Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele     ***

  di

Marcello Clarich

Ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza

della L.U.I.S.S. “Guido Carli” di Roma

 

pubblicato sul sito l’11 novembre 2010

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa.  2.  L’iter di approvazione delle nuove disposizioni.  3.  Il principio di atipicità delle azioni.  4.  L’azione di accertamento e l’azione di adempimento.  5. L’azione di annullamento.  6. L’azione di condanna.  7 Cenni conclusivi.

 

1. Premessa. 

Il Codice del processo amministrativo costituisce il punto d’arrivo di un’evoluzione che ha preso velocità e direzioni inedite nell’ultimo decennio soprattutto in seguito al superamento del principio dell’irrisarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. Se colto in tutte le potenzialità, il Codice potrebbe essere però  il punto di partenza per una nuova tappa verso l’effettività della tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.

In particolare, la disciplina delle azioni posta dal Codice si pone sul crinale tra il vecchio modello di processo, ancorato agli schemi tradizionali del giudizio impugnatorio e dell’azione di annullamento, e un  nuovo modello aperto a una gamma più ampia di azioni. Mentre il primo è ancora in risalto nella sistematica del Codice, il nuovo, per le ragioni che risulteranno subito chiare, va ricercato per così dire sotto traccia.

 

2.  L’iter di approvazione delle nuove disposizioni.

La disciplina delle azioni ha avuto nel corso dell’elaborazione del Codice del processo amministrativo un iter travagliato[1].

Il testo elaborato dalla Commissione istituita presso il  Consiglio di Stato poneva infatti una disciplina completa delle azioni, poi amputata e riadattata nella fase di predisposizione dello schema di decreto legislativo emanato con il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Peccando di un approccio forse troppo razional-illuministico e dogmatico, l’articolato della Commissione prevedeva nel Capo II “Azioni” del Titolo III “Azioni e domande” la seguente articolazione: l’azione di accertamento (art. 36) dell’esistenza o inesistenza di un rapporto giuridico contestato e di accertamento della nullità di un provvedimento; l’azione avverso il silenzio (art. 37), che riprendeva la disciplina già vigente; l’azione di annullamento (art. 38);  l’azione di condanna (art. 39) al pagamento di una somma di danaro o all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva, che dava corpo a una disciplina dell’azione risarcitoria nel caso di lesione di interessi legittimi ispirata al superamento del principio della pregiudizialità amministrativa; l’azione di adempimento, cioè di  condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto e negato (art. 40);  le azioni esecutive, con una disposizione di rinvio alle disposizioni più specifiche contenute nel Codice (art. 41); l’azione cautelare, con una disposizione di principio sviluppata nel Titolo dedicato al procedimento cautelare (art. 42).

La disciplina proposta utilizzava tutte le potenzialità della legge di delega (art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69) che prefigurava una disciplina delle azioni improntata al principio della completezza dei mezzi di tutela e della strumentalità delle azioni rispetto ai bisogni di tutela correlati alle situazioni giuridiche sostanziali[2].  Mirava a inoltre riordinare la pluralità di azioni  introdotte nel corso del tempo dal legislatore in modo episodico e disordinato.

Infine, porre in primo piano le azioni segnava un progresso culturale rispetto all’approccio tradizionale.  Infatti il sistema normativo previgente aveva come punto focale i poteri del giudice e il perimetro della giurisdizione amministrativa[3], partendo dai quali l’interprete ricostruiva poi le azioni ammissibili nel processo amministrativo. Il Codice, invece, rovesciando l’impostazione, pone al suo centro le situazioni giuridiche soggettive e i bisogni di tutela ad esse correlati e, forgia, sulla base di questi, gli strumenti (le azioni, appunto, e le sentenze) necessari per dare ad essi piena soddisfazione[4].

In questo modo si operava anche, secondo una visione più moderna, un distacco più netto tra diritto sostanziale e diritto processuale che per lungo tempo è stato impedito dalla consistenza ambigua dell’interesse legittimo.  Quest’ultimo, com’è noto, nacque, con una sorta inversione logica, solo come sottoprodotto (oscillante tra l’interesse di mero fatto e l’interesse a ricorrere) del rimedio giurisdizionale introdotto con la legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato. Solo lentamente l’interesse legittimo ha acquisito una consistenza sostanziale autonoma dal processo e una connessione più stretta con un bene della vita il cui illegittimo disconoscimento può essere ora fonte di responsabilità.

Non deve dunque stupire che le proposte della Commissione siano sembrate troppo avanzate e ciò per una pluralità di ragioni. 

In primo luogo, l’azione di annullamento sembrava aver perso la centralità nel processo amministrativo, relegata in uno spazio delimitato, da un lato, dall’azione di accertamento, che com’è noto, costituisce la quintessenza della funzione giurisdizionale nel processo civile e, dall’altro lato, dall’azione di condanna.  In secondo luogo, l’azione di adempimento, ricalcata, come chiarisce la relazione al testo della Commissione, sul modello normativo previsto nella legge sul processo amministrativo tedesco (Verpflichtungsklage) e da decenni reclamata dalla dottrina (Mario Nigro, Fabio Merusi[5]), poteva essere vista come un’ulteriore erosione delle prerogative proprie dell’amministrazione.  In terzo luogo, l’azione risarcitoria pura, proponibile entro un termine comunque breve (centottanta giorni) e temperata sotto il profilo della determinazione del quantum dal potere del giudice di escludere i danni evitabili con l’ordinaria diligenza, “anche attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o l’invito all’autotutela”, poteva apparire potenzialmente pericolosa per l’erario. Inoltre essa sovvertiva la visione tradizionale secondo la quale il titolare dell’interesse legittimo deve cooperare alla realizzazione dell’interesse pubblico e può essere gravato dell’onere di proporre l’azione di annullamento anche nei casi in cui non abbia più interesse alla tutela specifica.

Ma anche i giuristi più aperti alle innovazioni potevano trovare qualche motivo di insoddisfazione nell’articolato.  Per esempio, una volta operata la scelta di introdurre l’azione di adempimento, l’azione sul silenzio costituiva una ridondanza.  Infatti, sia nel caso di rigetto dell’istanza, sia nel caso di silenzio, l’interesse legittimo pretensivo fatto valere in giudizio postula una forma identica di tutela, fondata sull’accertamento in giudizio di tutti gli elementi vincolati della fattispecie.  Non a caso la disciplina del processo amministrativo tedesca non contempla questa distinzione: la Verplflichtungsklage può essere proposta sia nel caso di rifiuto espresso (Ablehnung) del provvedimento richiesto sia nel caso di omessa emanazione (Unterlassung) (par. 42 del Verwaltungsgerichtsordnung).

La riscrittura in sede governativa della parte del Codice dedicata alle azioni,  la più rimaneggiata dell’intero articolato, risente del primo gruppo di ragioni di insoddisfazione.

Anzitutto, sono stati eliminati i due articoli relativi alle azioni esecutive e cautelare, che soddisfacevano più che altro il gusto della sistematicità. L’azione di annullamento recupera poi la prima posizione nell’ordine espositivo delle azioni (art. 29).  Ma fin qui nulla di male.

Più grave è la soppressione dell’azione di accertamento da considerare come correlata a una funzione minima e indefettibile anche del giudice amministrativo, così com’è da sempre acquisito per il giudice civile.   Sopravvive soltanto la parte della disposizione riferita all’accertamento della nullità che viene spostata e inserita in coda all’articolo sull’azione avverso il silenzio (art. 31, comma 4), con la previsione di un termine di decadenza di centottanta giorni per la proposizione e la precisazione che la nullità dell’atto può essere sempre opposta dalla parte resistente in un giudizio o rilevata d’ufficio.

L’azione avverso il silenzio e ciè è un bene, proprio perché viene soppressa  l’azione di adempimento che costituiva invece una delle disposizioni più innovative del Codice.  Questa amputazione è stata criticata sin nei primi commenti alla riforma anche per la debolezza della sua motivazione e cioè le preoccupazioni di tipo finanziario.  Come se, ordinare all’amministrazione di emanare un provvedimento dovuto possa comportare un aggravio di costi per quest’ultimaInfine, l’azione risarcitoria pura (art. 30) viene emendata in due punti essenziali:  il termine per la proposizione è ridotto a centoventi giorni;  il giudice è tenuto a escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, “anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”, inclusa l’azione di annullamento[6].

 

3.  Il principio di atipicità delle azioni.

Un’analisi della nuova disciplina che prescinda dalle vicende della sua elaborazione pone l’interprete di fronte a vari problemi.

Il primo è se la codificazione limiti ormai il ruolo creativo del giudice amministrativo, che ha consentito in passato di perfezionare e integrare gli strumenti processuali.  Il nomen Codice non deve essere sopravvalutato,  perché la  scelta operata è stata quella di confezionare un articolato “leggero”. Anzi il rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile, “in quanto incompatibili o espressione di principi generali” (art. 39, comma 2) apre uno spazio ampio di adattamento al giudice amministrativo chiamato a operare questo tipo di valutazione.

Inoltre, anche nel caso del codice di procedura civile, in presenza di una disciplina delle azioni e dei poteri del giudice frammentaria e lacunosa, sono state la dottrina e la giurisprudenza a ricostruire il sistema delle azioni e ad aprire la strada al principio di atipicità persino nell’ambito del giudizio di esecuzione[7].

Infine, le amputazioni subite dalla disciplina delle azioni fanno ormai parte della storia legislativa e non possono condizionare oltre un certo limite l’interpretazione sistematica delle disposizioni approvate.

Un secondo problema, correlato al primo, è se il Codice abbia voluto ribadire il principio tradizionale della tipicità delle azioni nel processo amministrativo che la giurisprudenza più recente aveva superato[8].  

Anzitutto, l’art. 1 del Codice, nel richiamare l’esigenza di una tutela piena ed effettiva, rinvia implicitamente all’art. 24 della Costituzione.  E non a caso  proprio su questa disposizione ha fatto leva la Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004  per chiarire che anche il giudice amministrativo deve essere dotato di adeguati poteri[9], cioè di tutti i poteri necessari in relazione al bisogno di tutela della situazione giuridica fatta valere in giudizio. Un’interpretazione sistematica delle nuove disposizioni in tema di azioni, conforme a Costituzione, dovrebbe dunque evitare, per quanto possibile, interpretazioni restrittive.

D’altro canto la Relazione al Codice, nel dar conto della soppressione dell’azione di accertamento e dell’azione di adempimento, spiega che il  Governo  ha ritenuto “di non esercitare, allo stato, in parte qua tale facoltà concessa dalla delega, ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II”.  Il legislatore non sembrerebbe dunque aver inteso, quanto meno, compiere passi indietro rispetto ai livelli di tutela assicurati in precedenza dalla giurisprudenza recente anche in punto di atipicità delle azioni.  Altrimenti, saremmo in presenza di una violazione di un principio contenuto nella legge di delega secondo il quale il legislatore delegato doveva tener conto degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori (art. 44, comma 1, della legge delega).

Ma vi sono anche dati normativi testuali che vanno nella direzione del principio di atipicità.  In primo luogo, infatti, l’art. 34 comma 1, lett. c) del Codice, nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede non soltanto il pagamento di una somma di danaro, anche a titolo di risarcimento del danno (incluse le misure di risarcimento in forma specifica), ma anche l’adozione “delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”. Poiché, situazioni giuridiche, azioni e sentenze, quasi come in un gioco di specchi, rinviano le une alle altre e sono legate da un nesso di stretta interdipendenza, una siffatta disposizione ammette implicitamente che tra situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e pronuncia di condanna atipica si interpone un’azione che è altrettanto atipica.

Muove nella stessa direzione anche la successiva lett.  e) in base alla quale il giudice dispone “le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato” inclusa la nomina già in sede di cognizione di un commissario ad acta con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza[10].

In secondo luogo il Codice rimuove alcuni ostacoli al più ampio dispiegarsi della funzione giurisdizionale amministrativa azionata dal titolare dell’interesse legittimo. 

In  particolare, a proposito dell’azione di annullamento, l’art. 34 si limita a precisare che in caso di accoglimento del ricorso il giudice “annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato” (primo comma, lett. a)).  Rispetto alla precedente disciplina, è cioè espunta la formula “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa” (contenuta nell’art. 45 del T.U. del 1924).   Questa formula è stata intesa come volta a garantire la separazione dei poteri e la continuità del potere amministrativo vietando l’emanazione di pronunce di condanna all’emanazione di un provvedimento richiesto e caratterizzando la sentenza di accoglimento come “ineluttabilmente” costitutiva[11].

Inoltre, abrogando espressamente il Regolamento di procedura approvato con R.d. 17 agosto 1907, n. 642, il Codice rimuove la disposizione in base alla quale “l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese” (art. 88), disposizione dalla quale in passato si derivava il principio secondo il quale il giudice amministrativo non ha un potere generale di emanare sentenze di condanna[12].

In definitiva, molti indizi sembrano avvalorare la conclusione che, al di là delle azioni tipizzate dal Codice, la parte privata che ne abbia interesse possa proporre al giudice amministrativo azioni atipiche a tutela della propria situazione giuridica soggettiva.

 

4. L’azione di accertamento e l’azione di adempimento.

Se fosse corretta la ricostruzione che precede verrebbe anzitutto recuperata l’azione di accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato, anche al di là della fattispecie della nullità, così come proposta nell’articolato elaborato dalla Commissione. Ciò anche perché la funzione di accertamento costituisce il proprium di ogni giurisdizione e non a caso anche le ricostruzioni più moderne della sentenza di annullamento includono in essa un contenuto di accertamento, in assenza del quale non troverebbero una giustificazione gli effetti ripristinatori e conformativi della pronuncia, ormai pacificamente ammessi.  L’azione di accertamento incontra comunque il limite che essa non può essere esperita “con riferimento a poteri non ancora esercitati” (art. 34, comma 2) e ciò a tutela delle prerogative proprie dell’amministrazione[13].

Sopravviverebbe così, per esempio, l’acquisizione giurisprudenziale recente che, nel caso di dichiarazione di inizio di attività (ora sostituita dalla segnalazione certificata d’inizio di attività), ammette l’azione di accertamento proposta dal terzo controinteressato che mira a far cessare l’attività intrapresa in assenza dei presupposti e requisiti di legge[14].

Per l’azione di adempimento, volta ad garantire una tutela più piena ed effettiva degli interessi legittimi pretensivi, a ben riflettere, non occorre far leva sul principio di atipicità, in presenza di alcuni indici normativi che vanno nella direzione della sua ammissibilità[15].

In particolare va esaminato con attenzione l’art. 30, comma 1, del Codice in tema di azione di condanna.

Significativa è già la rubrica dell’articolo che fa riferimento all’ “Azione di condanna” in senso ampio.  Ma è soprattutto il primo comma che, contrariamente a quanto fanno i commi successivi che disciplinano le varie tipologie di azioni risarcitorie, contiene un riferimento all’azione di condanna, senza alcuna qualificazione restrittiva.  L’ambito di applicazione del primo comma sembra cioè estendersi al di là dell’ambito delle azioni risarcitorie fino a includere anche l’azione di condanna ad un facĕre specifico consistente nell’emanazione di un provvedimento favorevole[16]. 

Il comma chiarisce inoltre che l’azione di condanna può essere proposta “contestualmente ad altra azione” vietando cioè che essa possa essere esperita in via autonoma.   Il comma ammette quest’ultima evenienza solo nei casi di giurisdizione esclusiva e “nei casi di cui al presente articolo”, cioè in quelli disciplinati nei commi successivi (condanna al risarcimento del danno ingiusto, in forma generica e in forma specifica, derivante da lesione di interessi legittimi e di diritti soggettivi).

Occorre dunque chiedersi quali siano le altre azioni alle quali rinvia il comma 1.  La risposta più naturale è che esse siano costituite essenzialmente dall’azione di annullamento e dall’azione avverso il silenzio.     

Infatti, il mancato soddisfacimento di un interesse legittimo pretensivo può verificarsi, come si è già accennato, in due ipotesi: il provvedimento espresso di diniego e il silenzio che si protrae oltre il termine di conclusione del provvedimento.

Nel primo caso l’azione di annullamento è indispensabile per accertare l’illegittimità del diniego e rimuovere il provvedimento.  Ma questo tipo di azione non soddisfa pienamente il bisogno di tutela del titolare dell’interesse legittimo pretensivo.  Questo risultato può essere ottenuto se insieme all’azione di annullamento si cumula l’azione di condanna di cui al comma 1 dell’art. 30.

Nel secondo caso, l’azione avverso il silenzio consente di accertare l’obbligo di provvedere (art. 31, comma 1) e di accertare la fondatezza della pretesa quando si tratti di attività vincolata e non siano necessari adempimenti istruttori che devono essere compiuti dall’amministrazione (art. 31, comma 3).  Ma anche questa azione può soddisfare pienamente l’esigenza di tutela solo se integrata con un’azione di condanna all’emanazione del provvedimento richiesto.

In definitiva,  poiché l’espressione “altra azione” di cui all’art. 30, comma 1, va riempita di un contenuto prescrittivo, la soluzione sistematicamente più corretta  è quella di riferirla all’azione di annullamento del provvedimento di diniego e all’azione avverso il silenzio.

Sempre sotto il profilo sistematico, può essere di aiuto un’altra considerazione e cioè che il Codice già contempla nella disciplina dei riti speciali ipotesi di azioni di adempimento. Infatti, a proposito del rito speciale in materia di contratti pubblici, l’art. 124 del Codice menziona espressamente la domanda di conseguire l’aggiudicazione, il cui accoglimento è condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto, nei casi in cui questa sia consentita[17]. Il rito in materia di accesso continua a prevedere il potere del giudice di ordinare l’esibizione dei documenti richiesti (art. 116, comma 4).

Inoltre, il d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 sulla cosiddetta “class action” contro la pubblica amministrazione introduce un’azione volta a costringere la pubblica amministrazione a ripristinare il corretto svolgimento delle funzioni o la corretta erogazione di un servizio con conseguente potere del giudice di ordinare all’amministrazione soccombente di porre rimedio alla violazione accertata (art. 4).

In presenza di queste previsioni tipiche, occorre chiedersi se si tratta di disposizioni eccezionali che confermano la mancanza di un’azione di adempimento come rimedio generale per gli interessi legittimi pretensivi, oppure soltanto di esemplificazioni di un’azione ammessa in via generale. Anche in questo caso un’interpretazione costituzionalmente orientata va in questa seconda direzione.

Se in definitiva, l’azione di adempimento, in quanto species del genus azione di condanna, è ammessa dal Codice, si pone l’ulteriore problema del se ed entro quali limiti il giudice può accertare la fondatezza della pretesa. In proposito, già nell’ambito dell’azione avverso il silenzio, il giudice, come si è visto, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa quando si tratta di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione (art. 31, comma 3). 

Al di là della sua collocazione specifica, questa disposizione può essere riferita anche al caso di provvedimento espresso di diniego.   Non è infatti immaginabile che l’ambito dell’accertamento in questo giudizio di impugnazione sia confinato alla contestazione dei motivi di diniego contenuti nel provvedimento negativo e non possa estendersi, così come accade nel giudizio sul silenzio, anche alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti vincolati in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto[18]. L’interesse pretensivo del quale si chiede tutela in entrambi i casi ha la stessa consistenza e la forma di tutela non può essere diversa a seconda che l’amministrazione decida di mantenere un atteggiamento inerte o di emanare un provvedimento di diniego.

Resta il problema più delicato dei limiti entro i quali il giudice amministrativo possa attivare i poteri istruttori allo scopo di accertare l’esistenza dei presupposti e requisiti vincolati del potere.  Nel processo amministrativo tedesco, il giudice ha un dovere di procedere ad un accertamento d’ufficio (Auklarungspflicht) che si spinge fino alle soglie del potere discrezionale e degli adempimenti procedimentali riservati all’amministrazione. L’articolo proposto dalla Commissione prevedeva in proposito l’obbligo delle parti, inclusa la pubblica amministrazione, di allegare nel giudizio relativo all’azione di adempimento “tutti gli elementi utili ai fini dell’accertamento della fondatezza della pretesa”.  In assenza di una disposizione espressa occorre far riferimento alle regole generali in materia di istruttoria.

Il Codice non sembra modificare i principi tradizionali in tema di istruttoria nel processo amministrativo (principio dispositivo con metodo acquisitivo).  Fermo restando l’onere della prova a carico delle parti (rectius  dell’onere del principio di prova), il giudice può chiedere alle parti chiarimenti o documenti (art. 63) e può disporre anche d’ufficio l’acquisizione di informazioni e documenti che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione (art. 64, comma 2).

Spetta al ricorrente allegare in giudizio gli elementi di fatto atti a dimostrare la fondatezza della pretesa. L’amministrazione ha invece l’onere di contestare specificamente tali fatti perché altrimenti il giudice potrebbe porli a fondamento della decisione (art. 64, comma 2). Il giudice potrebbe trarre argomenti di prova anche dal comportamento processuale delle parti (art. 64, comma 4), in particolare nel caso in cui l’amministrazione non cooperi all’attività di accertamento della fondatezza della pretesa[19].  Tutto ciò non significa far collassare la distinzione tra processo e procedimento, né trasformare il giudice in amministratore.  Significa soltanto  esaurire in sede processuale l’accertamento dei presupposti di fatto vincolati, ferme restando le eventuali valutazioni discrezionali dell’amministrazione da effettuare a valle della sentenza.

Su tutti questi aspetti è richiesta al giudice amministrativo la disponibilità a superare le titubanze c le incertezze che hanno caratterizzato l’interpretazione delle previgenti disposizioni in materia di silenzio dell’amministrazione. 

 

 

5. L’azione di annullamento.

L’azione di annullamento resta pressoché inalterata nella sistematica del nuovo Codice e mantiene salda la sua primazia nel nuovo sistema delle azioni.

L’art. 29 stabilisce che l’azione è esperibile nelle ipotesi tradizionali di violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere[20] e prevede un termine decadenziale di sessanta giorni[21].  Essa costituisce la via maestra, se si esclude l’apertura angusta all’azione risarcitoria pura, per sottoporre al giudice amministrativo la legittimità di un provvedimento (art. 34, comma 2).

In realtà, la centralità dell’azione di annullamento[22], nella sua configurazione tradizionale, nel processo amministrativo deriva dal fatto che la giurisdizione amministrativa, come chiarisce ora il Codice anche sulla scorta delle indicazioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004, ha per oggetto le manifestazioni immediate e mediate del potere amministrativo (art. 7, comma 1).  E se è vero che esse si esprimono principalmente attraverso provvedimenti autoritativi, idonei cioè a produrre in via unilaterale effetti costitutivi, modificativi o estintivi nella sfera giuridica del destinatario, è naturale che il rimedio specifico in capo a quest’ultimo sia rappresentato da una azione atta anzitutto a elidere l’efficacia del provvedimento emanato.  Al carattere costitutivo del provvedimento, sul versante sostanziale, corrisponde cioè simmetricamente, sul versante processuale, il carattere costitutivo della sentenza.

In definitiva, l’accoglimento del principio della atipicità delle azioni nel processo amministrativo nel Codice non deve far velo al fatto che l’azione di annullamento continua a essere la “regina delle azioni[23].

 

6.  L’azione di risarcimento.

La disciplina dell’azione risarcitoria esperibile nel caso di lesione degli interessi legittimi pretensivi avrebbe dovuto risolvere una volta per tutte la contrapposizione tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato sulla cosiddetta pregiudizialità amministrativa[24].

L’art. 30 pone una disciplina che solo in apparenza apre la strada all’azione risarcitoria pura, che in realtà è fortemente disincentivata, sia a causa del termine breve per la sua proposizione, sia per l’esclusione del danno risarcibile nel caso in cui il ricorrente abbia omesso di proporre l’azione di annullamento.

Quanto al termine di decadenza, come si è accennato, esso è stato ridotto a centoventi giorni.  Questo termine coincide, forse non a caso, con quello per la proposizione dell’azione di annullamento nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Questo rimedio è molto apprezzato nella pratica proprio perché consente di contestare un provvedimento amministrativo anche dopo la scadenza del termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo. Già prima del Codice, dunque, la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici conseguenti all’emanazione di un provvedimento di fronte al rischio di contestazione da parte del privato (la cosiddetta inoppugnabilità) finivano per essere conseguite soltanto dopo la scadenza del termine per il rimedio amministrativo[25].  Anche l’azione risarcitoria pura, in definitiva, è ora allineata, da questo punto di vista, in modo quasi perfetto all’azione di annullamento.

Quanto alla quantificazione del danno, l’art. 30, comma 3, considera il mancato esperimento dei mezzi di tutela, cioè, in pratica, la mancata proposizione dell’azione di annullamento, come una delle ipotesi nelle quali può trovare applicazione l’art. 1227,  comma 2, del codice civile che esclude la risarcibilità del danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. Poiché è difficile immaginare situazioni nelle quali il ricorrente non sia in grado di proporre l’azione di annullamento (tenendo anche conto che il termine decadenziale decorre dalla conoscenza effettiva del provvedimento e della sua lesività), la pregiudizialità amministrativa, superata nella forma, riemerge surrettiziamente nella sostanza. L’articolo proposto dalla Commissione, invece, rimetteva l’applicazione dell’art. 1227 del codice civile a una  discrezionale valutazione del giudice. Quest’ultimo doveva  tener conto, non solo del mancato esercizio dei mezzi di tutela da parte del ricorrente, ma anche del comportamento dell’amministrazione che, invitata a farlo, non  avesse attivato i propri poteri di autotutela annullando d’ufficio il provvedimento illegittimo[26].

Costituisce comunque un’anomalia la previsione secondo la quale il ricorso con il quale si propone l’azione di condanna, anche in via autonoma, deve essere notificato anche agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo (art. 41, comma 2), quasi che la condanna al risarcimento del danno possa incidere nella sfera giuridica di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione.

L’art. 30, comma 6, esclude indirettamente che le controversie risarcitorie per lesione di interessi legittimi possano rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario, che fino al 2006, prima degli orientamenti più recenti della Corte di Cassazione, si era ritagliato un ambito di intervento almeno per le azioni risarcitorie pure e sarà per essa ormai più difficile, de jure condito, recuperarlo.

E’ arduo prevedere oggi se queste soluzioni normative risolveranno in via definitiva la questione delle azioni risarcitorie.  Resta tuttavia più di un dubbio in ordine alla costituzionalità della disciplina posta dall’art. 30, che riduce in modo forse incompatibile con l’art. 24 della Costituzione la tutela risarcitoria.

 

7. Cenni conclusivi.

La disciplina delle azioni nel Codice del processo amministrativo si presta ad alcune considerazioni finali.

L’azione di annullamento del provvedimento illegittimo fa ancora da protagonista nella scena.  L’apertura all’azione risarcitoria pura è solo apparente o comunque  relega quest’ultima al ruolo di comparsa.  L’azione risarcitoria connessa all’azione di annullamento è invece favorita tanto da poter essere promossa per la prima volta anche nel giudizio di ottemperanza o comunque entro centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia l’annullamento (art. 30, comma 6 e art. 112, comma 3).

Più in generale, la priorità data alla tutela specifica, che emerge anche da altre disposizioni[27], sembra il riflesso di una concezione dell’interesse legittimo in base alla quale al titolare di quest’ultimo possono essere imposti oneri volti alla tutela dell’interesse pubblico, sacrificando in particolare la libertà di scelta delle azioni da esperire in relazione al bisogno di tutela il cui unico arbitro è, in realtà, il soggetto privato. Riaffiora ancora cioè la visione ancillare e servente dell’interesse privato rispetto all’interesse pubblico che la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione in tema di pregiudizialità amministrativa aveva superato.

Al contrario, la presa in considerazione dell’interesse del privato da parte dell’amministrazione titolare del potere appare secondaria.  Il mancato esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione in presenza di illegittimità palesi denunciate nel ricorso può rilevare solo in via indiretta tramite la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore del ricorrente, in aggiunta alle spese di giudizio pronunciata nella sentenza di accoglimento (art. 26).

L’azione di accertamento e l’azione di adempimento, così nitidamente disciplinate nella legge processuale tedesca ormai da decenni, possono essere ricostruite solo attraverso esercizi ermeneutici complessi.

Vischiosità e paura di fughe in avanti, tipiche del nostro legislatore, hanno condizionato in definitiva la redazione del Codice. Alcune correzioni potrebbero essere introdotte nel biennio di approvazione del Codice e forse, prima o poi, verrà chiamata in causa la Corte Costituzionale.  Comunque sia, poiché le norme vivono di vita propria, la disciplina incompiuta delle azioni e delle pronunce del giudice potrà essere ricondotta a sistema e valorizzata, come già molti auspicano, ad opera della dottrina e della giurisprudenza.  Per com’è stata forgiata dalla fucina legislativa, questa parte Codice non è un utensile perfetto, ma neppure un arnese inservibile.

 

 

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Contributo pubblicato anche su Giorn. dir. amm., n. 11, 2010, p. 1121 ss.

 

 



[1] Sulla vicenda cfr. A. PAJNO,  Il codice del processo amministrativo tra “cambio di paradigma” e paura della tutela, in Giorn. dir. amm.,  2010, p. 885 e seg.

[2] L’art. 44 della legge di delega 18 giugno 2009, n. 69 include tra i criteri direttivi anche quello di introdurre “le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”.

 

[3] Così in particolare faceva a proposito dell’azione risarcitoria l’art. 7, comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tar, come modificato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205.

[4] In questo senso, cfr. A. PAJNO, Il codice del processo amministrativo ed il superamento della giustizia amministrativa.  Una introduzione al libro I, in A. QUARANTA-V. LOPILATO (a cura di), Commentario al Codice del Processo Amministrativo, in corso di pubblicazione.

[5] Cfr. F. MERUSI, Verso un’azione di adempimento?, in Il processo amministrativo, in Scritti in onore di Giovanni Miele, Milano, 1979, p, 331 e seg.; M. NIGRO, Giustizia amministrativa, a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, VI ed., 2002, p. 89.

[6] Chiude la disciplina del Capo II un articolo dedicato alla pluralità delle domande e alla conversione delle azioni (art. 32).  L’articolo chiarisce è che ammissibile il cumulo di domande connesse, precisando che se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario.  Precisa inoltre che spetta al giudice qualificare l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali e disporre, se del caso, la conversione delle azioni.

 

[7] Su questo aspetto e più in generale sul principio di atipicità delle azioni nel precedente contesto normativo cfr. M. CLARICH, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, p. 557 e seg.

[8]  Cfr. Cons. St., VI Sez., 9 febbraio 2009, n. 717 in tema di tutela del terzo nell’ipotesi di dichiarazione di inizio di attività e ancor più recentemente Cons. St., VI Sez., 15 aprile 2010, n. 2139.  Sulla questione della tipicità o atipicità delle azioni nel Codice si è già acceso un dibattito.  Si vedano in particolare gli interventi  di P. DE LISE, G. CORAGGIO, F. MERUSI, A. TRAVI, L. TORCHA, M. LIPARI al 56° Convegno  di Studi Amministrativi,  Varenna, 23-25 settembre 2010, in corso di pubblicazione. 

[9] Secondo la Corte, l’art. 24 della Costituzione, “garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”. Cfr. R. VILLATA,  Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale, in Dir. proc. amm., 2004, p. 832 e seg.

[10] Queste disposizioni allineano il giudizio di cognizione al giudizio cautelare nel quale l’atipicità della misura era stata introdotta già dalla legge 21 luglio 2000, n. 205 e confermata dall’art. 55, comma 1, del Codice che prevede che il ricorrente possa richiedere (e il giudice disporre) le “misure cautelari (…) che appaiano, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”.

[11] Per riprendere l’espressione di A. ALBINI, Le sentenze dichiarative nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1953, pag. 6.

[12] Cfr. A. ALBINI, op. cit., pag. 102.  In epoca più recente si era peraltro già sostenuto che, dopo l’estensione del giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo l’art. 88 del Regolamento non avrebbe più alcun contenuto precettivo:  cfr. G. VERDE, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, in Riv. dir. proc., 1980, p. 650.  La disposizione del regolamento secondo la quale la pronuncia di accoglimento deve contenere l’ordine “che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa” (art. 65, n. 5) è stata invece ripresa dall’art. 88, comma 2, lett. f) del Codice.

[13] Inoltre, resta fondamentale il filtro dell’interesse a ricorrere che potrebbe costituire “uno scudo efficiente per escludere azioni di iattanza”:  in questo senso cfr. G. VERDE, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice”, in Dir. proc. amm., 2010, p. 800, il quale critica anche la formulazione delle disposizioni sul risarcimento.

[14] Si vedano le sentenze citate alla nota 8.  Resterebbe comunque la questione del termine di proposizione di una siffatta azione che nelle sentenze in questione viene individuato in 60 giorni, in modo tale da allineare sotto questo profilo questa azione atipica a quella di annullamento. In senso contrario, cfr. A. TRAVI, op. cit, il quale però dubita della costituzionalità di una siffatta lacuna nella tutela.

[15] Per la tesi che, espunta la disposizione sull’azione di adempimento, il Codice contenga solo “frammenti di norme, probabilmente frutto di un coordinamento impreciso nella fase finale di redazione del decreto legislativo” tali da non consentire di fondare un’azione di adempimento e di superare il principio di “tipicità moderata” verso il quale l’autore propende in base a un’interpretazione rigorosa del significato della codificazione e del principio del giusto processo, “regolato dalla legge” di cui all’art. 111 Cost. cfr. A. TRAVI, op. cit.

[16] A proposito di questa disposizione si è parlato di “condanna in senso ampio” (cfr. M. LIPARI, op. cit.) e di “condanna atipica” (cfr. R. GISONDI, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in http://www.giustizia-amministrativa.it).

[17] Sembra un po’ riduttivo intendere una siffatta disposizione solo come un’eccezione alla regola generale secondo la quale l’effetto conformativo della sentenza di annullamento si produce di diritto e non è nella disponibilità della parte (Cfr. A. TRAVI, op. cit.).  L’effetto conformativo, insieme a quello ripristinatorio, infatti, è stato costruito in dottrina (M. Nigro) e in giurisprudenza proprio per superare, nel silenzio della legge, la visione meramente caducatoria della sentenza di annullamento, operazione non più necessaria una volta colmata la lacuna in via legislativa.

[18] Va comunque ricordato che in base all’art. 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 l’amministrazione prima di adottare un provvedimento negativo deve comunicare all’interessato i motivi ostativi dando corso a un’ulteriore fase di contraddittorio e questa disposizione potrebbe essere interpretata nel senso che l’amministrazione è tenuta a individuare tutte le possibili ragioni del diniego.  In questo modo, il ricorrente potrebbe impugnare il provvedimento di diniego formulando una gamma di motivi atta a estendere l’oggetto del giudizio e dunque dell’accertamento del giudice in modo tale che nel processo possa essere definitivamente stabilita la spettanza del bene della vita, sempre che non residuino in capo all’amministrazione spazi di discrezionalità.

[19] Il Codice agevola ormai il dispiegarsi di una siffatta dialettica processuale, necessariamente più articolata rispetto a un processo limitato alla contestazione dei vizi del provvedimento impugnato.  Infatti, l’art. 73 introduce accanto agli adempimenti tradizionali in vista dell’udienza di merito costituiti dal deposito dei documenti e delle memorie (rispettivamente 40 e 30 giorni liberi prima dell’udienza), anche le memorie di replica che potrebbero assicurare un contraddittorio più pieno anche in relazione a elementi conoscitivi riversati in giudizio dall’amministrazione e non contenuti nel provvedimento di diniego impugnato.  

[20] Si tratta dei vizi già individuati nell’art. 26 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato 26 febbraio 1924, n. 1054 e ripresi anche nell’art. 21-octies, comma 1, della legge  7 agosto 1990, n. 241 inserito dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15.  

 

[21] Questo termine era già indicato dall’art. 21 della legge Tare ancor prima dall’art. 36 del Testo unico del 1924.

[22] Secondo una nota espressione, nel processo amministrativo “campeggia” l’atto e giustifica la sua natura essenzialmente impugnatoria e cassatoria:  cfr. M. NIGRO, op. cit., p. 229.

[23] Per questa espressione cfr. M. CLARICH, Azione di annullamento, in A. QUARANTA- V. LOPILATO, Commentario al Codice del Processo Amministrativo, in corso di pubblicazione (contributo già reperibile sul sito http://www.giustizia-amministrativa.it).

[24] La posizione della Corte di Cassazione volta a superare la regola della pregiudizialità è espressa anzitutto in S.U. C. Cass, 13 giugno 2006, n. 13659, n. 13660 e 15 giugno 2006, n. 13911 annotata da  M. C. CAVALLARO, in Giorn. di dir. amm., 2006, pag. 1110 e seg.  Per un commento più ampio delle ordinanze cfr. V. FANTI, La “rivoluzione” operata dalla Corte di Cassazione sulla giurisdizione del giudice amministrativo in tema di pregiudiziale amministrativa, in Diritto e processo amministrativo, 2007, pag. 145 e seg.;  P. CARPENTIERI, Il nuovo riparto della giurisdizione, in Foro amm – TAR, 2006, pag. 2760 e seg..  La posizione contraria del Consiglio di Stato emerge nella decisione dell’Adunanza plenaria 22 ottobre 2010 n. 12 che ribadisce, in contrasto con la Cassazione, i propri precedenti.

[25] Che in caso di trasposizione (art. 48 del Codice) si trasforma in un rimedio giurisdizionale ordinario.

[26] L’art. 39, comma 4, dell’articolato proposto dalla Commissione prevedeva infatti che “Nel determinare il risarcimento  il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e può escludere i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o l’invito all’autotutela”. Una disposizione analoga è ora contenuta nell’art. 243-bis, comma 5, del Codice dei contratti pubblici.  Ma anche al di fuori dell’ambito dei contratti pubblici è da ritenere che l’omesso esercizio dei poteri di autotutela, su segnalazione dell’interessato, costituisca elemento valutabile ai fini della quantificazione del danno.

[27] Cfr. art.  124, comma 2, che penalizza la condotta processuale della parte che “senza giustificato motivo” non ha proposto la domanda di conseguire l’aggiudicazione o che non si sia resa disponibile al subentro nel contratto, valutabile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ.