Commento all’art. 29 del Codice del processo amministrativo

“Azione di annullamento” ***

a cura di

Marcello Clarich

Ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza

della L.U.I.S.S. “Guido Carli” di Roma

 

(pubblicato sul Sito il 15 luglio 2010)

 

 

INDICE.

1. Premessa;  2. Cenni alle origini storiche.  a)  la legge del 1865 di abolizione del contenzioso amministrativo e la legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato;  3. Segue: b) gli sviluppi successivi;  4. Le novità degli anni Novanta del secolo scorso;  5. Profili ricostruttivi.

 

BIBLIOGRAFIA

G. ABBAMONTE, Il ritiro dell’atto impugnato nel corso del processo e la determinazione dell’oggetto del giudizio, in Studi in onore di Papaldo, Milano, 1975, pag. 305 e seg.; P. AIMO, Le origini della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 1990; V. BACHELET, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana. Milano, Giuffrè, 1966;  F. BENVENUTI, Giustizia amministrativa, in  Enc. Dir., XIX, Milano, Giuffrè, 1970; F. BENVENUTI, Processo amministrativo – Ragioni e struttura, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, Giuffrè, 1987; E. CANNADA BARTOLI,  Giustizia amministrativa, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, Utet, 1991; M. CLARICH, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. Amm., 2005, pag. 557 e seg.; V. DOMENICHELLI, Le azioni nel processo amministrativo, in  Dir. proc. Amm., 2006, pag. 1 e seg.;  M.S. GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 1963, pag. 522 e seg.;  M.S. GIANNINI-A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., Vol. XIX, Milano, 1970, pag. 234 e seg.;  F. LUISO, Pretese risarcitorie verso al pubblica amministrazion fra giudice ordinario e amministrativo, in Riv. Dir. proc., 2002, pag. 43 e seg.; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, V ed.,  2002;  A. PAJNO, Le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, in Dir. proc. Amm, 1994, p. 467 e seg.; B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, Milano, Giuffrè, 1985; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, VIII ed., 2010;  G. VERDE,  Pregiudizialità amministrativa nell’azione risarcitoria per responsabilità da provvedimento?, in Dir. Proc. Amm,, 2007, pag. 271 e seg.; R. VILLATA, Pregiudizialità amministrativa nell’azione risarcitorie per responsabilità da provvedimento, in Dir. proc. amm., 2007, pag. 292 e seg.

 

 

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In corso di pubblicazione nel Commentario al codice del processo amministrativo a cura di Alfonso Quaranta e Vincenzo Lopilato, in corso di pubblicazione, Giuffrè.

 

1. Premessa.

Nel processo amministrativo l’azione di annullamento è sempre stata e, anche dopo l’approvazione del Codice, resta, se così si può dire, la regina delle azioni.

Non a caso, già quanto a ordine espositivo, l’art. 29 del Codice rubricato “Azione di annullamento” è la disposizione di apertura del Capo II del Titolo III dedicato alle “Azioni di cognizione”.  All’art. 29 fanno seguito l’art. 30 “Azione di condanna” e l’art. 31 “Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità”. 

Il Codice non contempla l’azione di accertamento  e l’azione di adempimento, previste invece nel testo elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato.  Esse costituivano, con tutta probabilità, una delle innovazioni di maggior rilievo, sia sotto il profilo teorico sia sotto il profilo pratico, dell’intero corpo normativo.  Come si legge nella Relazione al Codice, il Governo  ha ritenuto “di non esercitare, allo stato, in parte qua tale facoltà concessa dalla delega, ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II[1] .

Nella sua asciutta essenzialità l’art. 29 delinea i caratteri dell’azione di annullamento in perfetta continuità con la tradizione.  

In primo luogo, la disposizione stabilisce che l’azione è esperibile nelle ipotesi di violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere, vizi già individuati nell’art. 26 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato 26 febbraio 1924, n. 1054 e ripresi anche nell’art. 21-octies, comma 1, della legge  7 agosto 1990, n. 241 inserito dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15. 

In secondo luogo, l’art. 29 assoggetta l’azione di annullamento al termine decadenziale di sessanta giorni, già indicato dall’art. 21 della legge istitutiva dei Tar  6 dicembre 1971, n. 1034 e ancor prima dall’art. 36 del Testo unico del 1924.  Disattendendo una condizione posta nel parere dalla Commissione Giustizia della Camera, non è stato espressamente disciplinato il termine dal quale decorrono i sessanta giorni, né è stato disciplinato l’oggetto dell’azione di annullamento (cioè il provvedimento).  Il Governo ha ritenuto all’uopo esaustivo quanto previsto dall’art. 41 del Codice in tema di notificazione del ricorso e dei suoi destinatari che già riprende regole consolidate sulla decorrenza del termine per la proposizione dell’azione.

Ma al di là dei dati normativi fin qui richiamati che di per sé fanno emergere la continuità con le disposizioni precedenti, per cogliere le ragioni della centralità dell’azione di annullamento nel processo amministrativo conviene porsi anzitutto in una prospettiva storica.

 

2. Cenni alle origini storiche.  a)  la legge del 1865 di abolizione del contenzioso amministrativo e la legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato.

 

Di frequente le origini delle istituzioni ne condizionano in modo pressoché irreversibile gli sviluppi.  Così è accaduto per il sistema della giustizia amministrativa che, com’è noto, affonda le sue radici nella legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. E di abolizione del contenzioso amministrativo[2].

Nel devolvere alla giurisdizione al giudice ordinario tutte le controversie relative a un “diritto civile o politico” (in termini attuali, un diritto soggettivo)  nelle quali è interessata una pubblica amministrazione (art. 2), la legge del 1865, non intaccata in alcun punto dal Codice, traccia anche i limiti interni alla giurisdizione.

In particolare, l’art. 4, comma 2, pone la regola secondo la quale “l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative”.  La disposizione vieta cioè al giudice ordinario di emanare sentenze costitutive,  in particolare quelle volte ad annullare il provvedimento.  In positivo, invece, l’art. 5 attribuisce al giudice ordinario il potere di disapplicare il provvedimento lesivo di un diritto soggettivo.  Il giudice può cioè  emanare sentenze dichiarative (o di mero accertamento), oltre che di condanna al risarcimento dei danni.

La distinzione-opposizione tra disapplicazione e annullamento segna nella legge del 1865 un equilibrio delicato tra  l’esigenza di tutela piena delle situazioni giuridiche soggettive del privato e quella di salvaguardare il principio della separazione dei poteri.  

Ciò emerge con chiarezza anche dallo stesso articolo 4, comma 2, che, dopo aver enunciato il divieto di emanare sentenze costitutive, impone alle amministrazioni  l’obbligo di conformarsi al giudicato, obbligo che si sostanzia in molti casi proprio nella rimozione del provvedimento del quale risulta accertata in via incidentale, ai soli fini della disapplicazione, la illegittimità.

 La legge del 1865, che riprendeva dall’esperienza inglese (e belga) il modello, considerato più avanzato, dell’unicità della giurisdizione, nei fatti determinò una situazione nella quale il cittadino finì per trovarsi ancor meno tutelato nei suoi rapporti con l’amministrazione rispetto al precedente sistema del contenzioso amministrativo.  Un sistema, certamente imperfetto e meno conforme all’ideale dello Stato di diritto, affidato ad organismi interni all’amministrazione, che però nella pratica aveva assicurato al cittadino possibilità più ampie di reagire contro gli abusi delle pubbliche amministrazioni. 

Le ragioni del fallimento della legge del 1865 sono riconducibili a una pluralità di cause:  il rapporto non chiaro tra provvedimento amministrativo illegittimo e diritto soggettivo da esso inciso;  l’assenza di rimedi effettivi in relazione a rapporti con l’amministrazione non riconducibili a un diritto soggettivo in senso proprio;  l’atteggiamento troppo deferente del giudice civile nei confronti dell’amministrazione;  l’assenza di strumenti efficaci per indurre l’amministrazione a conformarsi al giudicato del giudice ordinario.

Merita soffermarsi  sul primo aspetto.  In astratto, il rapporto tra provvedimento e diritto soggettivo poteva essere ricostruito in un duplice modo.   Si poteva ritenere che il provvedimento non conforme alla legge non fosse in grado di produrre l’effetto costitutivo, modificativo o estintivo del diritto soggettivo.   Con la conseguenza che il titolare di quest’ultimo poteva rivolgersi al giudice ordinario per far accertare la non conformità del provvedimento alla legge ai fini della disapplicazione (ed eventualmente del risarcimento del danno)[3].

In alternativa, si poteva ritenere che il provvedimento invalido, sia pur in via provvisoria e precaria, non perde il suo carattere imperativo, è cioè in  grado di produrre comunque i suoi effetti, operando la “degradazione” (o “affievolimento”) del diritto soggettivo.  Con la conseguenza che, estinto il diritto soggettivo, veniva meno lo stesso presupposto stabilito dall’art. 2 della legge del 1865 per incardinare la giurisdizione del giudice ordinario.

Nella prassi giurisprudenziale prevalse questa seconda interpretazione fondata sulla cosiddetta equiparazione del provvedimento invalido a quello valido ai fini della produzione degli effetti.  La distinzione tra atti emanati “jure gestionis” e atti emanati “jure imperii”  fu posta come criterio per incardinare o escludere la giurisdizione del giudice ordinario.

In definitiva,  il carattere imperativo (ovvero costitutivo) tipico del provvedimento amministrativo, valido o invalido,  richiedeva un rimedio giurisdizionale specifico sotto forma di un’azione costitutiva atta a elidere l’effetto prodotto dal provvedimento, e cioè un azione di annullamento volta a rimuovere con efficacia ex tunc il provvedimento illegittimo.  Una siffatta azione era espressamente esclusa, come si è visto, dalla legge del 1865.

Inoltre, il potere di disapplicazione del giudice ordinario, con conseguente obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato rimuovendo l’atto illegittimo, si rivelò inefficace in presenza di un’amministrazione poco rispettosa del ruolo del giudice ordinario come “voce della legge” e in assenza di strumenti giurisdizionali per rendere coercibile un siffatto obbligo.

Questa situazione di carenza di tutela divenne alla lunga insostenibile e su di essa si aprì un dibattito politico e dottrinale sfociato poi nella legge 31 marzo 1889, n. 5992 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, confluita poi nel Testo Unico del 1924, oggi parzialmente abrogato dal Codice (art. 4 dell’all. 4).

La legge del 1889 venne in realtà emanata nel segno della continuità rispetto alla legge del 1865, come cioè integrazione e perfezionamento degli strumenti di tutela.   Non a caso l’art. 3 della legge  (ripreso poi dall’art. 26 del T.u. del 1924) incardinava la competenza della IV sezione  solo “quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria”.

Più in concreto, siccome, come si è visto, la carenza maggiore della tutela offerta dal giudice ordinario era costituita dall’assenza di un’azione costitutiva di annullamento, era naturale concepire proprio quest’ultima come strumento di integrazione da disciplinare con la nuova legge.

L’art. 17 della legge del 1889 (confluito nell’art. 45, comma 1, del T.u. del 1924) pose dunque la regola fondamentale che in caso di accoglimento del ricorso la  IV Sezione “annulla l’atto o il provvedimento, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”. La “salvezza” operata nell’ultima parte della disposizione tendeva a salvaguardare l’autonomia dell’amministrazione (e dunque il principio della separazione dei poteri) nel momento in cui essa esercita nuovamente il potere allo scopo di sostituire, là dove possibile, il provvedimento annullato con un nuovo provvedimento esente dai vizi accertati.

Inoltre, l’art. 9 (confluito nell’art. 36 del T.u. del 1924)  fissò in sessanta giorni il termine decadenziale per la notifica del ricorso all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto.

La legge del 1889 concepì, in definitiva, il ricorso alla IV Sezione come un rimedio impugnatorio (cassatorio) a carattere generale degli atti amministrativi illegittimi[4]. 

L’art. 3 della legge del 1889 enunciava anche la tripartizione dei vizi di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge ancor oggi ripresa, come si è visto, nell’art. 29 del Codice.

Tuttavia, la legge istitutiva della IV Sezione non chiariva due aspetti:  se il nuovo rimedio avesse natura amministrativa o propriamente giurisdizionale  e solo la legge 7 marzo 1907, n. 42 riconobbe alla IV Sezione la natura giurisdizionale delle funzioni attribuite alla IV e alla neoistituita V Sezione del Consiglio di Stato;  se il ricorso fosse esperibile in relazione a una qualche situazione giuridica soggettiva di cui fosse titolare il privato, oppure se avesse il carattere oggettivo di strumento volto al ripristino della legalità violata nell’interesse anzitutto della pubblica amministrazione.

Non a caso l’art. 3 stabiliva che il nuovo ricorso dovesse avere come oggetto “un interesse d’individui o di enti morali giuridici”, formula ambigua che, com’è noto, aprì un dibattito dottrinale e giurisprudenziale che portò via via a ricostruire una situazione giuridica soggettiva simmetrica a quella del diritto soggettivo affidato alla tutela del giudice ordinario e cioè l’interesse legittimo.

Non è questa la sede per analizzare in modo approfondito la questione del riparto di giurisdizione, né quella per offrire una ricostruzione sistematica delle varie ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali dell’interesse legittimo.

Certo è che con la legge del 1889 si determinò una singolare inversione logica:  prima venne configurato un nuovo rimedio esperibile contro i provvedimenti amministrativi illegittimi; solo in un secondo tempo si costruì una situazione giuridica soggettiva ad esso correlata.  L’annullamento del provvedimento illegittimo venne concepito non già come il petitum di un’azione a tutela di una situazione giuridica di cui è titolare il ricorrente, bensì come una tipologia di pronuncia della IV Sezione in relazione a uno dei possibili esiti del ricorso individuati dallo stesso art. 3:  rigetto, accoglimento con rimessione dell’affare all’autorità competente nel caso di vizio di incompetenza;  inammissibilità.   Ancora lunga era dunque la strada per poter costruire una teoria delle azioni nel processo amministrativo.

 

3.  Segue: b) gli sviluppi successivi.

L’evoluzione normativa successiva alla legge del 1889 non mutò la visione del processo amministrativo nel quale, per riprendere un’espressione di Mario Nigro,[5] “campeggia” l’atto amministrativo e che ha dunque una natura essenzialmente impugnatoria e cassatoria.

In particolare l’introduzione a partire del 1923 (r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840) della giurisdizione esclusiva, riferita a materie nelle quali i diritti soggettivi nascevano intrecciati in modo pressoché inestricabile agli interessi legittimi non stravolse, l’impianto generale del processo amministrativo anche se ampliò la tipologia delle azioni esperibili per la tutela dei diritti soggettivi (accertamento e condanna).  All’interno delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo continuò a valere infatti la distinzione tra tutela degli interessi legittimi e quella dei diritti soggettivi, restando ferma per la prima la regola dell’impugnazione del provvedimento nel termine decadenziale e la limitazione del rimedio richiesto all’annullamento dell’atto lesivo.

La natura impugnatoria del processo amministrativo condizionò anche la soluzione di uno dei problemi che la legge del 1889 non si era posto e cioè la questione del silenzio della pubblica amministrazione[6].   La legge del 1889 non aveva disciplinato infatti le modalità di tutela in relazione ai comportamenti omissivi dell’amministrazione lesivi dei cosiddetti interessi legittimi pretensivi e la mancanza di un atto da impugnare sembrava precludere la possibilità di adire la IV Sezione.  Fu il senso di giustizia che animò quest’ultima fin dai primi anni di attività a condurre a una soluzione barocca, ma efficace, destinata a valere fino a tempi recenti.   L’inerzia della pubblica amministrazione, formalizzata attraverso un atto di diffida, può essere equiparata a un provvedimento di diniego tacito, come tale impugnabile e annullabile da parte del giudice amministrativo al pari dei provvedimenti espressi di diniego.  Anche in questo l’azione di annullamento costituì il veicolo necessario per rendere più effettiva la tutela del cittadino. 

Soltanto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in seguito a una famosa decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 10 del 1978), la ricostruzione attizia del silenzio venne definitivamente superata.  Essa aprì invece la strada, in via pretoria, a un’azione dichiarativa volta ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, con una proiezione di condanna all’amministrazione a concludere il procedimento con un provvedimento espresso tenendo conto dell’accertamento degli elementi vincolati della fattispecie eventualmente operato dal giudice.  La legge 21 luglio 2000, n. 205 avallò poi questa impostazione delineando un rito speciale che può condurre, in ultima battuta, alla nomina di un commissario ad acta incaricato di provvedere in luogo dell’amministrazione  rimasta pervicacemente inerte.  Il Codice conferma questa impostazione prevedendo all’art. 31 che contro il silenzio possa essere richiesto al giudice amministrativo l’accertamento dell’obbligo di provvedere (comma 1) e, solo nel caso di attività vincolata, della fondatezza della pretesa (comma 3).  L’art. 117 regola poi il rito speciale.

La centralità dell’azione di annullamento sopravvisse anche all’entrata in vigore della Costituzione che, com’è comunemente ritenuto, si limitò per lo più ad avallare e razionalizzare le scelte operate dal legislatore ordinario nei decenni precedenti, ribadendo anche la bipartizione delle situazioni giuridiche soggettive di diritto soggettivo e di interesse legittimo (artt. 24 e 113 Cost.)[7]

In particolare l’art. 113 della Costituzione detta alcuni principi calibrati su una tutela giurisdizionale che ha per oggetto gli atti della pubblica amministrazione (primo comma), suscettibili di impugnazione (secondo comma) e che possono essere annullati (terzo comma) dal giudice amministrativo, ma anche dal giudice ordinario, in base alle scelte di opportunità effettuate dal legislatore.  La Costituzione non menziona dunque rimedi diversi da quello tradizionale dell’annullamento.

 

4.  Le novità degli anni Novanta del secolo scorso.

 

L’azione di annullamento non ha visto insidiato il suo ruolo dominante almeno fino alla fine degli anno Novanta del secolo scorso.

E’ vero che il legislatore ordinario introdusse via via ipotesi di azioni diverse dall’azione di annullamento.  Ciò avvenne in particolare con la legge 7 agosto 1990, n. 241, che, nel porre una disciplina del diritto di accesso, introdusse anche un rito speciale nell’ambito del quale il giudice amministrativo, ove accolga la domanda, può anche condannare l’amministrazione all’esibizione dei documenti richiesti.  Tuttavia, si trattava di ipotesi eccezionali e tassative, non tali da alterare la fisionomia del processo amministrativo.

Neppure la legge  11 luglio 2005, n. 15, di modifica e integrazione della legge n. 241 del 1990, che ha posto per la prima volta una disciplina del provvedimento amministrativo e ha definito, per quel che qui rileva, il regime della nullità  prevedendo, in relazione a quest’ultima un’ipotesi di giurisdizione esclusiva (art. 21 septies, comma 2), ha mutato nella sostanza i termini del problema.  E’ vero infatti che l’azione per l’accertamento della nullità, ora oggetto di disciplina da parte dell’art. 31, comma 4, del Codice, acquista un carattere di generalità equiparabile a quello dell’azione di annullamento.  Tuttavia poiché le ipotesi concrete di nullità sono di fatto assai rare, l’azione dichiarativa in questione, assoggettata ora dal Codice a un termine decadenziale di 180 giorni, almeno sul piano quantitativo, non è in grado di insidiare la primazia dell’azione di annullamento.

L’insidia maggiore al ruolo di quest’ultima proviene invece dall’azione di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi proponibile, in base alla legge 21 luglio 2000, n. 205, con scelta confermata anche dal Codice (art. 30), innanzi al giudice amministrativo[8]. 

Non è questa la sede per ripercorrere le alterne vicende giurisprudenziali e legislative dell’azione risarcitoria originate dalla svolta giurisprudenziale operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 500 del 1999.  Certo è comunque che, una volta superato il principio della pregiudizialità tra azione di annullamento e azione di risarcimento, terreno di un contrasto giurisprudenziale tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione conclusosi con il prevalere della tesi di quest’ultima[9], l’azione risarcitoria “pura” poteva essere in grado di far passare in secondo piano l’azione di annullamento. 

Significativa al riguardo è la sentenza della Corte di Cassazione S.U. 23 dicembre 2008, n. 30254 che ha confermato il superamento della regola della pregiudizialità.  Secondo la Corte nel processo amministrativo, così come in quello civile, l’azione di risarcimento del danno “costituisce la misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse”.   Se a questa si aggiunge, in base alle norme vigenti, anche un’altra forma di tutela (nel processo amministrativo, l’azione di annullamento), “spetta al titolare della situazione protetta, in linea di principio, scegliere a quale far ricorso”.  

Inoltre, che tra le forme di tutela dell’interesse legittimo rientri anche la tutela risarcitoria autonoma discende secondo la Cassazione dalle esigenze di effettività della tutela alle quali il processo amministrativo si deve conformare:  [l]a tutela giurisdizionale si dimensiona su quella sostanziale e non viceversa[10].

In definitiva, nella visione della Cassazione la tutela risarcitoria anche pura inerisce al nucleo indefettibile della giurisdizione vuoi civile vuoi amministrativa, mentre la tutela costitutiva sembra quasi arretrare a mera integrazione della prima, se e in quanto prevista dall’ordinamento e richiesta dal titolare dell’interesse legittimo.

Il Codice del processo amministrativo sembra smentire questa impostazione ripristinando la centralità dell’azione di annullamento.  L’art. 30 infatti pur non enunciando in modo esplicito la regola della pregiudizialità tra azione di annullamento e azione di risarcimento nel caso di lesione di interessi legittimi ad opera di un provvedimento, pone un disincentivo potente all’azione risarcitoria pura  prevedendo che il giudice amministrativo, con un richiamo implicito all’art. 1337 del cod. civ., “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti” (comma 3) e tra questi, in particolare, l’azione di annullamento[11].

Poiché sembrano rarissime le situazioni concrete nelle quali il ricorrente non è in grado di proporre nel termine di decadenza di sessanta giorni l’azione di annullamento, l’azione risarcitoria pura, comunque esperibile nel termine assai breve di 120 giorni (coincidente, probabilmente non a caso, con il termine per la proposizione del ricorso straordinario al presidente della Repubblica finalizzato all’annullamento del provvedimento illegittimo), potrà essere considerata poco più che un caso di scuola.

E’ possibile peraltro dubitare che la disciplina dell’azione risarcitoria posta dall’art. 30 Codice risulti in linea con la legge delega che poneva come criterio il rispetto degli orientamenti delle giurisdizioni superiori visto che la Corte di Cassazione, proprio con la sentenza del 2008 delle Sezioni Unite sopra richiamata, si era attestata su una posizione certamente  avanzata rispetto a quella accolta nel Codice e che, più in generale, essa sia conforme al principio costituzionale dell’effettività della tutela  enfatizzato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 e posto come principio generale del processo amministrativo dall’art. 1 del Codice.  Ma a oggi l’art. 31 rappresenta la soluzione di diritto positivo con la quale si deve fare i conti.

In conclusione, alla luce dell’excursus sin qui operato sembra confermata nell’impostazione del Codice la preminenza dell’azione di annullamento che non è scalfita, nell’operatività concreta, né dall’azione di nullità, né dall’azione risarcitoria pura.

 

5. Profili ricostruttivi.

 

Da un punto di vista ricostruttivo, vale la pena di sottolineare anzitutto che nella sistematica del Codice la disciplina delle azioni precede quella delle pronunce del giudice (Titolo IV).  Ciò costituisce una novità rispetto all’assetto normativo precedente, nel quale sia l’annullamento sia le altre forme di tutela venivano regolate nell’ambito delle disposizioni che individuavano le tipologie delle pronunce del giudice amministrativo, oppure precisavano  il perimetro della giurisdizione amministrativa[12]. 

Con il Codice, invece cambia definitivamente l’angolo di visuale dal quale ci si deve porre. Anche il processo amministrativo, così come il processo civile da sempre fondato sul principio della atipicità delle azioni, si sviluppa cioè lungo una sequenza che muove dalle situazioni giuridiche, ai bisogni di tutela ad esse correlati, alle azioni ammissibili, ai corrispondenti tipi di sentenze.  

E nella sistematica del Codice, nonostante le amputazioni subite rispetto al testo elaborato dalla Commissione alle quali si è già fatto cenno, non è affatto chiaro che si sia voluto ribadire il principio tradizionale della tipicità delle azioni che la giurisprudenza più recente ha  ormai superato[13].  

Per un verso, infatti, l’art. 1 del Codice, nel richiamare l’esigenza di una tutela piena ed effettiva, rinvia all’art. 24 della Costituzione.  E non a caso è proprio su questa disposizione che la Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 ha fatto leva per dedurre che anche il giudice amministrativo deve essere dotato di adeguati poteri[14], cioè di tutti i poteri necessari in relazione al bisogno di tutela della situazione giuridica fatta valere in giudizio. 

Per altro verso, l’art. 34 comma 1, lett. c) del Codice, nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede non soltanto il pagamento di una somma di danaro, anche a titolo di risarcimento del danno (incluse le misure di risarcimento in forma specifica), ma anche l’adozione “delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”.  Una disposizione che sembra far rientrare dalla finestra l’azione di adempimento appena uscita dalla porta, in quanto, come si è già detto, espunta dal testo elaborato dalla Commissione.  Ma su questo avrà certo modo di pronunciarsi la giurisprudenza amministrativa.

Quanto all’azione di annullamento, l’art. 29 in commento ha come corrispondente l’art. 34 rubricato “Sentenze di merito”  secondo il quale in caso di accoglimento del ricorso il giudice “annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato” (primo comma, lett. a)) [15].

Rispetto alla precedente disciplina, è espunta la formula contenuta nell’art. 45 del T.U. del 1924 “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”.   Ciò non significa certo che viene meno l’esigenza della separazione dei poteri che una siffatta formula tendeva a salvaguardare, ma soltanto che in un  processo amministrativo ormai orientato alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive del ricorrente, cioè senza alcuna coloratura oggettiva, appare superflua  una disposizione che tende a porre una parte del processo, cioè l’amministrazione resistente, in una posizione particolare.    Al di là dei limiti oggettivi del giudicato di annullamento, pur tenendo conto dell’effetto conformativo, l’amministrazione così come le altre parti nel processo sono libere di assumere i comportamenti o di esercitare i poteri di cui sono titolari.

Sotto il profilo ricostruttivo, va ricordato ancora che ai fini dell’accoglimento nel merito dell’azione di annullamento, valgono i limiti  posti dal secondo comma dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 nel senso che deve trattarsi di casi in cui il vizio accertato ha natura non meramente formale nel senso che  ha influito sul contenuto dispositivo del provvedimento emanato.   Ma ciò non costituisce una novità introdotta dal Codice.

In conclusione, l’azione di annullamento mantiene il suo ruolo di primo piano nella sistematica del Codice.  E ciò anche nell’eventualità che la giurisprudenza confermi, sulla base degli indici normativi sopra richiamati, il principio della atipicità delle azioni.  Una siffatta conferma è quanto mai necessaria per evitare il paradosso di un  Codice, che la  legge di delega aveva pensato per far fronte alle esigenze di tutela sempre più variegate di una società complessa, che invece segna un arretramento nel livello di tutela offerto al cittadino.  E il paradosso nel paradosso consiste anche nel dover confidare ancora nella giurisprudenza pretoria del giudice amministrativo già all’indomani di un evento di portata storica quale la prima codificazione delle regole del processo amministrativo.

In realtà, finché il processo amministrativo manterrà la sua impostazione tradizionale, non superata dal Codice, di processo sull’atto, anziché di processo sul rapporto nel quale l’impugnazione dell’atto illegittimo costituisce solo l’occasione per accertare nella sua interezza il modo di essere del rapporto,[16] ragioni logiche prima ancora che giuridiche, porranno al centro dell’universo processuale l’azione di annullamento:  al carattere imperativo del provvedimento corrisponde di necessità il carattere costitutivo della sentenza del giudice amministrativo.



[1] L’art. 44 della legge di delega 18 giugno 2009, n. 69 include tra i criteri direttivi anche quello di introdurre “le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”. Si tratta di  una disposizione  che, ponendo il principio di strumentalità delle azioni ai bisogni di tutela correlati alla situazioni giuridiche sostanziali, spiana la strada al principio di aticipità delle azioni e comunque all’individuazione di nuove azioni.

[2] Su questi aspetti cfr. M.S. GIANNINI-A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., Vol. XIX, Milano, 1970, pag. 234 e seg.

[3] Su  questi aspetti cfr. M.S. GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 1963, pag. 522 e seg.

[4] Secondo G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, Giuffrè, 1958, pag. 320 la decisione del giudice amministrativo che accoglie il ricorso “ha sempre carattere costitutivo, in quanto distrugge o modifica la situazione creata con l’atto impugnato”.

[5] M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, V ed.,  2002, pag. 229 anche per la parte di evoluzione storica.

[6] Sul silenzio della pubblica amministrazione, cfr. V. PARISIO,  I silenzi della pubblica amministrazione,  Milano, Giuffrè, 1006.

[7] Cfr., per tutti, V. BACHELET, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana. Milano, Giuffrè, 1966.

[8] Cfr. A. TRAVI, Giustizia amministrativa e giurisdizione esclusiva nelle recenti riforme, in Foro it., 2001, p. 68 e seg.

[9] La posizione della Corte di Cassazione volta a superare la regola della pregiudizialità è espressa anzitutto in SU C. Cass, 13 giugno 2006, n. 13659, n. 13660 e 15 giugno 2006, n. 13911.  Per un commento delle ordinanze cfr. V. FANTI, La “rivoluzione” operata dalla Corte di Cassazione sulla giurisdizione del giudice amministrativo in tema di pregiudiziale amministrativa, in Diritto e processo amministrativo, 2007, pag. 145 e seg.;  P. CARPENTIERI, Il nuovo riparto della giurisdizione, in Foro amm – TAR, 2006, pag. 2760 e seg.

[10] Per un  commento della sentenza cfr. L. TORCHIA, in Giornale di dir. amm., 2009, pag. 385 e seg.;  M. CLARICH, La pregiudizialità amministrativa:  una nuova smentita da parte della Cassazione alla vigilia di un chiarimento legislativo, in Danno e responsabilità, 2009, pag. 731 e seg.

 

[11] Il testo formulato dal Governo faceva riferimento in modo ancor più specifico a quest’ultima poiché parlava di “impugnazione, nel termine di decadenza, degli atti lesivi illegittimi”.

[12] Così in particolare faceva a proposito dell’azione risarcitoria l’art. 7, comma 3, della legge Tar, come modificato dalla legge n. 205 del 2000.

[13]  Cfr. Cons. St., VI Sez, 9 febbraio 2009, n. 717 in tema di tutela del terzo nell’ipotesi di dichiarazione di inizio di attività e ancor più recentemente Cons. St., VI Sez., 15 aprile 2010, n. 2139.

[14] Secondo la Corte, l’art. 24 della Costituzione, “garantendo alle situazioni soggettiva devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”. Cfr. R. VILLATA,  Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale, in Dir. proc. amm., 2004, p. 832 e seg.

[15] L’annullamento è menzionato anche dal comma 2 dell’art 34 che vieta al giudice di conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di cui all’art. 29.  Inoltre, il terzo comma dell’art. 34 precisa che, se nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile del ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori.

 

[16] Un superamento di tale concezione derivava invece dalla disposizione contenuta nell’articolo 40 sull’azione di adempimento formulato dalla Commissione  in base alla quale le parti, inclusa l’amministrazione, avevano l’onere di produrre in giudizio “tutti gli elementi utili ai fini dell’accertamento della fondatezza della pretesa” e dunque anche eventuali motivi di rigetto di quest’ultimi non esplicitati nel provvedimento impugnato.