Consigliere del TAR
Campania-Salerno
I rimedi contro l’inerzia
dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e
l’altro al codice del processo amministrativo, approvato con decreto legislativo
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il
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Indice: 1. L’obbligo di provvedere - 2. Il termine
di conclusione del procedimento - 3. L’inadempimento dell’obbligo di provvedere.
3.1 La tutela penale - 3.2 I rimedi sostanziali. A) La diffida - B) Il ricorso
al Capo dello Stato - 3.3 I rimedi processuali. A) L’azione avverso il silenzio
- B) L’azione di condanna al risarcimento del danno.
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1. L’obbligo di provvedere. Già ai tempi dei Romani, il silenzio aveva di regola valore neutro: «qui tacet, non utique fatetur, sed tamen verum est eum non negare» (cfr. Paulus, De regulis juris, Liber 142, 59,17).
Anche nel diritto privato moderno, al silenzio non può ricondursi un significato negoziale, salvo che ad attribuirgli un senso non siano, in via eccezionale, la legge e le circostanze fattuali nel loro complesso, considerate secondo il canone generale di buona fede (c.d. tipizzazione normativa del silenzio: art. 1333 del codice civile – contratto con obbligazioni del solo proponente; art. 1832, comma 1, del codice civile – approvazione dell’estratto conto; etc...).
Nel diritto amministrativo, l’esplicitazione dell’obbligo dell’autorità pubblica di concludere il procedimento in forma espressa ed in tempi certi e, correlativamente, la tendenziale qualificazione del silenzio in termini di disvalore – ossia di violazione di una norma cogente – è uno dei capisaldi della legge 7 agosto 1990, n. 241, il cui art. 2 recita, in maniera sintetica ma eloquente: «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso».
Tuttavia,
se storicamente inquadrata, la detta previsione non assume portata innovativa
dell’ordinamento previgente, limitandosi semmai a consacrare – molto
opportunamente! – un principio di civiltà giuridica, attraverso la tecnica
legislativa della norma in bianco, il
cui precetto è integrato dal rinvio non ricettizio a disposizioni precettive
rinvenibili aliunde, che di
volta in volta costituiscono l’effettivo
contenuto del dovere.
In tal senso, l’obbligo di
provvedere, se di solito si fonda su una norma di legge o di regolamento, può
talora essere desunto da un atto amministrativo con cui l’autorità decidente
autolimita l’esercizio dei suoi poteri discrezionali o predetermina i contenuti
futuri della sua azione (cfr. TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, 2 aprile 2008, n.
436) ovvero dai principi regolatori generali dell’azione amministrativa
e quindi dai canoni di legalità, buon andamento, correttezza,
giustizia ed equità sostanziale, come, ad esempio, nelle ipotesi in cui l’autorità, col suo comportamento,
induca un affidamento nel privato (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
Di talché, «indipendentemente dall’esistenza di specifiche
norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non
palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza
e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogni qualvolta esigenze di
giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in
ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97
della Costituzione), in rapporto al quale
il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita
pronuncia» (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318; TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I, 4 giugno 2010, n. 1051).
Ovviamente, l’obbligo non riguarda le ipotesi tipizzate di
cui all’art. 20 della legge, dove, all’inerzia serbata dall’amministrazione per
un certo tempo, si riconnettono ope legis gli effetti dell’atto
richiesto, come nel caso di istanza per il conseguimento
dell’autorizzazione per la realizzazione di stazione radio di telefonia
cellulare, di cui all’art. 87 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259
(cfr. TAR Toscana, Sez. I,
2. Il termine di conclusione del procedimento. La vera novità introdotta dall’art. 2 della legge n. 241/90 sta non tanto nell’enunciazione del dovere di concludere gli affari iniziati, quanto nell’introduzione di un termine certo, a garanzia dell’ineludibilità del precetto.
La conclusione del procedimento deve infatti intervenire entro un preciso lasso temporale, indicato dalla legislazione di settore o, in mancanza, fissato con atto di natura regolamentare dall’organo d’indirizzo dell’amministrazione procedente.
Quest’ultimo non deve superare i novanta giorni, salvo che, considerati gli interessi in gioco, la complessità delle valutazioni sottese e «la sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa» (variabile, quest’ultima, esplicitata dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69), non sia necessario spingersi fino a centottanta giorni. Termini ancora maggiori possono essere dettati per i procedimenti di attribuzione della cittadinanza italiana e per quelli riguardanti l’immigrazione.
Ma se per una determinata tipologia di procedimenti né la legislazione di settore, né i regolamenti indichino la durata massima dello spatium deliberandi, questo resta definitivamente stabilito in trenta giorni.
Nelle conferenze di servizi di cui all’art. 14 e seguenti della legge, il termine per l’adozione della decisione conclusiva, di norma non superiore i novanta giorni, è stabilito dalle amministrazioni partecipanti alla prima riunione o comunque in quella immediatamente successiva alla trasmissione dell’istanza o del progetto definitivo. Decorso inutilmente questo, l’amministrazione procedente è tenuta lo stesso a provvedere.
Il termine di conclusione del procedimento decorre dall’inizio del procedimento d’ufficio, o, se esso è ad iniziativa di parte, dal ricevimento della domanda. Può essere sospeso, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, al fine di acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.
Nei procedimenti ad istanza di parte, il termine è interrotto dalla comunicazione all’istante dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda e ricomincia a decorrere dalla data di produzione delle eventuali osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni per la presentazione delle stesse (art. 10 bis).
L’obbligo di provvedere nel termine assegnato incombe innanzitutto sul responsabile del procedimento che, in base all’art. 6, lett. e), della legge n. 241/90, «adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione» (è sottinteso: in tempo utile perché questi provveda nei termini di legge). Non di meno, le conseguenze sanzionatorie dell’inosservanza del termine sono destinate a riflettersi anche sul superiore, trattandosi di elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, come precisato dal comma 9 dell’art. 2 della legge.
Ravvisandosi gli estremi soggettivi della colpa o del dolo, la violazione del termine obbliga l’autorità pubblica ed i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative al risarcimento del danno ingiusto cagionato (art. 2 bis).
Laddove non viga l’esplicita previsione della
natura perentoria del termine di conclusione del procedimento, l’infruttuoso
decorso di questo non consuma il potere dell’autorità di pronunciarsi
tardivamente – in senso satisfattivo, negativo od anche interlocutorio –,
permanendo in capo ad essa la potestà decisoria (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 15 gennaio 2009, n. 179; TAR
Lombardia-Milano, Sez. III, 4 giugno 2010, n. 1746; TAR Veneto, Sez.
I, 5 agosto 2005, n. 3124).
La disciplina sulla conclusione del procedimento si applica a tutti i soggetti, pubblici o privati, che esercitano pubbliche potestà.
Ed infatti, a mente dell’art. 29 della legge n. 241/90, le regole in essa contenute operano in via diretta per le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali, nonché per le società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle funzioni amministrative esercitate.
Regioni ed enti locali hanno l’obbligo di regolare le attività di propria competenza nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla stessa legge.
E poiché le disposizioni sull’obbligo di concludere tempestivamente il procedimento attengono – come altre – all’esercizio della potestà esclusiva dello Stato di determinare i livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, è giocoforza che, in relazione a queste, le autonomie regionali e locali non possano apprestare garanzie inferiori a quelle assicurate dalle legge nazionale, ma semmai livelli ulteriori di tutela.
Anche le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano devono adeguare la propria legislazione, secondo i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione.
Di immediata applicazione per tutte le pubbliche amministrazioni è, infine, la disciplina sulle conseguenze del ritardo dell’amministrazione nella conclusione dei procedimenti, afferendo alla materia dell’ordinamento civile, pure rientrante nella potestà legislativa esclusiva dello Stato.
3. L’inadempimento dell’obbligo di provvedere. 3.1 La tutela penale.
La prima e più considerevole tutela apprestata dall’ordinamento contro la violazione dell’obbligo di provvedere è senza dubbio quella penale, contenuta nell’art. 328 del codice penale.
Il nuovo testo della menzionata disposizione contiene due diverse figure delittuose, ripartite in due commi.
Il primo comma punisce l’ipotesi di reato del «rifiuto di atti d’ufficio».
L’oggetto materiale della condotta è individuato attraverso il richiamo a due requisiti che deve possedere l’atto oggetto di rifiuto. Esso, infatti: a) deve inerire alle materie della giustizia, della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, dell’igiene e della sanità; b) dev’essere indifferibile.
Alla stregua della giurisprudenza più rigorosa, ai fini della consumazione del reato non è indispensabile che il rifiuto venga espresso in maniera formale (cioè, attraverso l’adozione di un provvedimento di diniego), essendo parimenti idonea «la silente inerzia protratta senza giustificazione» oltre i termini di comporto o addirittura di decadenza, nei casi in cui questa discenda dal mancato compimento dell’atto entro un termine (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 2003, n. 2510).
Non
appare superfluo evidenziare che, in carenza dei detti elementi, il rifiuto, pur
se penalmente irrilevante, può costituire illecito ai diversi fini civili,
amministrativi e/o disciplinari (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 febbraio 2003, n.
939).
Il secondo comma dell’art. 328 c.p. regola la figura dell’«omissione di atti di ufficio».
Perché la fattispecie criminosa sia pienamente integrata, sono anche qui necessari due presupposti: a) la richiesta di adozione dell’atto dovuto, avanzata per iscritto da chi vi abbia interesse; b) l’omissione dell’atto dovuto ovvero la mancata risposta circa le ragioni del ritardo, decorso il termine di trenta giorni dalla ricezione della richiesta.
Normalmente la richiesta di adozione dell’atto dovuto riveste i connotati formali della diffida, ma è tuttavia sufficiente che essa sia inserita in un qualsiasi atto scritto, volto a sollecitare la definizione di una pratica od a chiedere spiegazione del ritardo (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13 novembre 2003, n. 43492).
Quanto alla legittimazione del richiedente, essa deve fondarsi su di un interesse non generico, ma qualificato (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 2001, n. 19180), sicché la posizione giuridica del privato deve porsi in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2002, n. 5376).
3. L’inadempimento dell’obbligo di provvedere. 3.2 I rimedi sostanziali. A) La diffida.
Secondo l’art. 28 della
Costituzione, «i funzionari e i dipendenti dello
Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi
penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti
pubblici».
Il decreto del Presidente della Repubblica 10
gennaio 1957, n. 3 (testo unico degli impiegati civili dello Stato),
all’art. 22, disciplina la responsabilità personale dell’impiegato che,
«nell’esercizio
delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad
altri un danno ingiusto», stabilendo che «l’azione di risarcimento nei
suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei
confronti dell’amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi
vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello
Stato».
L’amministrazione che abbia
risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente «si rivale agendo contro
quest’ultimo». A
giudicare sulla questione è
L’impiegato è responsabile
anche se ha agito per delega del superiore; non se ha agito per ordine del
superiore, fatta salva la responsabilità di quest’ultimo (art.
18).
Negli organismi collegiali, la
responsabilità è esclusa solo «per coloro che abbiano fatto
constatare nel verbale il proprio dissenso» (art. 24).
E’
in questo contesto che l’art. 25 del testo unico introduce un’espressa forma di
responsabilità civile
per i danni cagionati dall’«omissione di atti o di
operazioni», al
cui compimento l’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento.
Perché la responsabilità sorga, è necessario che l’omissione sia «fatta constare da chi vi ha interesse mediante diffida notificata all’impiegato e all’amministrazione a mezzo di ufficiale giudiziario» (comma 1).
Di
modo che, «decorsi
inutilmente trenta giorni dalla notificazione della diffida, l’interessato può
proporre l’azione di risarcimento, senza pregiudizio del diritto alla
riparazione dei danni che si siano già verificati in conseguenza dell’omissione
o del ritardo» (comma 5).
Tuttavia, quando gli atti o le
operazioni omessi sono da compiersi ad istanza di parte, «la diffida è inefficace se non
siano trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza
stessa» (comma
2).
Quando l’atto o l’operazione
sono incardinati in un procedimento amministrativo, «la diffida è inefficace se non
siano trascorsi sessanta giorni dalla data di compimento dell’atto od operazione
precedente ovvero, qualora si tratti di atti od operazioni di competenza di più
uffici, dalla data in cui l’atto precedente, oppure la relazione o il verbale
della precedente operazione, trasmesso dall’ufficio che ha provveduto, sia
pervenuto all’ufficio che deve attendere agli ulteriori incombenti», salvi gli eventuali maggiori
o minori termini assegnati dalla disciplina di settore (commi 3 e
4).
Sotto l’aspetto sostanziale, la diffida può produrre gli effetti legali della messa in mora, anche e soprattutto ai sensi dell’art. 1224 del codice civile, secondo cui «nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali» (è noto che il codice civile menziona esplicitamente la mora del debitore, nel capo III° del libro IV°, in tema di inadempimento delle obbligazioni, agli articoli 1219, 1220, 1222, oltre che all’art. 1224; in altre norme invece – articoli 1218, 1223 e 1225 – il codice fa riferimento al ritardo).
Vertendosi in tema di «pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno», detti interessi non scontano il gravoso regime di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, che ha recepito la direttiva comunitaria n. 2000/35/CE, in materia di contrasto al fenomeno dei ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali (art. 1, lett. c, del decreto legislativo).
3. L’inadempimento dell’obbligo di
provvedere. 3.2 I rimedi sostanziali. B) Il ricorso al Capo dello
Stato.
Secondo
l’impostazione tradizionale, il ricorso straordinario, disciplinato dall’art. 8 e seguenti del decreto del
Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n.
Per tale ragione, nonostante abbia oggetto identico al ricorso giurisdizionale (impugnativa di un atto per motivi di legittimità) e si collochi in posizione di alternatività rispetto al giudizio amministrativo, esso va considerato ad ogni effetto un rimedio di tipo sostanziale.
Si
noti, però, che di recente l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n.
Per
vero, proprio la natura obbligatoria, ma non vincolante del detto parere è stata
sin qui determinante affinché
Sebbene
il ricorso al Capo dello Stato si traduca nell’impugnativa di «atti
amministrativi definitivi», «come è
da decenni pacifico in sede giurisdizionale, anche in sede straordinaria nulla
preclude all’organo consultivo di giudicare del rapporto direttamente o passando
per quel surrogato di atto definitivo che è il silenzio-rifiuto, ma anche in assenza
di un atto amministrativo» (cfr. Cons.
Stato, Ad. gen., 10 giugno 1999, n. 9).
La
tutela apprestata non può però spingersi al
vaglio delle connesse domande di risarcimento dei danni avanzate dall’istante,
essendo una simile pretesa assolutamente estranea all’ambito di cognizione
propria del ricorso straordinario (cfr. Cons. Stato, Sez. I,
Del tutto isolata è rimasta la tesi opposta che, muovendo dal principio di alternatività tra rimedio giurisdizionale amministrativo e rimedio straordinario, finisce per sostenere la completa equivalenza e sovrapponibilità delle due forme di tutela, vertendosi, in entrambi i casi, nell’esercizio di funzioni poste a salvaguardia di situazioni soggettive contemplate dall’art. 24 della Costituzione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 30 aprile 2003, n. 1036/02).
L’esperibilità dinanzi al Capo dello Stato del gravame contro l’inerzia nel provvedere non è intaccata dal codice del processo amministrativo che, riguardo all’istituto, si limita a disporre: «il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa» (art. 7, comma 8).
Piuttosto, il codice appare applicabile in due
disposizioni.
La prima è quella di cui all’art. 117, che ha
definitivamente eliminato l’obbligo della previa notifica della diffida all’amministrazione.
Resta, quindi, confermata la tesi emersa dopo l’entrata in vigore del
decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n.
80, di inutilità della previa diffida, anche in sede di ricorso
straordinario (cfr. Cons. Stato, Sez. III,
La seconda disposizione riguarda il contenuto della decisione favorevole che deve assumere il Capo dello Stato, dietro il parere del Consiglio di Stato.
L’art. 13, lett. e), del D.P.R. n. 1199/71 stabilisce che, se l’impugnazione deve essere accolta, il parere del Consiglio di Stato dichiara l’obbligo di provvedere, facendo salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione.
Detta previsione va ora integrata con l’art. 31 del codice del processo amministrativo, nella parte in cui viene ammessa una pronuncia sulla fondatezza della pretesa, quando si verte in ipotesi di attività vincolata, o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.
3. L’inadempimento dell’obbligo di
provvedere. 3.3 I rimedi processuali. A) L’azione avverso il silenzio. Per giurisprudenza costante,
il ricorso giurisdizionale avverso il silenzio dell’amministrazione è
esperibile solo a tutela di posizioni di interesse legittimo e non se l’inerzia
è serbata a fronte di un’istanza diretta al riconoscimento di un diritto
soggettivo (più di recente, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 6 luglio 2010, n. 4320 e
Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 7057).
L’azione è regolata
dagli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo.
Secondo il chiaro disposto del codice, la legittimazione ad insorgere contro il silenzio-inadempimento, in capo a chi «ha interesse» all’adozione dell’atto, sorge con la scadenza del termine per provvedere ed anche in assenza di una previa diffida.
E’ ragionevole opinare che il legislatore, anche e soprattutto nella terminologia utilizzata, abbia voluto affrancare l’interprete dal riflesso incondizionato che tralaticiamente induce a riconoscere la legitimatio ad causam in testa al solo titolare dell’interesse giuridico pretensivo al rilascio del provvedimento, quale potenziale beneficiario degli effetti favorevoli del medesimo.
Invero, la tecnica normativa praticata – che qualifica espressamente l’azione come di accertamento dell’obbligo e non di impugnazione (di un atto che non c’è), lascia indeterminata l’indicazione del legittimato attivo (che non è identificabile in via esclusiva col soggetto nei cui confronti il provvedimento finale produrrà effetti diretti), ribadisce la superfluità della previa diffida (tipico strumento di tutela offerto al privato richiedente) e precisa che la legittimazione non deriva in esito alla produzione di un’istanza, ma alla scadenza del temine per provvedere – conduce a ritenere che la platea dei soggetti abilitati a promuovere l’azione sia più estesa di quanto, di primo acchitto, si possa pensare.
Che essa, cioè, includa «i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti» e «quelli che per legge debbono intervenirvi», cui ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/90, va comunicato l’avvio del procedimento ed in ultima analisi «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati», nonché «i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento», ai quali l’art. 9 attribuisce la «facoltà di intervenire nel procedimento».
Non per nulla, quando il legislatore ha voluto limitare l’esercizio di un rimedio o di una tutela ai soli titolari dell’interesse pretensivo al rilascio dell’atto, lo ha fatto in modo inequivocabile, come all’art. 10 bis della legge, che attribuisce soltanto agli «istanti» il diritto di ricevere la comunicazione dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda e di opporvisi.
Una volta scaduto il termine finale del
procedimento, il soggetto interessato a reagire contro il silenzio per la via
giudiziale, senza dover assegnare un nuovo termine a mezzo diffida – condicio sine qua
non per la costituzione dell’inadempienza
pubblicistica, prima dell’entrata in vigore
del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14
maggio 2005, n. 80 (cfr.
Cons.
Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7) –, può notificare il proprio ricorso
all’amministrazione ed ad almeno un controinteressato. In presenza di
controinteressati pretermessi,
spetterà al giudice ordinare
l’integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio, ai sensi
dell’art. 27 del codice di rito.
Sul ricorso, il giudice decide con la sentenza in forma semplificata di cui all’art. 74 del codice.
Trattandosi
di azione di accertamento (e non di annullamento), non vale il termine generale
di decadenza di sessanta giorni, di cui all’art. 29 del codice, ma quello di un
anno dalla scadenza del termine di
conclusione del procedimento, appositamente previsto dall’art.
31.
Se, trascorso l’anno, l’inadempimento perdura, all’interessato è data facoltà di riproporre l’istanza di avvio del procedimento, ove ne ricorrano i presupposti. E ciò all’evidente scopo di consentire la presentazione di un nuovo ricorso, se l’inerzia viene mantenuta anche dopo quest’ulteriore atto d’impulso.
La previsione, che rappresenta una novità del
codice, appare frutto di un’impropria commistione tra profili
sostanziale e profili
processuali.
Deve infatti ritenersi che – dalla scadenza
del termine annuale di presentazione del ricorso – discenda la sanzione
(processuale) della decadenza dall’azione, con conseguente pronuncia di
irricevibilità del ricorso eventualmente proposto, per tardività della
notificazione, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. a), del codice. Non
anche l’effetto (sostanziale)
dell’archiviazione tacita del procedimento.
Ciò significa che, anziché fare salva «la riproponibilità dell’istanza di avvio» di un procedimento mai archiviato (e quindi ancora pendente in fase istruttoria), sarebbe stato più corretto attribuire all’interessato la possibilità, ricorrendo i presupposti, di diffidare l’amministrazione a concludere il procedimento entro un nuovo termine, alla cui inutile scadenza, fare scaturire la rinnovazione della legittimazione processuale contro il (reiterato) silenzio.
L’adozione, nelle more del
giudizio, di un provvedimento esplicito anche non satisfattivo, costituisce
valida manifestazione della potestà amministrativa e fa venire meno i
presupposti per la declaratoria dell’obbligo di provvedere, rendendo inutile il
meccanismo di tutela giurisdizionale avverso il silenzio: al giudice non
resterà che pronunciare l’improcedibilità del gravame per sopravvenuto
difetto d’interesse, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), del
codice.
Per contro, il provvedimento in tutto o in parte negativo può essere gravato in separato giudizio ovvero, con motivi aggiunti, in quello in corso, ma nei termini e col rito previsto per il nuovo provvedimento.
Con la sentenza di accoglimento, il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine normalmente non superiore a trenta giorni e, con la medesima decisione o con ordinanza successiva, su istanza di parte, può nominare un commissario ad acta, ai fini dell’esecuzione.
Restano di competenza dello stesso giudicante le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle afferenti agli atti commissariali, mediante appositi incidenti di esecuzione.
In presenza di attività vincolata, o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione, il giudice può pronunciare anche sulla fondatezza della pretesa azionata in giudizio.
Per vero, questa disposizione
amplia il novero delle ipotesi per le quali già l’art. 3 del
decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n.
80, nel riformulare
l’art. 2 della legge n. 241/1990, ha previsto che il giudice del silenzio «può
conoscere della fondatezza dell’istanza».
Prima
della novella del
2005, la
giurisprudenza aveva circoscritto la cognizione sul
silenzio alla semplice verifica dell’esistenza di un obbligo di provvedere,
senza che in nessun caso all’organo decidente fosse consentito l’esame del
merito dell’istanza (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n.
1).
La novella, ribaltando questo
arresto, aveva introdotto un potere di verifica giudiziale sulla fondatezza
della richiesta, nei soli casi di «attività vincolata».
L’interpretazione formatasi
sulla norma aveva escluso trattarsi di un’ipotesi di giurisdizione di merito
senza confini, il che si sarebbe prestato a seri dubbi di incostituzionalità:
vuoi per la ritenuta sostituzione del giudice all’amministrazione che ne sarebbe
derivata; vuoi per il fatto che il privato avrebbe conseguito un risultato ben
maggiore di quello ottenibile nel giudizio ordinario di legittimità
(l’annullamento del provvedimento impugnato). Nella stessa logica acceleratoria
dell’istituto, il legislatore si sarebbe limitato ad attribuire al giudice del
silenzio uno strumento processuale ulteriore, esercitabile solo in caso di
provvedimento vincolato: quando, cioè, «una sola sia la soluzione conforme
all’ordinamento e l’amministrazione non abbia emanato il dovuto atto» e non quando la decisione sul ricorso postuli accertamenti
valutativi complessi, per altro ontologicamente incompatibili con le
caratteristiche di celerità del giudizio camerale sul silenzio (cfr.
Cons. Stato,
Sez. IV, 28 aprile 2008, n. 1873; Sez. VI, 10 ottobre 2007, n. 5310; Sez.
V, 9 ottobre 2006, n. 6003, Sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023).
Tanto premesso, la norma
introdotta nel codice del 2010 appare sin da ora destinata a sollevare delicate
questioni interpretative circa l’identificazione delle ipotesi nelle quali
«risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere
compiuti dall’amministrazione».
Si consideri tra l’altro che il
settore dove è più ricorrente l’affermazione secondo cui, nell’assunzione di un
dato provvedimento, l’amministrazione non gode di nessuno spazio di
discrezionalità, è probabilmente quello, molto delicato,
dell’edilizia.
Infatti, il titolo per costruire «consiste in un provvedimento vincolato al riscontro della conformità del progetto del proposto intervento costruttivo alla normativa urbanistica ed edilizia in atto vigente, senza che residui in capo all’amministrazione comunale alcun margine di discrezionalità amministrativa» (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2008, n. 4756; TAR Campania-Napoli, Sez. III, 2 marzo 2010, n. 1249; TAR Sicilia-Catania, Sez. I, 31 ottobre 2008, n. 1898).
Ed
egualmente dicasi per i provvedimenti sanzionatori, atteso che «l’accertamento e la
repressione degli abusi edilizi, nell’ambito dell’esplicazione della funzione di
vigilanza sull’attività urbanistica-edilizia, costituiscono un adempimento
vincolante per l’amministrazione, la quale non può esimersi dal relativo
esercizio. Ne deriva che, una volta verificato il contrasto con le norme
urbanistiche previste per l’area interessata dall’abuso, in capo
all’amministrazione medesima non residua alcun margine di discrezionalità in
merito all’adozione della conseguente ordinanza di demolizione e pertanto la
partecipazione dell’interessato non può incidere su natura e contenuto del
provvedimento»
(cfr. TAR
Campania-Napoli, Sez. IV, 9 aprile 2010, n. 1884; TAR
Puglia-Lecce, Sez. III, 26 novembre 2009, n.
2853).
Ancora, «in sede di rilascio di concessione edilizia in
sanatoria contenente l’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13, della
legge 28 febbraio 1985, n. 47, l’autorità amministrativa non è chiamata a
compiere scelte discrezionali, non potendo il detto titolo essere negato una
volta che si accerti la c.d. doppia conformità dell’intervento realizzato,
rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici (generali e di attuazione)
vigenti al momento della costruzione e della richiesta di sanatoria, oltre che
la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici
solo adottati» (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1126).
Incerto è infine se la dilatazione dei poteri di delibazione della fondatezza dell’istanza abbia inciso sul contenuto del dictum giudiziale di accoglimento: se, cioè, esso si traduca in una sentenza che ordini all’amministrazione l’adozione un ben preciso provvedimento, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. b), del codice, ovvero – tralasciando riserve ed ipocrisie – in una sentenza sostitutiva dell’atto dovuto (es. il permesso di costruire o l’ordinanza di demolizione), come avviene nei casi di giurisdizione estesa al merito, di cui all’art. 34, comma 1, lett. d).
3. L’inadempimento dell’obbligo di
provvedere. 3.3 I rimedi processuali. B) L’azione di condanna al risarcimento
del danno.
Ai sensi dell’art. 2 bis della legge n. 241/90, in presenza di colpa o dolo, il ritardo nel provvedere obbliga l’amministrazione a risarcire il danno ingiusto cagionato.
Si
suole distinguere il «danno da ritardo» – individuabile nella lesione di un interesse
legittimo pretensivo, cagionato dalla
lentezza con cui l’amministrazione ha emesso il provvedimento finale ampliativo
della sfera giuridica del privato – dal «danno
da disturbo», che si caratterizza dalla
lesione di un interesse legittimo oppositivo e consiste nel pregiudizio
subito in conseguenza dell’illegittima compressione delle facoltà di cui il
privato è già titolare (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2009 n. 4237 e Sez. VI, 12
marzo 2004, n. 1261).
Il danno da ritardo è astrattamente
sussumibile in due categorie: quello da ritardata adozione e quello da mancata
adozione dell’atto.
La prima categoria ricomprende le
ipotesi di pregiudizio in cui un atto conclusivo del procedimento, sia pure
intempestivo, è comunque stato adottato
dall’amministrazione.
Rientrano nella seconda le ipotesi in
cui l’autorità procedente non è più nelle condizioni di adottare alcun atto
conclusivo, ovvero in cui l’istante, per ragioni proprie, non ha più interesse
all’adozione di un atto, la cui assunzione postuma assurgerebbe alla stregua di
mero simulacro provvedimentale.
In ambito processuale, la fattispecie è governata dall’art. 30, commi 4 e 5, del codice di rito, dove è stabilito che l’azione «per il risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento» è sottoposta al termine di decadenza di centoventi giorni, che inizia a decorrere, trascorso un anno dalla scadenza del termine per provvedere, salvo sia stata proposta azione di annullamento, nel qual caso la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del relativo giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza.
Il successivo art. 117, al comma 6,
prescrive che se la domanda risarcitoria è proposta «congiuntamente» a quella di
accertamento dell’obbligo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione
avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda
risarcitoria».
Ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lett. a), la controversia sul risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento amministrativo è devoluta al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva.
La domanda risarcitoria può essere
proposta per la prima volta nel processo di ottemperanza, purché nel termine di
centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, stabilito dall’art.
30, comma 5 ed in tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme,
nei modi e nei termini del processo ordinario (art. 112, comma 4, del
codice).
Nello schema dell’art. 2 bis della legge n. 241/90, quattro sono gli elementi fondanti la fattispecie dannosa: a) la violazione dell’obbligo di provvedere; b) la presenza della colpa o del dolo; c) la produzione di un danno ingiusto; d) il nesso di consequenzialità tra la violazione dell’obbligo ed il danno ingiusto cagionato.
Circa la violazione dell’obbligo di provvedere, già si è detto.
L’individuazione degli estremi della colpa o del dolo postula un giudizio di imputabilità dell’evento all’amministrazione, quanto meno a titolo di violazione delle usuali regole di buona fede, trasparenza, leale e fattiva collaborazione, cui si riconnette, ai sensi dell’art. 2727 del codice civile, la presunzione semplice della sussistenza della «colpa dell’apparato amministrativo» (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2009, n. 1162 e 8 settembre 2008, n. 4242; Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2750; ma anche: Corte Cost. 7 aprile 2006, n. 146; Cass. civ., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500).
Spetterà di contro all’amministrazione dimostrare che si è
trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione di un precetto, di formulazione incerta
di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di
influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità
derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma
applicata, od altro (cfr. Cons. Stato,
Sez. VI, 23 marzo 2009, n. 1732).
L’accertamento del nesso di causalità
tra la violazione dell’obbligo ed il danno ingiusto cagionato va eseguito
secondo i dettami fissati dalla Corte di Cassazione, in base ai quali esso
«è soggetto alle regole dettate dagli
articoli 40 e 41 del codice penale, secondo cui tale nesso sussiste in tutti i
casi in cui possa ritenersi che la condotta colposamente omessa, ove fosse stata
tenuta, avrebbe impedito l’evento. Tuttavia l’accertamento della causalità
omissiva in sede civile differisce dall’analogo accertamento in sede penale sul
piano della prova, perché, mentre nel processo penale la diversa posizione
dell’accusa e della difesa impedisce di ritenere sussistente il nesso di
causalità se non vi sia la prova che la condotta omessa avrebbe impedito
l’evento al di là di ogni ragionevole dubbio (vale a dire con quasi assoluta
certezza), nel processo civile la paritaria posizione dei litiganti consente di
ritenere provato il nesso causale tra l’omissione e l’evento di danno in tutti i
casi in cui la condotta omessa avrebbe impedito quest’ultimo con ragionevole
probabilità, vale a dire con una probabilità superiore al 50 per cento, che va
desunta non solo dalle statistiche eventualmente esistenti, ma da tutte le
circostanze del caso concreto»
(cfr. Cass.
civ., Sez. un., 11 gennaio 2008, n.
576).
Molto dibattuta è la
nozione di «danno ingiusto».
Secondo la giurisprudenza formatasi prima dell’entrata in vigore dell’art. 2 bis della legge n. 241/90, il ritardo nella definizione dell’istanza non comporta di per sé l’affermazione della responsabilità per danni, posto che il sistema di tutela dell’interesse pretensivo consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando esso assume ad oggetto la tutela di posizioni sostanziali e perciò la mancata emanazione od il ritardo nell’emanazione riguarda un provvedimento vantaggioso, suscettibile di appagare un bene della vita. Non è quindi possibile accordare il risarcimento nel caso in cui il provvedimento tardivo abbia carattere negativo e sia divenuto intangibile per l’omessa proposizione di impugnativa o per il suo rigetto (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7; Sez. V, 13 luglio 2010, n. 4522; Sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248).
Minoritario è rimasto
l’orientamento che pone l’accento sul nuovo modello di azione amministrativa
introdotto dalla legge n. 241/90, informato secondo regole di correttezza idonee
a radicare un’aspettativa qualificata al loro rispetto e la cui violazione dà
luogo a responsabilità per
lesione di posizioni soggettive ulteriori rispetto a
quelle di natura sostanziale (i c.d. «interessi
strumentali» o
«procedimentali»), indipendentemente dalla
spettanza del provvedimento
richiesto. In quest’ottica, l’avvio di un
procedimento amministrativo genera un «contatto amministrativo qualificato» ed
il sorgere di un rapporto giuridico autonomo a struttura complessa, nel cui
ambito si formano, a carico del soggetto pubblico, dei veri e propri obblighi di
protezione della sfera giuridica del privato, cui sono correlati specifici
diritti di quest’ultimo ad un comportamento diligente e conforme alla buona fede
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 marzo 2005, n. 875;
Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945 e 20 gennaio 2003, n.
204).
Dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi prefigurati dalla legge, possono in linea astratta discendere le seguenti situazioni di fatto:
1)
l’amministrazione non adotta alcun provvedimento ed il privato istante,
nonostante il tempo trascorso, mantiene interesse alla sua
emanazione;
2)
l’amministrazione adotta in ritardo il provvedimento dovuto e questo è
satisfattivo dell’interesse del privato istante;
3)
l’amministrazione adotta dapprima un provvedimento negativo, ma poi lo riforma
in senso positivo, d’ufficio od in esecuzione di una pronuncia
giurisdizionale;
4)
l’amministrazione adotta in ritardo il provvedimento positivo dovuto, ma questo
è solo astrattamente satisfattivo dell’interesse del privato istante, perché il
decorso del tempo ha provocato l’irrimediabile inutilità dell’atto, ai fini
dell’attribuzione del bene o dell’utilità finale
richiesta;
5)
l’amministrazione non adotta alcun provvedimento perché, a causa del tempo
trascorso, non è più nelle condizioni di provvedere
sull’istanza.
E’
evidente che le ipotesi sub n. 1), n.
2) e n. 3) variano solo per le diverse modalità di accesso alla tutela
giudiziaria, in quanto:
1)
in caso di mero silenzio, l’interessato potrà proporre il relativo ricorso, nel
quale inserire anche l’azione di danno per il ritardo, fermo restando che – in
linea con la tesi giurisprudenziale dominante – l’accoglibilità di quest’ultima
resta subordinata alla previa adozione di un provvedimento positivo da parte
dell’amministrazione, salvi i limitati casi nei quali il giudice può valutare la
fondatezza dell’istanza, ai sensi dell’art. 31. comma 3, del
codice;
2)
in caso di provvedimento tardivo favorevole adottato in prima battuta, l’interessato potrà
proporre direttamente azione di condanna per il risarcimento del danno da
ritardo;
3)
in caso di provvedimento tardivo emesso in riforma di un precedente atto di
segno negativo, l’interessato che abbia esperito azione generale di
annullamento, se non ha agito in tale sede anche per il danno da ritardo, potrà
farlo con separato processo.
A
non mutare nelle tre ipotesi anzidette è la determinazione del danno
risarcibile, che è pari alla minore utilità patrimoniale conseguita a causa del
tempo illegittimamente decorso tra la scadenza del termine per provvedere ed il
momento in cui il provvedimento viene adottato.
Nel
caso sub n. 4), un provvedimento
positivo è stato emesso, ma per il notevole tempo trascorso esso è inidoneo ad
appagare le giuste pretese del privato istante. Si pensi, ad esempio, alla
richiesta di un imprenditore, accolta quando l’attività è oramai cessata, ovvero
alla domanda di autorizzazione al trasporto di un bene ai fini della sua
successiva vendita, accolta dopo il perimento della merce od il ritiro del
compratore.
In
questa situazione, per l’istante il ritardo nel provvedere non determina
l’ottenimento di una minore utilità patrimoniale, ma gli impedisce di realizzare
una qualsivoglia utilità.
Conseguentemente,
il ristoro è necessariamente pari all’intera utilità fallita e va chiesto con
autonoma azione di danno, senza si debba previamente impugnare il provvedimento
sopravvenuto, che anzi giova al ricorrente, nella misura in cui lo affranca
dall’onere di provare in giudizio che il bene vantato gli sarebbe stato
attribuito, all’esito di un apprezzamento discrezionale.
Più
problematica è l’esame dell’ipotesi sub n. 5), nella quale l’amministrazione
non si è mai pronunciata sull’istanza, né può ulteriormente farlo, perché, per
norme o fatti sopravvenuti, ha perso il potere di provvedere sulla materia o non
può più concedere l’utilità richiesta.
In
questi casi, restando nell’alveo tracciato dalla giurisprudenza, l’inerzia
amministrativa è sanzionata in sede risarcitoria solo previo accertamento della
fondatezza della pretesa.
Sicché
l’interessato avrà interesse a promuovere un’autonoma azione di danno da mancato
provvedere, solo se ed in quanto sia in grado di provare in giudizio la certa, o
statisticamente probabile, attribuzione del bene o dell’utilità finale,
all’esito della prognosi di quella che sarebbe stata la decisione virtualmente
assunta dall’amministrazione.
Diversamente, dovrà promuovere una
causa avverso il silenzio, al fine di obbligare l’autorità ad effettuare comunque la
valutazione discrezionale circa la (astratta) spettanza del bene o dell’utilità:
allo scopo, se l’esito è positivo, di poter chiedere il risarcimento del danno
per equivalente e, se è negativo, di precostituirsi un provvedimento da
impugnare in sede di legittimità.
In tutte le ipotesi su viste, ai
sensi dell’art. 30, comma 3, del codice, sono escluse dal risarcimento quelle
voci di danno che si sarebbero potute evitare con l’ordinaria diligenza, anche
attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti
dall’ordinamento.
Si tenga conto, per altro, che l’azione risarcitoria richiede la prova
della quantificazione dei danni subiti, con riferimento sia al danno emergente,
che al lucro cessante, in quanto elementi costitutivi della relativa domanda, ai
sensi dell’art. 2697 del codice civile, non essendo di per sé sufficiente il
riconoscimento tardivo del titolo vantato, in quanto, in linea di principio,
l’ingiustizia e la sussistenza stessa di un danno non possono presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva
relazione al ritardo nell’adozione dell’atto richiesto (cfr. TAR
Puglia-Lecce, Sez. III, 7 ottobre 2009, n.
2262).
Pertanto, in caso
di illegittimo ritardo nel provvedere, la regola equitativa può soccorrere
unicamente nelle ipotesi in cui il danno allegato, ancorché sussistente, non sia
tuttavia comprovabile nel suo preciso ammontare ma non quando uno dei parametri
utilizzati nel giudizio equitativo sia perfettamente conosciuto e parimenti
determinabile risulti l’incidenza di detto parametro sulla quantificazione del
risarcimento (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 30 settembre 2009, n. 5899).
Tanto premesso, occorre ora chiedersi
se le considerazioni espresse dall’Adunanza plenaria n. 7/2005 sono state in qualche modo
superate dall’art. 2 bis della legge
n. 241/90, inserito dall’art. 7, comma 1, lett. c), della legge n.
69/09.
A tal proposito, si segnala una recente decisione di prime cure che, pur disconoscendo l’applicabilità della nuova norma al giudizio in corso, ad una prima lettura, ritiene non priva di fondamento l’opzione ermeneutica di un riconoscimento legislativo di un danno da mero ritardo, «sganciato cioè dal conseguimento dell’utilità finale» (cfr. TAR Puglia-Bari, Sez. II, 31 agosto 2009, n. 2031).
L’opzione avanzata in forma dubitativa dal TAR Puglia non appare tuttavia sorretta da argomentazioni persuasive. D’altronde, quando nel recente passato si è voluto fare discendere dalla violazione dei termini procedimentali conseguenze negative di ordine patrimoniale nei confronti dell’amministrazione, l’art. 17, comma 1, lett. f), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (la c.d. Prima legge Bassanini) ha conferito al Governo la delega (rimasta inattuata) ad introdurre «forme di indennizzo automatico e forfettario» a favore del privato richiedente nelle ipotesi in cui l’amministrazione non adotti tempestivamente un provvedimento, anche se negativo.
Laddove la natura indennitaria, automatica e forfettaria – e non risarcitoria – della somma spettante sta proprio a dimostrare quanto meno l’estrema riluttanza del legislatore a considerare ristorabili per danno situazioni prive della consistenza del diritto o dell’interesse di tipo sostanziale.
Per la portata non innovativa della nuova disciplina, depongono poi sia la struttura dell’art. 2 bis della legge n. 241/90, sia la successiva formulazione di più di una norma del codice del processo amministrativo.
Per vero, l’art. 2 bis riconnette il pregiudizio cagionato dall’inosservanza del termine di conclusione del procedimento, al verificarsi di un danno «ingiusto».
Ebbene, secondo l’art. 23 del decreto del Presidente
della Repubblica 10 gennaio 1957, n.
3, il danno
è ingiusto se deriva da una «violazione dei diritti dei
terzi» e ciò in conformità all’art. 28 della Costituzione,
secondo cui «i funzionari e i dipendenti dello
Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi
penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti
pubblici»..
E
l’interpretazione evolutiva affermatasi presso
Si badi, inoltre, che l’ingiustizia del danno, quale presupposto della condanna al risarcimento, è richiesta dall’art. 30, comma 2, del codice, sia per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, sia per il ritardato o mancato esercizio della stessa.
E poiché è indiscusso che il danno da uso illegittimo del potere presuppone sempre la titolarità dell’interesse sostanziale in capo all’istante, non si vede perché, quando nello stesso contesto l’aggettivo «ingiusto» è utilizzato per il danno da mancato uso del potere, questo debba assumere un’accezione diversa e più favorevole.
Ancora, il comma 6 dell’art. 117 prevede che se l’azione per il risarcimento del danno da ritardo è proposta nello stesso processo avente per oggetto il silenzio, «il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria».
Orbene, se il risarcimento del danno dovesse conseguire al mero accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere, non si comprenderebbe per quali logiche di economia processuale il giudice del silenzio possa o debba separare un giudizio unitario, rinviando ad altro rito la cognizione su una domanda il cui merito decisorio è già in gran parte contenuto nella delibazione sul silenzio, appena eseguita.
Sarebbe tutt’al più sufficiente pronunciare una sentenza parziale, che accerti l’obbligo di provvedere e rinviare ad altra udienza la trattazione della stima del danno, sempreché la domanda non vada respinta per mancata prova sul quantum ovvero non possa procedersi per via equitativa.
La norma, invece, acquista senso compiuto, se la si interpreta nel senso che il giudice separa le due azioni connesse quando nel giudizio sul silenzio non sia possibile stabilire la spettanza del bene della vita: o perché, nelle more del processo, non è intervenuto un provvedimento positivo o perché non si verte in un’ipotesi di attività vincolata o priva di ulteriori margini di discrezionalità e non comportante adempimenti istruttori, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del codice.
In conclusione, non v’è ragione per ritenere cessato il vincolo di pregiudizialità esistente tra il riconoscimento, anche solo virtuale, della spettanza del bene della vita (la c.d. fondatezza sostanziale dell’istanza) e la condanna al risarcimento del danno da ritardo.
Pertanto, ogni qual volta siffatta valutazione non sia d’immediata e pacifica evidenza, il giudice del silenzio è tenuto a rinviare la domanda sul danno ad altro giudizio, da celebrare secondo le forme del rito ordinario.