Vito Poli
L’astensione e la ricusazione del giudice
amministrativo nel nuovo codice del processo
amministrativo*
*Il presente scritto è tratto dal
COMMENTARIO AL NUOVO
CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO a cura di A. Quaranta e Lopilato in corso di
pubblicazione per i tipi della Giuffrè.
Pubblicato sul Sito il
21 settembre 2010
Bibliografia
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taruffo, Padova, 2006.
Sommario
__________________________________________________________________________________
1. La terzietà del giudice. - 1.1. Incompatibilità
funzionale. - 1.2. Incompatibilità di servizio (ad impieghi o uffici). - 1.2.1.
Magistrati ordinari. - 1.2.2.
Magistrati amministrativi. - 1.3.
Incompatibilità organiche (o di sede). - 1.3.1.
Magistrati ordinari. - 1.3.2.
Magistrati amministrativi. - 1.4. Il fondamento costituzionale ed internazionale del
principio di terzietà del giudice. - 1.4.1.
Le norme
internazionali. - 1.4.2.
L’art. 111 Cost. - 2. Astensione e
ricusazione. - 2.1. Le ipotesi di astensione obbligatoria e ricusazione. -
2.1.1.
Avere
interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto. -
2.1.2.
Essere il
giudice o il coniuge parente fino al quarto grado di una delle parti in causa o
di alcuno dei difensori o essere legato da vincoli di affiliazione, o convivente
o commensale abituale. - 2.1.3.
Avere il giudice o il coniuge causa pendente o grave inimicizia o
rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei difensori. - 2.1.4. Avere il giudice, nella
medesima causa, dato consiglio, prestato patrocinio, deposto come teste,
prestato assistenza come consulente tecnico, conosciuto come magistrato in altro
grado del processo o come arbitro. - 2.1.5.
Essere stato il giudice tutore, curatore, procuratore, agente o
datore di lavoro di una delle parti; amministratore o gerente di un ente, di una
associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o
stabilimento che abbia interesse nella causa. - 2.2. Astensione facoltativa. - 3. Il procedimento di
ricusazione. - 3.1.
Disciplina normativa - 3.2.
Organo
competente a decidere sulla istanza di ricusazione. - 3.3.
La verifica dell’ammissibilità e della non manifesta infondatezza
dell’istanza di ricusazione. - 3.4.
Sospensione del giudizio principale. - 3.5.
Mezzi di
gravame. - 3.6. Conseguenze
della mancata proposizione dell’istanza di ricusazione. - 3.7.
Natura giuridica
del procedimento di ricusazione. - 4. Il procedimento di
astensione.
1. La terzietà del
giudice.
La posizione di assoluta indifferenza ed
equidistanza del giudice dalle pretese delle parti assurge ad elemento
caratteristico strutturale dell’attività che il giudice stesso svolge, a
garanzia sia dell’indipendenza che del prestigio della funzione.
Ben
si comprende come la legge si preoccupi di dettare regole destinate a garantire
comunque tale imparzialità, la cui ratio
è quella di prevenire possibili conflitti di interesse, nel quadro di una più
ampia normativa che configura diverse ragioni di incompatibilità per l’esercizio
della funzione giurisdizionale.
L’istituto dell’incompatibilità
del giudice soddisfa la precipua esigenza di tutelare la sostanza e l’immagine
dell’indipendenza del giudice a qualsiasi ordine appartenga, ferma restando la
discrezionalità del legislatore in ordine alle discipline particolari da
applicarsi ai vari tipi di processo (CCost,
16 febbraio 2006 n.
Tradizionalmente suole distinguersi fra tre diversi tipi di incompatibilità: funzionale, agli impieghi ed alla sede (POLI, Manuale, 225; mandrioli, 291; dittrich, 57 ss.).
Le
ultime due rappresentano forme di incompatibilità in senso proprio. La
ratio
e l’interesse protetto dalle norme che le disciplinano, infatti, attengono a
situazioni che prescindono dal singolo processo e riguardano la tutela
dell’imparziale esercizio della giurisdizione, della par
condicio
tra i professionisti e della credibilità dell’intero ufficio giudiziario
interessato; si tratta, al dunque, di una forma di tutela avanzata
dell’imparzialità della giurisdizione, rivolta alla funzione giudiziaria in
generale a prescindere dalla concreta decisione del caso
singolo.
1.1.
Incompatibilità
funzionale.
Essa
incide sul concreto esercizio dello ius
dicere,
ed è presidiata dalle norme che disciplinano l’astensione e la ricusazione del
giudice relativamente al singolo processo (artt. 51 ss. c.p.c., artt. 17 e
1.2.
Incompatibilità
di servizio (ad impieghi o uffici).
Essa priva il giudice della
possibilità di svolgere determinati incarichi o attività (commerciali,
imprenditoriali, alle dipendenze di privati o enti pubblici) ritenuti non
confacenti all’esercizio della funzione giudiziaria.
La
normativa che determina la possibilità, i limiti, le condizioni e le modalità di
attribuzione di incarichi estranei ai compiti di istituto attiene allo
status
del magistrato, incidendo sull’indipendenza ed imparzialità della funzione
giudiziaria (Cons. Stato, ad.
gen., 7 giugno 1993 n. 58/93, in CS,
1994, I, 269).
1.2.1.
Magistrati
ordinari.
Soccorrono,
per i soli magistrati ordinari, le norme sancite dagli artt. 16 e 17, ord.
giud., e dall’art. 61 e ss. t.u.imp.civ.St. (richiamato dall’art. 16, co. 2,
cit.): viene sancito un divieto generalizzato di assunzione di uffici e
impieghi, pubblici o privati, anche presso società con scopo di lucro, oltre che
di cumulo di più impieghi pubblici; limitate eccezioni sono previste per
l’assunzione del mandato parlamentare, di incarichi in società o enti privi di
scopo di lucro, o comunque gravitanti nell’orbita pubblica.
Tale disciplina risulta
profondamente rimaneggiata dalle previsioni recate dall’art. 53, d. lg. 30 marzo
2001 n. 165 (parzialmente riproduttivo delle corrispondenti norme dettate dal
d.lg. n. 29/1993), che però non ha mai ricevuto attuazione completa,
limitatamente ai magistrati ordinari, non essendo stato emanato lo specifico
regolamento relativo all’individuazione degli incarichi vietati e di quelli
consentiti perché l’organo di autogoverno si è rifiutato di dare corso alla
procedura normativa ritenendo incostituzionale la relativa previsione legale
(CASO, 305; sull’applicabilità
dell’art. 53 cit. ai magistrati ordinari,
Cons. Stato, IV, ord. 2
novembre 2004 n.
A queste previsioni generali si
aggiungono divieti sanciti da norme specifiche quale, ad. es., quello di cui
all’art. 21, co.
1.2.2.
Magistrati
amministrativi.
L’art.
Successivamente,
il regime di equiparazione deve intendersi venuto meno, ex art. 53
d. lg. n. 16572001, che ha diversamente regolato, per le varie magistrature, la
materia delle attività esterne affidandola a specifica fonte regolamentare per
ciascuna di esse. Del resto i magistrati amministrativi non sono assimilabili,
per garanzie di indipendenza e articolazione di carriera, a quelli ordinari
(CC, SU, 29 settembre 2000 n.
Storicamente,
l’impiego dei magistrati amministrativi in attività esterne e, principalmente,
nei gabinetti ministeriali, in uffici consultivi e di alta amministrazione, è un
dato costante nella vita del plesso, tale da diventare un aspetto strutturale e
caratteristico dello status di questi
ultimi, a lungo elemento di differenziazione rispetto agli appartenenti agli
altri grands corps della
Repubblica.
Il regime degli incarichi
extragiudiziari dei magistrati amministrativi è definito da una disciplina molto
variegata, sia per fonte - leggi, regolamenti, atti amministrativi generali, -
sia per oggetto - norme di sistema e interventi
settoriali.
L’art. 53 d. lg. n. 165/2001 reca
la disciplina generale sull’incompatibilità e sul cumulo di impieghi e
incarichi, applicabile a tutti i funzionari pubblici; il
co. 3, che trova specifica applicazione ai magistrati di ogni ordine, rinvia
alla fonte regolamentare, limitandosi a definire una particolare garanzia
procedurale, consistente nel coinvolgimento dell’organo di autogoverno.
Neanche il regolamento attuativo – per la magistratura amministrativa il d.P.R.
6 ottobre 1993 n. 418 - tuttavia, contiene una disciplina compiuta della
materia: esso, infatti, individua criteri di massima destinati ad essere
ulteriormente specificati da successive delibere del Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa.
Emerge,
dunque, un complesso meccanismo di deleghe e subdeleghe a cascata. Ricostruendo
il quadro, ne risulta una normativa molto articolata: sono presenti, anzitutto e
in via astratta, elenchi di incarichi vietati ed ammessi; in secondo luogo,
un’ampia serie di criteri sostanziali a carattere generale, alcuni ad
applicazione automatica, altri che lasciano una certa discrezionalità operativa;
in terzo luogo, criteri specifici, legati a singole categorie di incarichi o
alla posizione dei singoli magistrati interessati; in ultimo, due diverse
procedure di autorizzazione in base alla natura - fiduciaria o meno -
dell’incarico.
Il rinvio del legislatore alla fonte regolamentare, per la definizione di una compiuta disciplina degli incarichi extragiudiziali, ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale; le censure di costituzionalità della delega ex art. 53, co. 3, cit., non hanno trovato accoglimento nella giurisprudenza amministrativa; in sede consultiva il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’indipendenza della magistratura possa essere efficacemente garantita anche da una serie graduata di fonti e di principi, purché accompagnata da un modulo procedimentale che coinvolga l’organo di autogoverno (Cons. Stato, ad. gen., 7 giugno 1993 n. 58/93, cit.).
La giurisprudenza di merito oscilla fra
una posizione che esclude qualsiasi intervento creativo dell’organo di
autogoverno dei giudici amministrativi (Cons.
Stato, IV, 9 agosto 2005 n.
Infine
giova ricordare che anche l’art. 23 bis,
d. lg. n. 165/2001, nella parte in cui espressamente consente a tutti i
magistrati (ordinari, amministrativi ecc.) di essere collocati in aspettativa
senza assegni presso soggetti pubblici anche internazionali, è stato ritenuto
fondare una ulteriore ipotesi di incarico extragiudiziario (Cons. Stato, IV,
21 luglio 2005 n.
1.3.
Incompatibilità
organiche (o di sede).
Le incompatibilità organiche
derivano dai particolari legami che, in una determinata sede di servizio, il
magistrato si trova a intrecciare con parenti, coniugi, conviventi e affini, che
siano titolari di altri uffici giudiziari, di funzioni di polizia giudiziaria o
attività professionale forense.
1.3.1. Magistrati
ordinari.
Le
cause di incompatibilità di sede sono minutamente elencate dagli artt. 18 e 19
ord. giud. novellati dal d.lg. 23 febbraio 2006 n. 109.
Viene
in rilievo una disciplina assai complessa, a tratti asfissiante, che affida
all’organo di autogoverno ampi spazi di intervento.
Il
C.s.m. ha contribuito a completare il quadro regolatorio individuando i
parametri per accertare in concreto la ricorrenza della incompatibilità di sede
(deliberazioni
25 giugno
Per risolvere sia le situazioni
di incompatibilità tipizzate che quelle innominate, l’ordinamento giudiziario ha
previsto un peculiare meccanismo giuridico: il c.d. trasferimento per
incompatibilità ambientale e funzionale, disciplinato dall’art. 2, r.d.lg. 31
maggio 1946 n. 511, il cui testo attuale, novellato dal d.lg. n. 109/2006,
prevede che i magistrati «possono, anche senza il loro consenso, essere
trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni. ...quando si trovino in
uno dei casi di incompatibilità previsti dagli artt. 16, 18 e 19
dell’ordinamento giudiziario …o quando indipendentemente da loro colpa non
possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena
indipendenza e imparzialità» (sulla
natura giuridica e le garanzie del procedimento di trasferimento del magistrato
per incompatibilità ambientale, nonché sui poteri esercitabile dal C.s.m., da
ultimo Cons. Stato, IV, 10 giugno 2010 n.
1.3.2.
Magistrati
amministrativi.
Si ritiene comunemente che l’art.
Dopo la riforma dell’ordinamento
giudiziario si pone un delicato problema di coordinamento normativo.
L’art. 30, d.lg. n. 109/2006 (che
ha riformato gli istituti in esame con la tecnica della novella), infatti,
sancisce espressamente che «il presente decreto non si applica ai magistrati
amministrativi e contabili»; è
lecito interrogarsi su quale sia la sorte del rinvio operato dalle ll. TAR e n.
186/1982; si possono ipotizzare, in tesi, le seguenti soluzioni:
a)
che
per i magistrati amministrativi non vi sia più alcuna disciplina tipica di rango
primario, rimanendo affidato ogni ambito regolatorio alla potestà dell’organo di
autogoverno (con evidenti torsioni sul piano della legittimità costituzionale),
che potrebbe, in via analogica ispirarsi alla nuova normativa vigente per i
magistrati ordinari;
b)
che debba trovare applicazione la disciplina generale dettata dal
t.u.imp.civ.St.;
c)
che
sia richiamabile la vecchia normativa, recata dagli artt. 18 e 19 ord. giud. nel
testo antevigente, nel presupposto del carattere materiale e non dinamico del
rinvio operato dalle leggi di stato della magistratura amministrativa; in questo
senso si è orientata la prassi dell’organo di autogoverno della magistratura
amministrativa in relazione a procedimenti disciplinari, di sospensione
cautelare dal servizio, di accertamento di cause di incompatibilità e relativo
trasferimento (delibere 23 ottobre 2009; 31 maggio 2007).
Sotto l’egida della previgente
normativa, sancita dai più volte menzionati artt. 18 e 19 (nel testo antecente
la novella del 2006), si distinguevano tre fattispecie.
La prima concerne
l’incompatibilità ambientale «per parentela o affinità con professionisti» che
esercitino abitualmente il proprio patrocinio presso l’ufficio giudiziario sede
del magistrato, prevista dall’art. 18: questa disposizione trova applicazione ai
soli magistrati di T.a.r., e non a quelli del Consiglio di Stato (giudice unico
nazionale) in parallelo all’esenzione dal divieto prevista per i magistrati di
Cassazione.
La seconda riguarda l’incompatibilità ambientale «per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede», prevista dal successivo art. 19 (per una giudizio fortemente critico sulla diffusione del fenomeno, Pantaleo, 631); il vecchio ordinamento giudiziario considerava questa disposizione derogabile ove a giudizio dell’organo di autogoverno «per il numero dei componenti il collegio o l’ufficio giudiziario sia da escludere qualsiasi intralcio al regolare andamento del servizio»; si ritiene, tuttavia, che nel Consiglio di Stato e nei T.a.r. divisi in sezioni, sia sufficiente assegnare a sezioni diverse i magistrati interessati; il trasferimento si rende invitabile, invece, per i T.a.r. non divisi in sezioni ove l’organo di autogoverno non si pronunzi per la deroga (cimino, op. cit., 1451; Landi, 161).
Il
Consiglio di presidenza, al fine di limitare il verificarsi delle due ipotesi in
oggetto, ha statuito che negli atti di interpello relativi all’assegnazione di
sede per prima assegnazione o per trasferimenti a domanda sia esplicitamente
richiesto agli aspiranti di indicare se ricorrano o meno, in relazione a tutti i
posti messi a concorso, situazioni che potrebbero dar luogo alla fattispecie di
incompatibilità prevista dagli artt. 18 e 19 ord. giud. (deliberazione
28 gennaio 2005).
La terza ipotesi di
incompatibilità ambientale, infine, è quella prevista dall’art. 2, r.d.lg. n.
511/1946 (vecchio testo), quando i magistrati «per qualsiasi causa anche
indipendente da loro colpa, non possono, nella sede che occupano, amministrare
giustizia nelle condizioni previste dal prestigio dell’ordine
giudiziario».
1.4.
Il
fondamento costituzionale ed internazionale del principio di terzietà del
giudice.
L’imparzialità del giudice, oltre
che requisito strutturale dell’attività giudiziaria, è espressione di un sistema
di valori di rango costituzionale e internazionale.
Distinguere fra il rilievo
costituzionale e quello internazionale del principio di imparzialità non ha solo
una importanza accademica o teorica, ma pratica perché consente, in caso di
violazione delle norme poste a presidio della terzietà ed imparzialità del
giudice, l’accesso a diversi sistemi di tutela: davanti alla Corte
costituzionale (per gli aspetti di illegittimità costituzionale di norme di
legge italiana); alla Corte di Lussemburgo (per le violazioni, imputabili allo
Stato italiano in tutte le sue articolazioni ivi inclusa quella giudiziaria,
delle disposizioni e dei principi recati Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea); alla Corte di Strasburgo (in caso di violazione, da parte
dello Stato italiano, sempre considerato in senso ampio, delle disposizioni
della C.e.d.u.; sulle
conseguenze costituzionali della violazione, da parte della legge italiana,
della C.e.d.u. è fondamentale l’ampia ricostruzione sistematica operata da
CCost, 24 ottobre 2007 nn. 348 e
1.4.1.
Le norme
internazionali.
La
regola del giusto processo, declinata nelle sue componenti essenziali, fra cui
quella concernente la terzietà ed imparzialità del giudice, si trova scolpita in
numerose fonti internazionali: si pensi all’art. 10 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (proclamata
dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948), ed all’art. 14 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici (approvato dall’Assemblea generale delle
Nazioni unite il 16 dicembre 1966 ).
Un
particolare rilievo giuridico - per il sistema di tutela apprestato
direttamente, dai rispettivi ordinamenti, in favore dei singoli individui -
assumono l’art.
L’art.
6, co.
È
poi comunemente affermato che anche le apparenze vengono in proposito ad
assumere rilievo, dovendo il giudice non solamente essere, ma altresì apparire
assolutamente privo di interessi personali nella causa (Corte
eur. diritti dell’uomo 28 gennaio 2003, Dell’Utri, in CC pen., 2003, 2062, con nota di tamietti).
È
utile evidenziare che l’applicabilità della C.e.d.u. al processo amministrativo
non è indiscriminata, essendo limitata alle sole controversie aventi ad oggetto
questioni spiccatamente patrimoniali (da
ultimo Cons. Stato, IV, 22 giugno
2006 n.
L’art.
47, co. 2, della Carta di Nizza sancisce che «ogni individuo ha diritto a che la
sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole
da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo
ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare».
Tale
norma era stata consolidata dall’art. II-107 della Costituzione europea, che
però, come noto, non è mai entrata in vigore (passaglia,
19).
In passato si è molto discusso del valore
giuridico da riconoscere alla Carta (sui problemi concernenti
a)
quelle ricognitive di diritti già regolati da norme dei
trattati o espressive di principi comuni agli ordinamenti europei
(in questo caso
b) quelle ricognitive di diritti
fondamentali già attribuiti dalla convenzione sui diritti dell’uomo
(anche a questo riguardo
c) quelle attributive di diritti nuovi, in
relazione ai quali è corretto porsi il problema, in concreto, del valore e
dell’efficacia della Carta.
Il diritto al processo equo è
stato ricondotto al secondo gruppo di norme (POLI, Manuale, 234).
A seguito dell’entrata in vigore,
a far data dal 1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 –
ratificato con l. 2 agosto 2008 n. 130 - che ha attribuito efficacia giuridica
piena alla Carta di Nizza, sono superate tutte le residue difficoltà
applicative; si conferisce alla Carta il medesimo valore giuridico dei trattati;
ne consegue l’applicazione immediata, da parte del giudice nazionale, del
catalogo dei diritti fondamentali sancito dalla Carta - nei settori di
competenza comunitaria e nei limiti in cui la singola disposizione o il
principio siano muniti di effetto diretto -; in sostanza il diritto
fondamentale, per trovare immediata applicazione, non deve essere individuato a
conclusione di una preventiva operazione di bilanciamento ermeneutico fra
principi diversi e contrapposti affidata al giudice comune, ma scaturire
direttamente dalla disposizione sovranazionale contenuta nella Carta,
strutturata in modo tale da consentire una sufficiente disciplina della
fattispecie (SCODITTI, 45; Corte
giust. 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, in FI, 2006, IV, 133). L’attrazione di tale
diritto nel catalogo dei diritti comunitari ora positivizzato, fa si che i
giudici nazionali (sulla considerazione dei giudici nazionali come primi
giudici comunitari, che da luogo al fenomeno della «biappartenenza» funzionale
di istituzioni o apparati, sia consentito il rinvio a poli, Funzione, 219), in presenza di norme interne
contrastanti, le disapplichino, secondo i consueti e ormai collaudati criteri
sviluppati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte
costituzionale.
E’ lecito dubitare che il
requisito dell’<<effetto diretto>> assista la norma sancita dal
menzionato art. 47, co. 2.
1.4.2. L’art. 111
Cost.
Come
accennato, l’imparzialità e la terzietà del giudice costituiscono l’essenza
stessa del giudizio e sono valori fondamentali del due process of
law
oggi esplicitamente sanciti dal nuovo art. 111, co. 2, Cost. secondo cui «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole
durata».
La novella dell’art. 111 Cost. ha
acceso il dibattito sul ruolo dell’imparzialità nei processi governati dal
principio della domanda (quali quello civile ed amministrativo) e sul valore
aggiunto recato della norma sancita dal secondo comma.
Secondo un maggioritario
orientamento, l’imparzialità del giudice - e la disciplina positiva che attua
tale principio - ha oggi un fondamento costituzionale (mandrioli, op. cit., 495). Enumerando sinteticamente i
principali corollari, è stata sostenuta la copertura costituzionale
(di carlo, Il principio del contraddittorio nel diritto
amministrativo, in CS, 2004, II,
724 ss.; picozza, Il giusto processo amministrativo, id.,
2000, II, 1071; proto pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo
civile, in FI, 2000, V, 246
ss.):
a) del principio della domanda e
della distinzione fra chi chiede e chi rende giustizia;
b) del divieto del sapere privato
da parte del giudice;
c) dell’eliminazione dei
condizionamenti derivanti dalla c.d. forza della prevenzione, sicché al giudice
non sarebbe mai consentito di conoscere di fasi autonome dello stesso rapporto
processuale;
d)
del giusto processo come forma obbligatoria della funzione giudiziaria fra i cui
elementi essenziali spicca quello della terzietà del giudice (accanto agli altri
tre rappresentati dal contraddittorio fra le parti in condizioni di parità,
dalla ragionevole durata del processo dall’obbligo di motivazione di tutti i
provvedimenti decisori.
Altra
tesi si dimostra scettica sulla possibilità che l’elevazione al rango
costituzionale di talune formule, per lo più recepite dalla terminologia
anglosassone, possano introdurre garanzie ulteriori rispetto a quelle che già
non risultassero dal precedente quadro costituzionale, ciò in forza di una
lettura realistica dell’applicazione delle garanzie costituzionali che tiene
conto in concreto degli scopi ai quali si indirizzano i diversi tipi di processo
(chiarloni, 1010).
Il principio del giusto processo
fondato su una interpretazione innovativa dell’art. 111 cit. non ha incontrato
il favore della Corte costituzionale che ha sostenuto a chiare lettere come la
novella costituzionale nulla avrebbe immutato sull’impianto delle garanzie nel
processo civile, posto che in tale disposizione non sarebbe contenuta alcuna
prescrizione ulteriore che non fosse già compresa in altre norme costituzionali,
sebbene in un sistema diffuso e non concentrato in una sola disposizione (CCost,
15 luglio 2003 n.
a) il principio della domanda se contrapposto a quello della terzietà-imparzialità del giudice non trova diretta copertura costituzionale in quanto vi sono situazioni nelle quali l’iniziativa officiosa più che opportuna si rivela necessaria;
b) l’iniziativa officiosa non lede il principio della terzietà-imparzialità del giudice quando il procedimento è strutturato in modo che il giudice conservi il requisito di soggetto super partes mantenendosi in posizione di equidistanza e non rivestendo il ruolo di «giudice-attore»;
c) la posizione di
terzietà-imparzialità è assicurata ogni volta che il procedimento per la
dichiarazione di fallimento sia sollecitato ab externo e in tutti i casi di
«fallimento-dipendente»; la riforma della legge fallimentare varata nel
Relativamente al processo
amministrativo, gli artt. 1, 2 e 3 c.p.a. (al cui commento si rinvia), hanno
operato la ricognizione espressa dei principi sopra menzionati; si tratta di una
novità sconosciuta agli altri codici di procedura (sulla considerazione che tali
principi fossero già insiti nel processo amministrativo anche prima della
riforma dell’art. 111 Cost. cfr. Cons.
Stato, VI, 23 febbraio 2009 n.
2. Astensione e
ricusazione.
Si è visto come gli istituti
dell’astensione e ricusazione siano preordinati a garantire l’imparzialità, e
indirettamente la terzietà del giudicante dalle insidie che possono derivare da
eventuali rapporti con la controversia o le parti (giovannini, op. cit., 298 ss.; caianiello, 340
ss.).
Tecnicamente ciò avviene
attraverso la sottrazione al giudice - inteso quale magistrato persona fisica -
della potestas
iudicandi (ovvero del potere dovere di
giudicare in quelle cause nelle quali si potrebbe dubitare della sua
imparzialità). Tale sottrazione può avvenire o a seguito di un’iniziativa
spontanea del giudice - astensione - in taluni casi dovuta, oppure attraverso
una specifica contestazione ad opera della parte che ha motivo di dubitare
dell’imparzialità del giudice - ricusazione.
-
Per il giudizio civile, la
disciplina della astensione e revocazione è dettata dagli artt. 51 ss. c.p.c.
Per il processo amministrativo,
dispongono ora gli artt. 17 e
2.1.
Le
ipotesi di astensione obbligatoria e ricusazione.
Né
il giudice che si astiene né la parte che lo ricusa possono fondarsi su
considerazioni eminentemente soggettive o su generici
sospetti.
I
motivi di astensione obbligatoria generale (e conseguentemente di ricusazione)
sono tassativamente indicati dall’art. 51 c.p.c., ed in quanto incidenti sulla
capacità del giudice, determinando una deroga al principio del giudice naturale,
sono di stretta interpretazione (sulla tassatività dell’elenco Cons. Stato, VI, ord.
28 dicembre 2009 n.
Si
tratta di motivi comuni (per quanto sopra detto) ai giudici civili ed a quelli
amministrativi.
Una ipotesi speciale, dettata per
i soli consiglieri di Stato, era divisata dall’art. 43, co. 2, t.u. Cons. St.,
che vietava al magistrato che ha concorso al parere in una sezione consultiva di
partecipare al collegio giudicante chiamato a decidere di una questione avente
il medesimo oggetto di quella trattata in precedenza; la disposizione è stata
abrogata espressamente dall’art. 4, co. 1, n. 4), dell’Allegato 4 al c.p.a.;
tale regola non sembrava valere per i pareri resi dall’ad. gen.: dal punto di
vista logico, onde evitare che si verificasse la paralisi dell’organo; dal punto
di vista testuale, dato che la norma si riferiva alla partecipazione alla
«sezione consultiva» al singolare, lasciando intendere la doverosità
dell’intervento del magistrato in sede di ad. gen. (POLI, op. cit., 237;
giovannini, op. cit., 298; caianiello, op. cit., 341; sandulli, 1408). E’ assai dubbio che la
fattispecie di incompatibilità ora abrogata refluisca direttamente nella
previsione dell’art. 51, n. 4) c.p.c. difettando il requisito
dell’<<identità di causa>> che può ravvisarsi, a determinate
condizioni, solo per l’esercizio della funzione consultiva in sede di decisione
di ricorsi straordinari al Capo dello Stato.
Non costituisce di per sé
violazione dell’art.
Di seguito si illustrano i
singoli casi.
2.1.1.
Avere
interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di
diritto.
La
dottrina classica del processo amministrativo sottolinea che tale situazione di
incompatibilità si verifica solo con riferimento allo specifico rapporto
processuale in ordine al quale deve pronunciarsi il giudice o in ordine ad altro
rapporto processuale pendente presso altro giudice avente il medesimo oggetto;
il giudice ha pertanto l’obbligo di astenersi se è parte del rapporto
processuale in questione ovvero se ha compiuto qualsiasi altro atto processuale
in ordine alle relative controversie, in modo che si renda giuridicamente
apprezzabile il suo interesse; in sostanza, non un qualunque vantaggio indiretto
ritraibile dalla lite in corso impone l’astensione, ma solo quello che sia
direttamente riferibile al giudice. Tale esegesi si impone per evitare che, in
taluni casi, si incorra nella denegata giustizia perché si finirebbe per non
trovare un giudice disinteressato (caianiello, op. cit., 343); si tratta di una
preoccupazione dovuta alla possibilità che, specie in caso di controversie
aventi ad oggetto questioni generali sul trattamento economico dei magistrati,
non si trovino giudici privi di un interesso anche riflesso (CC, SU, 14 giugno
1995 n.
La
giurisprudenza civile distingue fra interesse personale e diretto
e
interesse indiretto, giungendo a conclusioni parzialmente non
coincidenti.
Nel
primo caso, infatti, (ravvisato nelle ipotesi di scuola del giudice in causa
propria o titolare di un rapporto dipendente da quello oggetto del processo),
una parte di essa ritiene che il motivo di astensione possa essere invocato come
vizio di nullità del provvedimento giurisdizionale anche in mancanza di
preventiva richiesta di ricusazione (CC, I, 27 febbraio 2004 n.
Anche l’interesse morale non patrimoniale, purché
personale, può essere dedotto come motivo di astensione (in questo senso
si pone il problema dell’interesse politico derivante dalla partecipazione del
magistrato ad associazioni o movimenti o partiti politici; sembra ammettere la
possibilità della astensione obbligatoria CCost, ord., 22 giugno 1983 n.
2.1.2.
Essere il
giudice o il coniuge parente fino al quarto grado di una delle parti in causa o
di alcuno dei difensori o essere legato da vincoli di affiliazione, o convivente
o commensale abituale.
Vengono in evidenza ipotesi di
parzialità basate sui rapporti con le parti che potrebbero determinare
predisposizioni favorevoli nei loro confronti.
Nella formulazione originaria la
norma faceva riferimento alla moglie, ma dopo l’abrogazione del divieto di
accesso delle donne in magistratura, il giudice delle leggi ha precisato che
tale obbligo sussiste anche per la donna magistrato (CCost, 7 febbraio
1986 n.
È stata invece ritenuta
inammissibile, poiché comportante valutazioni discrezionali riservate al
legislatore, la questione di legittimità costituzionale della norma in questione
nella parte in cui, mentre impone al giudice di astenersi quando il proprio
coniuge sia parente fino al quarto grado di una delle parti o di alcuno dei
difensori, non prevede l’obbligo di astenersi per il giudice che sia rispetto ad
essi affine in grado corrispondente, quando l’affinità sia acquisita attraverso
fratelli o sorelle (CCost, 7 febbraio 1986 n. 37 cit.).
Mentre
si esclude dall’ambito della norma il mero rapporto di filiazione naturale, è
controverso il concetto di convivente e commensale abituale; intendendosi per lo
più, con tale definizione, i sodali di una cerchia ristretta di persone
che
vivono in familiarità, uniti dagli stessi interessi ovvero collegati da una
specifica affectio
(zucconi galli fonseca, 161 ss.).
E’
stata esclusa tout court la
ricorrenza di tale causa di incompatibilità per il solo fatto che un magistrato
amministrativo sia chiamato a decidere una controversia di cui sia parte un
altro magistrato amministrativo,
ovvero perché sia legato a quest’ultimo da rapporti di collaborazione
scientifica (Cons. Stato, IV, ord. 28 maggio 2009 n.
2.1.3.
Avere il giudice
o il coniuge causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito
con una delle parti o alcuno dei difensori.
La norma si riferisce a relazioni
che inducono a predisposizioni sfavorevoli nei confronti di una delle
parti.
Ciò
si verifica in
primis
quando il giudice venga denunciato o sia bersaglio di azione civile (anche in
sede penale); il concetto di causa pendente va esteso a qualsiasi tipo di
procedimento, speciale, di esecuzione ecc.
(zucconi
galli fonseca, op. cit., 161).
Il giudice delle leggi ha
ritenuto che detta norma non violi l’art. 3 Cost., nella parte in cui non
introduce, a differenza di quanto previsto in materia di esercizio dell’azione
civile verso il giudice, la possibilità di valutare la manifesta infondatezza
dell’azione proposta contro il magistrato che dovrebbe astenersi (CCost,
1 luglio 1993 n.
Lo
stato di inimicizia non può essere solo rappresentato o vissuto a livello di
percezione unilaterale e priva di qualsivoglia
riscontro, ma va dedotto e provato in relazione a circostanze concrete e
significative (Cons.
Stato, IV, 15 maggio 2000 n.
L’ipotesi di grave inimicizia tra
il giudice e la parte va verificata solo in relazione a rapporti estranei al
processo, non potendo essa ravvisarsi nel trattamento (ritenuto sfavorevole ed
iniquo) riservato alla parte nel corso del giudizio (Cons. Stato, IV, ord. 19 giugno 2007 n.
Si
ritiene sufficiente, ai fini dell’applicabilità della norma in questione, che
sussista fra il giudice e la parte un rapporto di credito o debito e non un
effettivo credito o debito, sicché rientrerebbero nel fuoco della norma le
ipotesi di credito dipendente da rapporti continuativi ad es. affitto, contratto
d’opera, mutuo ( zucconi galli
fonseca, op. cit., 162).
Non è stato ravvisato alcun profilo di incompatibilità nei rapporti di collaborazione scientifica, editoriale, convegnistica e formativa correnti fra magistrati amministrativi (Cons. Stato, VI, ord. 29 dicembre 2009 n. 125 cit., ha escluso che un magistrato debba astenersi dal giudicare, in sede di revocazione, della decisione resa da un collega con il quale collabori a livello scientifico e formativo non potendosi configurare un rapporto di credito fra i due; è stata anche dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51 e 53 c.p.c., sollevata in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui non contemplano, per l’ipotesi su detta, l’obbligo di astensione).
L’opinione tradizionale esclude che la dipendenza del giudice dallo Stato gli inibisca di trattare controversie in cui sia parte quest’ultimo o altro ente pubblico cui sia collegato per ragioni di residenza (ad es. comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo ipotizzabile che il giudice possa essere portato, a seconda dei casi, ad avvantaggiare o danneggiare il proprio debitore o creditore (caianiello, op. cit., 343).
2.1.4.
Avere il
giudice, nella medesima causa, dato consiglio, prestato patrocinio, deposto come
teste, prestato assistenza come consulente tecnico, conosciuto come magistrato
in altro grado del processo o come arbitro.
La norma ricomprende sia
l’ipotesi in cui il giudice abbia espresso un parere sulla causa e anteriormente
ad essa, sia il caso in cui abbia già conosciuto la questione in un altro grado
del processo; la ratio è quella di
evitare i condizionamento derivanti, a qualunque titolo, dalla <<forza
della prevenzione>>
Sotto tale angolazione, nel
processo civile, si esclude l’obbligo di astensione:
a) nel caso in cui il giudice
abbia conosciuto della causa in un processo distinto (CC, 9 luglio 1983
n.
b)
se ha giudicato in una controversia solo analoga (CC, I, 27 dicembre 1996 n.
Il requisito dell’«aver
conosciuto» presuppone la partecipazione ad una decisione di merito, non
bastando la mera attività di istruzione della causa (CC, II, 27 marzo 2001 n.
Quanto alla nozione di «altro
grado» una tendenza evolutiva, imperniata sulla valorizzazione del nuovo testo
dell’art. 111 Cost., supera le strettoie del dato letterale ritenendo che possa
intendersi come tale anche il procedimento svolgentesi davanti al medesimo
ufficio giudiziario, quando per le caratteristiche decisorie e potenzialmente
definitive del provvedimento che chiude la prima fase e per la sostanziale
identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi nel rispetto del
principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate,
il secondo assume il valore di vera e propria impugnazione (CCost, 23
dicembre 2005 n.
Viceversa si esclude
l’applicabilità della norma allorquando sia lo «stesso ufficio giudiziario» che
ha reso la pronuncia oggetto di impugnazione, competente a decidere nuovamente;
in quest’ottica si è ritenuto che i magistrati che hanno pronunciato la sentenza
di appello impugnata per revocazione ex art. 395 c.p.c. possono fare
legittimamente parte del collegio investito della cognizione del giudizio
revocatorio (CC,
lav., 12 settembre 2006 n.
Relativamente al processo amministrativo,
è stata ritenuta inconfigurabile una situazione di incompatibilità nei confronti
del giudice della fase cautelare a partecipare anche alla decisione di merito
della controversia (CCost, ord. 21 ottobre 1998 n.
In passato, nel caso di
regressione del processo al giudice di primo grado per erronea declinatoria
della giurisdizione, si escludeva che il componente del collegio che avesse
partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la
nuova causa (Cons. Stato, VI, 4 aprile 2005 n.
E’ stato ipotizzato in astratto, sebbene escluso nel caso concreto, che la formulazione da parte di un giudice amministrativo, in sede scientifica ed all’esito di una puntuale analisi critica, di apprezzamenti favorevoli sopra una sentenza resa da altro collega, integri la causa di incompatibilità in esame, inibendo al magistrato stesso di decidere sulla relativa impugnativa (Cons. Stato, VI, ord. 28 dicembre 2009 n. 125 cit.).
2.1.5.
Essere stato il
giudice tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle
parti; amministratore o gerente di un ente, di una associazione anche non
riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che abbia interesse
nella causa.
Tutte le ipotesi previste
presuppongono, fra il giudice e le parti, un vincolo di tendenziale permanenza;
si pensi ai rapporti di collaborazione domestica o di consulenza (dove si
discute se possano essere ricompresi nel concetto di agenzia se lo si individua
in senso ampio e non con riferimento esclusivo all’art. 1742 c.c.; l’art.
Non è configurabile tale ipotesi
di astensione e ricusazione allorquando la situazione di fatto sia riferibile
non a una o più persone fisiche componenti di un organo giurisdizionale, ma
all’organo stesso, in quanto ciò comporterebbe il pericolo di uso distorto
dell’istituto e l’irrimediabile paralisi della funzione, rimessa alla mera
volontà di una delle parti (Cons. Stato, IV, 20 luglio 2007 n.
2.2.
Astensione
facoltativa.
In
presenza di gravi (e innominate) ragioni di convenienza il giudice può
richiedere al capo dell’ufficio di appartenenza l’autorizzazione ad
astenersi.
La discrezionalità riguarda
soltanto l’apprezzamento delle ragioni che giustificano l’astensione e non
quest’ultima che, qualora il giudice ne ravvisi i motivi, è sempre obbligatoria
(zucconi galli fonseca,
op. cit., 162).
Si è posto il problema della
integrabilità dell’elenco tassativo di cui al primo comma dell’art. 51 c.p.c.,
con le situazioni di incompatibilità previste dalla legge, sulla falsariga di
quanto si verifica nel processo penale (l’art. 36, lett. g), c.p.p.
impone al magistrato l’astensione ogni volta che versi in una situazione di
incompatibilità prevista dall’ordinamento giudiziario). La risposta è sostanzialmente
positiva ove si tenga presente che le varie tipologie di incompatibilità possono
integrare la clausola generale delle «gravi ragioni di convenienza» attraverso
il richiamo analogico al meccanismo tipizzato dall’art. 36, lett. g), c.p.p.
(mandrioli, op. cit., 292 ).
È
stata dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 51, co. 2, nella parte in cui attribuisce al capo dell’ufficio un
potere di diniego della richiesta di astensione, anche quando la grave ragione
di convenienza riguardi il difetto (o il pericolo) di imparzialità, e non
prevede il diritto del giudice ad astenersi, ovvero la possibilità delle parti
di ricusare il giudice che non sia stato autorizzato ad astenersi (CCost,
ord. 16 aprile 1999 n.
3. Il procedimento di
ricusazione.
3.1. Disciplina normativa.
Si
riporta una sintesi della precedente normativa (artt. 48 e 50 reg. proc. Cons.
St.), inerente il procedimento di ricusazione.
L’istanza
di ricusazione:
a) deve essere proposta almeno tre giorni
prima dell’udienza designata ovvero anche oralmente e fino all’inizio della
discussione davanti al collegio se non sono noti i componenti del collegio
medesimo;
b)
deve essere proposta direttamente al presidente della sezione o dell’ad.
plen.;
c) deve indicare (rigorosamente) i motivi di
ricusazione ed i mezzi di prova delle circostanze che fondano tale richiesta;
d)
deve essere sottoscritta dalla parte personalmente o da avvocato munito
di procura speciale (Cons. Stato, VI, 28 dicembre 2009 n. 125 cit., che
giustifica la necessità di una procura speciale, ad hoc, non essendo sufficiente neppure
quella speciale ma rilasciata nel contesto del mandato a margine del ricorso
introduttivo del giudizio, atteso che la proposizione della ricusazione è
collegata alla specifica contingenza relativa alla composizione del collegio
resa nota solo nella prossimità dell’udienza);
e) viene decisa dallo stesso giudice adito
secondo il rito camerale;
f) non determina la sospensione del
procedimento principale;
g)
se diretta contro il funzionario incaricato dell’assunzione del mezzo
istruttorio deve essere proposta entro tre giorni dalla pubblicazione della
decisione o del provvedimento di delegazione (ma in caso
di
urgenza il presidente può provvedere alla sostituzione di quest’ultimo e in tal
caso il funzionario viene avvisato immediatamente dal segretario e deve rendere
delucidazioni sui motivi di ricusazione);
h) in caso di rigetto della
istanza la parte (ma non quella pubblica)
è condannata ad una sanzione
amministrativa pecuniaria fino ad euro 15 (la norma ha una chiara funzione
deterrente e la deroga in favore della p.a. si giustifica soltanto in ragione
della necessità di valorizzare lo spirito collaborativo e non punitivo nei
rapporti fra pubblici poteri, in termini giovannini, op. cit., 299; si segnala che la norma analoga
sancita dall’art. 54, co. 3, c.p.c. è stata dichiarata incostituzionale nella
parte in cui non prevede che il giudice possa e non debba condannare al
pagamento della sanzione, ciò in quanto la necessarietà della sanzione non
permette una valutazione delle condizioni del caso concreto determinando una
irragionevole compromissione del diritto di difesa sancito dall’art. 24
Cost., CCost, 21 marzo 2002 n.
i)
l’accoglimento dell’istanza non ha effetto sugli atti anteriori (tale
previsione viene interpretata letteralmente, nel senso che la violazione del
dovere di astensione sia irrilevante fino all’accoglimento dell’istanza di
ricusazione, Cons. Stato, V, 30 luglio
La distinzione, per il processo
amministrativo, fra la disciplina del procedimento per la decisione sull’istanza
di ricusazione (dettata in modo specifico dagli illustrati artt. 48-50 cit. che
hanno natura di atto legislativo, CCost, 9 dicembre 2005 n.
L’art. 18 c.p.a. ha significativamente riformato la disciplina del procedimento di ricusazione; queste le novità rispetto alla disciplina previgente:
a)
facoltà del
giudice, chiamato a decidere sulla controversia principale, di sospenderne il
corso in attesa della definizione dell’incidente di
ricusazione;
b)
previsione di
una fase eventuale del procedimento di ricusazione destinata alla delibazione
dell’inammissibilità e manifesta infondatezza della domanda di ricusazione ai
fini della sospensione del giudizio principale;
c)
definizione del
procedimento di ricusazione con ordinanza (la precedente disciplina faceva
riferimento generico alla decisione), entro trenta giorni dalla proposizione
della domanda, sentito in ogni caso il magistrato ricusato (la norma non
stabilisce, a differenza di prima, se il procedimento di ricusazione si svolga
in camera di consiglio o in udienza pubblica; nel silenzio serbato sul punto
dagli artt. 18 e 87 c.p.a., potrebbe ritenersi che: I) il rito acceda a quello
della controversia principale nel corpo della quale si innesta l’incidente di
ricusazione, ove si ritenga la natura giurisdizionale del procedimento infra § 3.7.; II) il procedimento abbia
natura schiettamente amministrativa e dunque a monte non si pone il dilemma
della scelta del rito processuale);
d)
impossibilità
per il magistrato ricusato di deliberare la decisione definitiva sulla domanda
di ricusazione;
e)
sanzione della
nullità degli atti compiuti successivamente alla proposizione della domanda di
ricusazione, ma solo in caso di accoglimento di quest’ultima (viene in rilievo
una ipotesi di invalidità processuale
sopravvenuta);
f)
previsione della
condanna alla refusione delle spese dell’incidente cautelare (da disporsi
evidentemente in favore delle controparti sostanziali nei cui confronti si
ammette una qualche forma di contraddittorio anche solo eventuale, ad es. a
mezzo di produzione di note o documenti);
g)
piena parità
delle parti in relazione alla condanna facoltativa alla pena
pecuniaria;
h)
inammissibilità
della ricusazione dei giudici chiamati a decidere della
ricusazione;
i)
eliminazione
della ricusazione del funzionario istruttore (in linea con la riforma
complessiva del regime dell’istruttoria, si evidenzia che gli ausiliari del
giudice possono essere ricusati ai sensi degli
artt. 20 e 21 c.p.a.).
3.2.
Organo
competente a decidere sulla istanza di
ricusazione.
La decisione sulla domanda di
ricusazione, nell’ordinamento processuale amministrativo, compete al medesimo
ufficio giudiziario cui appartiene il giudice ricusato, e non al giudice di
grado superiore; pertanto, anche nel caso in cui sia stata proposta domanda di
ricusazione nei confronti di tutti i componenti del collegio di un tribunale
amministrativo, spetta allo stesso tribunale (e non al Consiglio di Stato),
decidere sull’ammissibilità di tale istanza (Cons. Stato, IV, 3 novembre
2008, n.
3.3.
La verifica
dell’ammissibilità e della manifesta infondatezza dell’istanza di
ricusazione.
Nel vigore della precedente
disciplina, il Consiglio di Stato è stato fermo nel ritenere che il collegio,
benché uno o più dei suoi componenti fossero stati ricusati, dovesse procedere
ugualmente alla verifica dell’ammissibilità della domanda di ricusazione, ovvero
alla verifica di tutte le condizioni prescritte dalla legge per ritenere
correttamente proposta l’istanza sotto il profilo del rispetto delle formalità
di rito, e della rappresentazione di una fattispecie legale idonea ad
incardinare la disamina nel merito del prospettato incidente, nonché
l’adempimento dell’onere della prova.
Una volta superato il vaglio di ammissibilità, i singoli componenti del collegio valuteranno se avvalersi dell’istituto dell’astensione, fermo restando, ove necessaria, l’applicazione di altri giudici per integrare il collegio che ne fosse rimasto sprovvisto (Cons. Stato, IV, ord., 12 giugno 2007 n. 3308, cit. dove si sottolinea la circostanza che qualora la domanda di ricusazione sia diretta nei confronti di tutti i componenti del collegio di un Tar, non si determina una competenza del Consiglio di Stato (fra l’altro, non prevista da alcuna legge) a decidere su tale domanda). Con tale soluzione la giurisprudenza ha fornito una interpretazione delle norme processuali capace di mediare fra la lettera delle norme (e l’esigenza di evitare strumentalizzazioni ed abusi dell’incidente ricusatorio), da un lato, ed il valore della terzietà del giudice a mente dell’art. 111 Cost. dall’altro (non si è mancato di affermare che, anche dopo la novella dell’art. 111 Cost., il giudice ricusato è legittimato a giudicare relativamente alla ritualità ed ammissibilità dell’istanza di ricusazione onde evitare l’abuso dell’istituto, esigenza questa che si manifesta più acuta nelle ipotesi di ricusazione c.d. di «massa», ovvero dell’intero collegio giudicante o dell’intero ufficio giudiziario, Cons. Stato, IV, 28 maggio 2009 n. 3346 cit.; IV, ord. 12 giugno 2007 n. 3308 cit.; in dottrina in senso conforme caianiello, op. cit., 342).
Nel caso in cui - superato
positivamente il vaglio di ammissibilità e manifesta infondatezza, o astenutisi
spontaneamente i magistrati interessati - anche il giudice chiamato a
pronunciarsi sul merito della istanza venga fatto oggetto di ricusazione, in
passato si è fatto ricorso, in via analogica, alla norma sancita dall’art. 40,
co. 3, c.p.p. che vieta tale seconda ricusazione (Cons. Stato, IV n. 6370 del 2006 cit.; CC, SU, 9
marzo 2006 n.
Ad analoghi approdi
ermeneutici è pervenuta la giurisprudenza civile (CC, SU, 23 novembre 2009 n.
La nuova disciplina sancita
dall’art.
a)
scinde il giudizio sulla
ricusazione in due fasi, la prima - eventuale e con funzione di filtro in vista
della prosecuzione del processo principale – avente ad oggetto gli aspetti di
inammissibilità ed infondatezza, la seconda - necessaria – destinata alla
definizione del merito della ricusazione;
b)
positivizza il divieto di
ricusazioni di secondo grado.
3.4.
Sospensione del
giudizio principale.
Come già visto, si è negato in
passato che la proposizione dell’istanza di ricusazione comportasse la
sospensione automatica del processo principale all’interno del quale si innesta
l’incidente ricusatorio (Cons. Stato, IV, 28 maggio 2009 n. 3346 cit.; IV, n.
3308 del 2007 cit.); questa
eventualità è rimessa, dall’art. 18, co. 4, al prudente apprezzamento del
collegio investito della controversia sostanziale.
3.5.
Mezzi di
gravame.
Nella vigenza della precedente
normativa, la tesi più risalente e conservatrice riteneva inammissibile sia
l’impugnativa dell’ordinanza che decide sulla revocazione, sia della sentenza
che chiude il processo principale (per mancato accoglimento dell’istanza di
ricusazione), perché altrimenti si sarebbe surrettiziamente resa impugnabile
l’ordinanza che decide sulla ricusazione (giovannini, op. cit., 300; caianiello, op. cit., 319); successivamente si è data per
scontata l’appellabilità della sentenza che chiude il giudizio nel corso del
quale è stato sollevato con esito negativo l’incidente di ricusazione (Cons.
Stato, Ad. plen., 25 marzo 2009 n. 2 cit.); si è altresì ritenuto che le ragioni
collegate ai motivi di ricusazione del giudice di primo grado possono essere
utilizzate per formulare motivi di gravame contro le sentenze del Tar solo nella
misura in cui si riesca a provare l’effettiva situazione di incompatibilità del
giudice ricusato (Cons. Stato,
IV, 19 aprile 2001 n.
Nel processo civile la
proponibilità dei mezzi ordinari di impugnazione è espressamente esclusa
dall’art. 53, co. 2, c.p.c., ma la parte che si lamenta per il mancato
accoglimento dell’istanza può impugnare la sentenza che chiude il relativo
giudizio (CC, SU, 27 febbraio 2008 n. 5087
cit.).
3.6. Conseguenze della mancata proposizione
dell’istanza di ricusazione.
Ove non sia stata proposta
istanza di ricusazione, si
controverte sulla possibilità che la violazione
del dovere
di astensione del giudice possa essere dedotta come motivo di impugnazione della
sentenza; per una prima tesi ciò non sarebbe mai possibile (Cons.
Stato, VI, 23 febbraio 2009 n. 1049
cit., che richiama espressamente le conclusioni raggiunte, circa la
discrezionalità della legge nell’attuazione del principio del giusto processo e
la necessità di evitare facili strumentalizzazioni, da CCost. 15 gennaio 1999 n.
3.7.
Natura giuridica
del procedimento di ricusazione.
Avuto riguardo al procedimento di
ricusazione disegnato dal c.p.c., la giurisprudenza è stata costantemente
orientata nel senso della sua natura sostanzialmente amministrativa (CC,
III, 18 novembre 2008 n.
Più di recente, sotto gli stimoli
della dottrina che ha evidenziato come
Relativamente al processo
amministrativo, non si registrano in giurisprudenza analoghe prese di posizione,
rimanendo pacifica la natura non giurisdizionale del procedimento in questione
(Tar Abruzzo, 8 gennaio 1999 n.
La
dottrina più recente, viceversa, anche facendo leva sulle suggestioni
derivanti dal
novellato art. 111 Cost. (retro § 1.4.)
riconosce natura giurisdizionale al procedimento di ricusazione
(di
carlo, op. cit., 724; de carolis, La ricusazione nel processo amministrativo,
in DP AMM, 2000, 840).
Le novità
introdotte in materia dal c.p.a., capaci di sostenere la tesi della natura
giurisdizionale del procedimento in quanto ispirate alla realizzazione del
giusto processo (come espressamente riferito nella Relazione illustrativa),
sono:
j)
l’impossibilità
per il magistrato ricusato di deliberare la decisione definitiva sulla domanda
di ricusazione;
k)
la sanzione
della nullità (da intendersi come processuale) degli atti compiuti
successivamente alla proposizione della domanda di ricusazione, se
accolta;
l)
la previsione
della condanna alla refusione delle spese (da disporsi evidentemente in favore
delle controparti sostanziali), che evoca la medesima nozione di incidentalità
del giudizio cautelare (e la connessa impugnabilità delle relative
ordinanze);
m)
la piena parità
delle parti in relazione alla condanna alla pena
pecuniaria;
n)
l’inammissibilità
della ricusazione dei giudici chiamati a decidere della
ricusazione.
Gioca contro
tale riconoscimento il dato testuale e la mancata indicazione, nel corpo della
norma, del tipo di udienza (pubblica o camerale) e del conseguente rito che
dovrebbe disciplinare, in via sussidiaria, il procedimento di
ricusazione.
In realtà, per
il processo amministrativo, la questione è più teorica che pratica; nel processo
civile, come si è visto, dalla natura giurisdizionale del procedimento si fanno
discendere conseguenze importanti in merito alla impugnabilità con ricorso
straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111
Cost.
In quello
amministrativo, invece, assodato che la violazione della disciplina legale in
materia di ricusazione e astensione non attiene ad una questione di
giurisdizione integrando un error in
procedendo e dunque il superamento dei c.d. limiti interni alla stessa, (CC,
SU, 13 luglio 2006 n.
4. Il procedimento di
astensione.
Il
procedimento di astensione è disciplinato dal combinato disposto degli artt. 51,
c.p.c. e 78 disp. att. c.p.c. cui fa implicito riferimento l’art. 17 c.p.a.; in
passato si è ritenuta pacificamente l’applicabilità al processo amministrativo
dei su indicati artt. del c.p.c. o in virtù del richiamo indiretto operato
dall’art. 47 reg. proc. Cons. St., ovvero in via analogica, in mancanza di una
disciplina ad
hoc (POLI, Manuale cit., 249); l’originario schema
della norma in esame elaborato dalla commissione governativa non prevedeva il
richiamo espresso alla disciplina del procedimento dettata dal c.p.c.; lo schema
è stato modificato su indicazione dell’organo di autogoverno della magistratura
amministrativa (parere reso nella seduta straordinaria del 5 gennaio
2010)..
Non appena il giudice si avvede
dell’insorgenza di un motivo di astensione deve,
alternativamente:
a) formulare dichiarazione
espressa ove ricorra una delle ipotesi di cui ai nn. da
b) chiedere al capo del proprio ufficio
giudiziario l’autorizzazione per gravi ragioni di convenienza.
Il capo dell’ufficio giudiziario,
vagliate le ragioni poste a base dell’istanza, la accoglie o la respinge.
Il
provvedimento di autorizzazione è meramente ordinatorio, ha effetto
ex
nunc
ed il relativo procedimento ha carattere amministrativo: da qui
l’inammissibilità della questione di costituzionalità dell’art. 51 c.p.c.,
sollevata in riferimento agli art. 3 e 111 Cost., perché non prevede alcun
rimedio contro la decisione del capo dell’ufficio né la forma del provvedimento
(CCost, ord. 19 gennaio 1988 n.
La mancata tempestiva
presentazione dell’istanza di astensione, integrando lesione di regole basilari
della deontologia professionale nello svolgimento dell’attività giudiziaria,
costituisce illecito disciplinare (CC, SU, 22 novembre 2004 n.
Si ritiene, relativamente alla
giustizia amministrativa, che per capo dell’ufficio debba
intendersi:
a) per il Consiglio di Stato, il presidente
della sezione cui il magistrato appartiene;
b) per i T.a.r., il presidente del
tribunale;
c) per il T.a.r. del Lazio e per quelli
divisi in sezioni, distaccate o anche interne, il presidente della sezione cui
appartiene il magistrato che intende astenersi (caianiello, op. cit., 341).
Qualora sia il capo dell’ufficio
giudiziario a ravvisare ragioni di opportunità per astenersi in via facoltativa,
deve farne richiesta al capo dell’ufficio giudiziario superiore (art. 51, co. 2
cit.).
Il
giudice astenuto difetta di legittimazione a conoscere della controversia e non
può deciderla; in tal caso la sua ulteriore partecipazione al giudizio, non
potendo essere rimossa con lo strumento della ricusazione,
si configura come
vizio di costituzione del giudice e la sentenza resa da un collegio cui abbia
partecipato il predetto magistrato è
affetta da nullità ex art. 158 c.p.c.
(CC, II, 12 febbraio 2000 n.
L’astensione del giudice non ha
effetto sugli atti compiuti in precedenza come sancito dall’art. 18. co. 8,
c.p.a. in parte qua riproduttivo
dell’art. 50, co. 4, r.d. n. 642/1907.
In caso di astensione immotivata
del giudice, poiché il relativo procedimento si esaurisce nell’ambito dei
rapporti fra il giudice che si astiene ed il presidente della sezione di
appartenenza, la sostituzione del giudice non incide sul principio del giudice
naturale sicché di detta astensione non può dolersi la parte in causa
(Cons. Stato, V, 28 gennaio
2005 n.