fini della sospensione del giudizio principale;

c)           definizione del procedimento di ricusazione con ordinanza (la precedente disciplina faceva riferimento generico alla decisione), entro trenta giorni dalla proposizione della domanda, sentito in ogni caso il magistrato ricusato (la norma non stabilisce, a differenza di prima, se il procedimento di ricusazione si svolga in camera di consiglio o in udienza pubblica; nel silenzio serbato sul punto dagli artt. 18 e 87 c.p.a., potrebbe ritenersi che: I) il rito acceda a quello della controversia principale nel corpo della quale si innesta l’incidente di ricusazione, ove si ritenga la natura giurisdizionale del procedimento infra § 3.7.; II) il procedimento abbia natura schiettamente amministrativa e dunque a monte non si pone il dilemma della scelta del rito processuale);

d)          impossibilità per il magistrato ricusato di deliberare la decisione definitiva sulla domanda di ricusazione;

e)           sanzione della nullità degli atti compiuti successivamente alla proposizione della domanda di ricusazione, ma solo in caso di accoglimento di quest’ultima (viene in rilievo una ipotesi di invalidità processuale sopravvenuta);

f)            previsione della condanna alla refusione delle spese dell’incidente cautelare (da disporsi evidentemente in favore delle controparti sostanziali nei cui confronti si ammette una qualche forma di contraddittorio anche solo eventuale, ad es. a mezzo di produzione di note o documenti);

g)           piena parità delle parti in relazione alla condanna facoltativa alla pena pecuniaria;

h)           inammissibilità della ricusazione dei giudici chiamati a decidere della ricusazione;

i)             eliminazione della ricusazione del funzionario istruttore (in linea con la riforma complessiva del regime dell’istruttoria, si evidenzia che gli ausiliari del giudice  possono essere ricusati ai sensi degli artt. 20 e 21 c.p.a.).

 

3.2. Organo competente a decidere sulla istanza di ricusazione.

La decisione sulla domanda di ricusazione, nell’ordinamento processuale amministrativo, compete al medesimo ufficio giudiziario cui appartiene il giudice ricusato, e non al giudice di grado superiore; pertanto, anche nel caso in cui sia stata proposta domanda di ricusazione nei confronti di tutti i componenti del collegio di un tribunale amministrativo, spetta allo stesso tribunale (e non al Consiglio di Stato), decidere sull’ammissibilità di tale istanza (Cons. Stato, IV, 3 novembre 2008, n. 5469 in GIUR AMM, 2008, I, 1500; IV, ord. 12 giugno 2007 n. 3308, cit., che ha qualificato come abnorme l’ordinanza del Tar che aveva disposto la trasmissione degli atti al Consiglio di Stato affinché decidesse sull’istanza di ricusazione, il supremo consesso ha affermato che un siffatto provvedimento decampa dai poteri giurisdizionali esercitabili ex lege, risolvendosi in una abdicazione dall’esercizio della relativa funzione).

 

3.3. La verifica dell’ammissibilità e della manifesta infondatezza  dell’istanza di ricusazione.

Nel vigore della precedente disciplina, il Consiglio di Stato è stato fermo nel ritenere che il collegio, benché uno o più dei suoi componenti fossero stati ricusati, dovesse procedere ugualmente alla verifica dell’ammissibilità della domanda di ricusazione, ovvero alla verifica di tutte le condizioni prescritte dalla legge per ritenere correttamente proposta l’istanza sotto il profilo del rispetto delle formalità di rito, e della rappresentazione di una fattispecie legale idonea ad incardinare la disamina nel merito del prospettato incidente, nonché l’adempimento dell’onere della prova.

Una volta superato il vaglio di ammissibilità, i singoli componenti del collegio valuteranno se avvalersi dell’istituto dell’astensione, fermo restando, ove necessaria, l’applicazione di altri giudici per integrare il collegio che ne fosse rimasto sprovvisto (Cons. Stato,  IV, ord., 12 giugno 2007 n. 3308, cit. dove si sottolinea la circostanza che qualora la domanda di ricusazione sia diretta nei confronti di tutti i componenti del collegio di un Tar, non si determina una competenza del Consiglio di Stato (fra l’altro, non prevista da alcuna legge) a decidere su tale domanda). Con tale soluzione la giurisprudenza ha fornito una interpretazione delle norme processuali capace di mediare fra la lettera delle norme (e l’esigenza di evitare strumentalizzazioni ed abusi dell’incidente ricusatorio), da un lato, ed il valore della terzietà del giudice a mente dell’art. 111 Cost. dall’altro (non si è mancato di affermare che, anche dopo la novella dell’art. 111 Cost., il giudice ricusato è legittimato a giudicare relativamente alla ritualità ed ammissibilità dell’istanza di ricusazione onde evitare l’abuso dell’istituto, esigenza questa che si manifesta più acuta nelle ipotesi di ricusazione c.d. di «massa», ovvero dell’intero collegio giudicante o dell’intero ufficio giudiziario,  Cons. Stato, IV, 28 maggio 2009 n. 3346 cit.; IV, ord. 12 giugno 2007 n. 3308 cit.; in dottrina in senso conforme caianiello, op. cit., 342).

Nel caso in cui - superato positivamente il vaglio di ammissibilità e manifesta infondatezza, o astenutisi spontaneamente i magistrati interessati - anche il giudice chiamato a pronunciarsi sul merito della istanza venga fatto oggetto di ricusazione, in passato si è fatto ricorso, in via analogica, alla norma sancita dall’art. 40, co. 3, c.p.p. che vieta tale seconda ricusazione (Cons. Stato,  IV n. 6370 del 2006 cit.; CC, SU, 9 marzo 2006 n. 5041, in GC, 2006, I, 516 ).

Ad analoghi approdi ermeneutici è pervenuta la giurisprudenza civile (CC, SU, 23 novembre 2009 n. 24591, in FI, 2010, I, 438, con nota critica di barone; che dà conto della contraria prassi instaurata di recente dal presidente della Corte di cassazione in forza della quale le istanze di ricusazione dei consiglieri della corte medesima sono esaminate da collegi diversi ed i ricorsi principali sottostanti sono decisi solo dopo la dichiarazione di inammissibilità dell’istanza; CCost, ord. 18 marzo 2005 n. 115, id., 2006, I, 678; CC,  III, 30 novembre 2005 n. 26089, in Mass., 2005; SU, 19 aprile 2002 n. 5729, in Mass., 2002;  I, 22 febbraio 2000 n. 1989, in FI, 20001, I, 1356; SU, 11 aprile 1959 n. 1070, id., 1959, I, 958).

La nuova disciplina sancita dall’art. 18 in esame consolida parzialmente la pregressa elaborazione giurisprudenziale perché:

a)          scinde il giudizio sulla ricusazione in due fasi, la prima - eventuale e con funzione di filtro in vista della prosecuzione del processo principale – avente ad oggetto gli aspetti di inammissibilità ed infondatezza, la seconda - necessaria – destinata alla definizione del merito della ricusazione;

b)          positivizza il divieto di ricusazioni di secondo grado.

 

 

3.4. Sospensione del giudizio principale.

Come già visto, si è negato in passato che la proposizione dell’istanza di ricusazione comportasse la sospensione automatica del processo principale all’interno del quale si innesta l’incidente ricusatorio (Cons. Stato,  IV, 28 maggio 2009 n. 3346 cit.; IV, n. 3308 del 2007 cit.); questa eventualità è rimessa, dall’art. 18, co. 4, al prudente apprezzamento del collegio investito della controversia sostanziale.

 

 

3.5. Mezzi di gravame.

Nella vigenza della precedente normativa, la tesi più risalente e conservatrice riteneva inammissibile sia l’impugnativa dell’ordinanza che decide sulla revocazione, sia della sentenza che chiude il processo principale (per mancato accoglimento dell’istanza di ricusazione), perché altrimenti si sarebbe surrettiziamente resa impugnabile l’ordinanza che decide sulla ricusazione (giovannini, op. cit., 300; caianiello, op. cit., 319); successivamente si è data per scontata l’appellabilità della sentenza che chiude il giudizio nel corso del quale è stato sollevato con esito negativo l’incidente di ricusazione (Cons. Stato, Ad. plen., 25 marzo 2009 n. 2 cit.); si è altresì ritenuto che le ragioni collegate ai motivi di ricusazione del giudice di primo grado possono essere utilizzate per formulare motivi di gravame contro le sentenze del Tar solo nella misura in cui si riesca a provare l’effettiva situazione di incompatibilità del giudice ricusato (Cons. Stato,  IV, 19 aprile 2001 n. 2377, in FA, 2001, 839); circa l’impatto della nuova disciplina sulla questione in esame infra §3.7.

Nel processo civile la proponibilità dei mezzi ordinari di impugnazione è espressamente esclusa dall’art. 53, co. 2, c.p.c., ma la parte che si lamenta per il mancato accoglimento dell’istanza può impugnare la sentenza che chiude il relativo giudizio (CC, SU, 27 febbraio 2008 n. 5087 cit.).

 

 

3.6. Conseguenze della mancata proposizione dell’istanza di ricusazione.

Ove non sia stata proposta istanza di ricusazione, si controverte sulla possibilità che la violazione del dovere di astensione del giudice possa essere dedotta come motivo di impugnazione della sentenza; per una prima tesi ciò non sarebbe mai possibile (Cons. Stato, VI, 23 febbraio 2009 n. 1049 cit., che richiama espressamente le conclusioni raggiunte, circa la discrezionalità della legge nell’attuazione del principio del giusto processo e la necessità di evitare facili strumentalizzazioni, da CCost. 15 gennaio 1999 n. 387, in FI., 1999, I, 3441); un secondo indirizzo fa salvo il caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella posizione sostanziale di parte (Cons. Stato,  IV, 12 marzo 1996 n. 334, in CS, 1996, I, 383 ); per le posizioni della  giurisprudenza civile retro § 2.1.1.

 

 

3.7. Natura giuridica del procedimento di ricusazione.

Avuto riguardo al procedimento di ricusazione disegnato dal c.p.c., la giurisprudenza è stata costantemente orientata nel senso della sua natura sostanzialmente amministrativa (CC, III, 18 novembre 2008 n. 27404, in GIUR AMM, 2009, III, 921, che ne fa discendere l’inammissibilità della notificazione dell’istanza di ricusazione al giudice ricusato ed alle controparti della lite sostanziale; CC, I, 1 febbraio 2002 n. 1285, in FI, 2002, I, 1612).

Più di recente, sotto gli stimoli della dottrina che ha evidenziato come la Costituzione attribuisca a ciascuna parte il diritto soggettivo al giudice imparziale (di cui si postula la tutelabilità giurisdizionale), la Cassazione ha mutato orientamento riconoscendo al procedimento in questione natura giurisdizionale, incidentale e non definitiva, con la conseguenza che la relativa questione può essere riesaminata in sede definitiva e anche di impugnazione (CC, SU, 20 novembre 2003 n. 17636, in Guida al dir., 2003, fasc. 50, 20, con nota di finocchiaro: a) nega sia la natura amministrativa del provvedimento che decide sull’istanza, sia la definitività dello stesso in quanto indirettamente impugnabile con la sentenza che chiude il processo principale; b) conseguentemente ritiene inammissibile la proposizione del ricorso ex art. 111 Cost. e impossibile il rinvio al primo giudice che abbia errato nel non accogliere l’istanza decidendo nel merito; c) respinge come manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalità; successivamente in termini CC, SU, 27 febbraio 2008 n. 5087 cit.; nel senso, invece, della impugnabilità immediata ai sensi dell’art. 111 Cost., per ragioni di economia processuale, PANZAROLA, 390 ss.).

Relativamente al processo amministrativo, non si registrano in giurisprudenza analoghe prese di posizione, rimanendo pacifica la natura non giurisdizionale del procedimento in questione (Tar Abruzzo, 8 gennaio 1999 n. 7, in DP AMM, 2000, 840).

La dottrina più recente, viceversa, anche facendo leva sulle suggestioni derivanti dal novellato art. 111 Cost. (retro § 1.4.) riconosce natura giurisdizionale al procedimento di ricusazione (di carlo, op. cit., 724; de carolis, La ricusazione nel processo amministrativo, in DP AMM, 2000, 840).

Le novità introdotte in materia dal c.p.a., capaci di sostenere la tesi della natura giurisdizionale del procedimento in quanto ispirate alla realizzazione del giusto processo (come espressamente riferito nella Relazione illustrativa), sono:

j)             l’impossibilità per il magistrato ricusato di deliberare la decisione definitiva sulla domanda di ricusazione;

k)           la sanzione della nullità (da intendersi come processuale) degli atti compiuti successivamente alla proposizione della domanda di ricusazione, se accolta;

l)             la previsione della condanna alla refusione delle spese (da disporsi evidentemente in favore delle controparti sostanziali), che evoca la medesima nozione di incidentalità del giudizio cautelare (e la connessa impugnabilità delle relative ordinanze);

m)         la piena parità delle parti in relazione alla condanna alla pena pecuniaria;

n)           l’inammissibilità della ricusazione dei giudici chiamati a decidere della ricusazione.

Gioca contro tale riconoscimento il dato testuale e la mancata indicazione, nel corpo della norma, del tipo di udienza (pubblica o camerale) e del conseguente rito che dovrebbe disciplinare, in via sussidiaria, il procedimento di ricusazione.

In realtà, per il processo amministrativo, la questione è più teorica che pratica; nel processo civile, come si è visto, dalla natura giurisdizionale del procedimento si fanno discendere conseguenze importanti in merito alla impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

In quello amministrativo, invece, assodato che la violazione della disciplina legale in materia di ricusazione e astensione non attiene ad una questione di giurisdizione integrando un error in procedendo e dunque il superamento dei c.d. limiti interni alla stessa, (CC, SU, 13 luglio 2006 n. 15900, in FI, 2007, I, 477; DE NICTOLIS, 1524), è automaticamente messo fuori gioco lo strumento del ricorso in cassazione sia avverso le pronunce del Consiglio di Stato che dei T.a.r. (pure insuscettibili di essere gravate mediante regolamento di giurisdizione); per quanto concerne l’appello davanti al Consiglio di Stato, invece, è la nuova sistematica del codice che sembra escluderne l’ammissibilità; nel rigoroso rispetto del principio di tipicità dei mezzi di impugnazione e dei provvedimenti reclamabili, infatti, tali mezzi possono essere proposti solo nei confronti di sentenze, ex art. 91 c.p.a., e non di ordinanze,  prive come sono in linea generale, di contenuto decisorio (art. 33, co. 1, lett.b); le deroghe a tale fondamentale precetto sono tutte tipizzate dal c.p.a. (art. 16, co. 3, sulla impugnabilità dell’ordinanza che statuisce sulla competenza; art. 85, co. 7, sulla impugnabilità dell’ordinanza che decide sull’opposizione avverso il decreto presidenziale decisorio), che nulla dispone in ordine alla diretta appellabilità dell’ordinanza che chiude l’incidente di ricusazione; in prospettiva, uno spazio di interesse pratico residuo potrebbe configurarsi ove si ammettesse la possibilità di far valere il vizio di omessa ricusazione come causa di nullità della sentenza onde ottenerne l’annullamento con rinvio al primo giudice a mente dell’art. 105 c.p.a. Rimangono sullo sfondo le altre conseguenze (pur importanti) che discendono dall’adesione all’una o all’altra tesi (proponibilità dell’incidente di costituzionalità, applicabilità della disciplina in materia di responsabilità civile del giudice per il cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, rinvio all’adunanza plenaria ecc.).

 

4. Il procedimento di astensione.

Il procedimento di astensione è disciplinato dal combinato disposto degli artt. 51, c.p.c. e 78 disp. att. c.p.c. cui fa implicito riferimento l’art. 17 c.p.a.; in passato si è ritenuta pacificamente l’applicabilità al processo amministrativo dei su indicati artt. del c.p.c. o in virtù del richiamo indiretto operato dall’art. 47 reg. proc. Cons. St., ovvero in via analogica, in mancanza di una disciplina ad hoc (POLI, Manuale cit., 249); l’originario schema della norma in esame elaborato dalla commissione governativa non prevedeva il richiamo espresso alla disciplina del procedimento dettata dal c.p.c.; lo schema è stato modificato su indicazione dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (parere reso nella seduta straordinaria del 5 gennaio 2010)..

Non appena il giudice si avvede dell’insorgenza di un motivo di astensione deve, alternativamente:

a) formulare dichiarazione espressa ove ricorra una delle ipotesi di cui ai nn. da 1 a 5 dell’art. 51 cit. (L’autorizzazione non è quindi necessaria nelle ipotesi di astensione obbligatoria,  CC,  I, 20 febbraio 1998 n. 1842, in Mass., 1998 );

b)  chiedere al capo del proprio ufficio giudiziario l’autorizzazione per gravi ragioni di convenienza.

Il capo dell’ufficio giudiziario, vagliate le ragioni poste a base del­l’istanza, la accoglie o la respinge.

Il provvedimento di autorizzazione è meramente ordinatorio, ha effetto ex nunc ed il relativo procedimento ha carattere amministrativo: da qui l’inammissibilità della questione di costituzionalità dell’art. 51 c.p.c., sollevata in riferimento agli art. 3 e 111 Cost., perché non prevede alcun rimedio contro la decisione del capo dell’ufficio né la forma del provvedimento (CCost, ord. 19 gennaio 1988 n. 35, in FI, 1989, I, 936; contra scarselli, op. cit., 772).

La mancata tempestiva presentazione dell’istanza di astensione, integrando lesione di regole basilari della deontologia professionale nello svolgimento dell’attività giudiziaria, costituisce illecito disciplinare (CC, SU, 22 novembre 2004 n. 21947, in Mass., 2004, fattispecie relativa a relazione sentimentale del giudice con una delle parti o dei difensori); successivamente alla riforma dell’ordinamento giudiziario, e per i soli magistrati ordinari, la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione rientra nel catalogo tipizzato degli illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni – art. 2, co. 1, lett. c), d.lg. n. 109/2006 – (l’illecito si considera  configurabile per ogni ipotesi di violazione dell’obbligo di astensione, quale ne sia la fonte e dunque anche nei casi ulteriori, rispetto a quelli divisati dal c.p.c. e dal c.p.p., previsti da altre leggi, ma non quando l’incompatibilità si ravvisi in generiche cause di convenienza, attesa l’indeterminatezza del presupposto della violazione, FANTACCHIOTTI, op. cit., 133).

Si ritiene, relativamente alla giustizia amministrativa, che per capo dell’ufficio debba intendersi:

a)  per il Consiglio di Stato, il presidente della sezione cui il magistrato appartiene;

b)  per i T.a.r., il presidente del tribunale;

c)  per il T.a.r. del Lazio e per quelli divisi in sezioni, distaccate o anche interne, il presidente della sezione cui appartiene il magistrato che intende astenersi (caianiello, op. cit., 341).

Qualora sia il capo dell’ufficio giudiziario a ravvisare ragioni di opportunità per astenersi in via facoltativa, deve farne richiesta al capo dell’ufficio giudiziario superiore (art. 51, co. 2 cit.).

Il giudice astenuto difetta di legittimazione a conoscere della controversia e non può deciderla; in tal caso la sua ulteriore partecipazione al giudizio, non potendo essere rimossa con lo strumento della ricusazione,
si configura come vizio di costituzione del giudice e la sentenza resa da un collegio cui abbia partecipato il predetto
magistrato è affetta da nullità
ex art. 158 c.p.c. (CC,  II, 12 febbraio 2000 n. 1566, in Giur. it., 2000, 1799;  I, 29 dicembre 1999 n. 14676, in Mass., 1999; Cons. Stato, ad. plen., 3 giugno 1980 n. 20, in FA 1980, I, 1184); in ogni caso, l’eventuale partecipazione alla decisione del magistrato che avrebbe dovuto astenersi ai sensi dell’art. 51, c.p.c. non integra ipotesi di difetto di giurisdizione dell’organo giudicante come tale deducibile ex art. 111 Cost. davanti alle sezioni unite (CC, SU, 13 luglio 2006 n. 15900 cit.; SU, 1 agosto 2005 n. 16107, in CS, 2005, II, 1306, fattispecie relativa a magistrato della Corte dei conti).

L’astensione del giudice non ha effetto sugli atti compiuti in precedenza come sancito dall’art. 18. co. 8, c.p.a. in parte qua riproduttivo dell’art. 50, co. 4, r.d. n. 642/1907.

In caso di astensione immotivata del giudice, poiché il relativo procedimento si esaurisce nell’ambito dei rapporti fra il giudice che si astiene ed il presidente della sezione di appartenenza, la sostituzione del giudice non incide sul principio del giudice naturale sicché di detta astensione non può dolersi la parte in causa (Cons. Stato,  V, 28 gennaio 2005 n. 180, in CS, 2005, I, 78).