Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo[1]

 

di Roberto Caponigro

Consigliere del TAR Lazio

 

Pubblicato sul Sito l’11 ottobre 2010;

 

Sommario: 1. Il riparto di giurisdizione – 2. La giurisdizione generale di legittimità – 3. La giurisdizione amministrativa “speciale” – 3.1 La giurisdizione esclusiva – 3.2 La giurisdizione di merito – 4. Il cammino verso l’effettività della tutela – 5. La disciplina delle azioni – 5.1 L’azione di annullamento – 5.2 L’azione di condanna – 5.3 L’azione di accertamento – 5.4 Il cumulo di azioni – 6. Le pronunce giurisdizionali – 7. Note conclusive.

 

Premessa.

            Il codice del processo amministrativo, coerentemente con la tradizione della giustizia amministrativa, accanto alla disciplina processuale, affronta anche le questioni sostanziali intimamente connesse e, tra queste, l’ambito della giurisdizione e la tipologia delle azioni proponibili innanzi al giudice amministrativo con le conseguenti pronunce giurisdizionali[2].

 

1. Il riparto di giurisdizione.

Gli artt. 103 e 113 Cost. - nel fondare sulla natura della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio il criterio del riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti atti della pubblica amministrazione - pongono il diritto soggettivo e l’interesse legittimo su un piano di assoluta parità, per cui l’interesse legittimo, che al pari del diritto soggettivo è una posizione sostanziale, riceve dall’ordinamento una protezione ugualmente intensa, anche se con modalità per certi aspetti differenti.

La previsione di cui all’art. 24 Cost., come anche evidenziato dalla sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, garantisce alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implicando che il loro giudice “naturale” sia munito di adeguati poteri[3].

La norma di cui al primo comma dell’art. 7 del codice pone al centro della giurisdizione amministrativa la posizione giuridica soggettiva di cui il ricorrente invoca protezione - vale a dire l’interesse legittimo, o, nelle particolari materie indicate dalla legge, il diritto soggettivo - che può essere lesa, attraverso l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, da provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere[4].

Tale norma segna così un mutamento o, più propriamente, un’evoluzione rispetto al previgente ordinamento in cui al centro della giurisdizione amministrazione era posto, ex art. 26 r.d. 1054/1924 ed art. 2 l. 1034/1971, l’impugnazione del provvedimento per uno dei tre vizi tipici di legittimità[5], ed è di conseguenza coerente con l’essenza del giudizio amministrativo, il cui oggetto, nel tempo, si è evoluto dalla mera verifica di legittimità dell’atto al sindacato sulla correttezza sostanziale della disciplina del rapporto, impresso dall’agire amministrativo o dall’inerzia del titolare del pubblico potere, tanto che è stato costantemente evidenziato, con efficace sintesi, come il processo amministrativo abbia subito una progressiva evoluzione da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto[6].

La norma – in attuazione del vigente assetto costituzionale che disciplina il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in relazione alla posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio – devolve agli organi di giustizia amministrativa le controversie nelle quali si assuma la lesione di un interesse legittimo.

Parimenti, in ossequio al disposto di cui all’art. 103 Cost., prevede che, nelle particolari materie indicate dalla legge, sono devolute alla giurisdizione amministrativa anche le controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi.

Le due posizioni soggettive, la cui sostanzialità è data dal rapporto con un bene della vita, che il titolare mira a conseguire o conservare, preso in considerazione dall’ordinamento e perciò protetto (c.d. lato interno), si differenziano nel c.d. lato esterno, ossia nel rapporto con gli altri soggetti dell’ordinamento.

In particolare, mentre il diritto soggettivo traduce il rapporto con altri soggetti, ivi compresa l’amministrazione pubblica, posti su un piano di parità giuridica e, quindi, disciplinato da norme privatistiche, l’interesse legittimo si caratterizza per essere la posizione in cui versa il destinatario di un atto, o il soggetto che comunque riveste una posizione differenziata e di qualificato interesse rispetto ad un atto autoritativo emanato da una pubblica amministrazione nell’esercizio del potere pubblico o, anche prima dell’adozione dell’atto, il soggetto che entra in un rapporto giuridicamente qualificato con l’esercizio della funzione amministrativa[7].

La radice più profonda della distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo può essere colta con maggiore chiarezza nel caso di interesse legittimo oppositivo, nel quale vi è lo stesso rapporto con il bene della vita che nel diritto soggettivo sussiste prima dell’esercizio del potere (se l’amministrazione comunale adotta un provvedimento di espropriazione, l’espropriato è titolare di un interesse opposto all’esercizio del potere in quanto volto alla conservazione della titolarità dello stesso bene sul quale, prima dell’esercizio del potere, vantava un diritto di proprietà), mentre nell’ipotesi di interesse legittimo pretensivo, prima dell’esercizio del potere, non sussiste alcuna posizione tutelata avente un analogo lato interno.

L’interesse legittimo, insomma, è una situazione ontologicamente collegata all’esercizio autoritativo ed unilaterale del potere amministrativo, sicché, in presenza di un’attività amministrativa, l’individuazione della natura della posizione giuridica contrapposta postula la verifica della presenza o meno di un potere pubblico nell’esercizio del quale l’amministrazione agisce o dovrebbe agire, dovendosi concludere per la posizione di interesse legittimo quando la matrice dell’agere amministrativo è l’esercizio della relativa funzione con moduli autoritativi, e cioè l’attività procedimentalizzata finalizzata alla tutela di un interesse della collettività, per la posizione di diritto soggettivo quando l’amministrazione, ancorchè per la realizzazione di fini pubblici, non agisce in via autoritativa ma con atti paritetici, di diritto privato, alla stregua di un qualunque altro soggetto dell’ordinamento[8].

La giurisdizione generale di legittimità, nell’ambito della quale vengono in rilievo posizioni di interesse legittimo, è quindi caratterizzata dalla circostanza che le controversie attengono a fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisce in via autoritativa, nell’esercizio del potere pubblico ad esso attribuito dalla norma e per la realizzazione del fine collettivo in vista del quale il potere le è stato attribuito, e, nei confronti della relativa attività provvedimentale, è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.

Nella giurisdizione generale di legittimità, infatti, la giurisdizione amministrativa si determina in base alla natura giuridica di interesse legittimo della situazione soggettiva dedotta in giudizio, tutelata tradizionalmente con l’annullamento dell’atto nonché, quando è dedotta in giudizio una posizione pretensiva, attraverso le prescrizioni conformative, contenute nella pronuncia giurisdizionale di accoglimento, della successiva attività amministrativa, ed oggi tutelata con un ventaglio di azioni, e corrispondenti pronunce, più vario ed articolato, tra cui spicca l’azione di condanna al risarcimento del danno.

Il termine generale indica che la giurisdizione amministrativa di legittimità - essendo il giudice amministrativo il giudice “naturale” o “ordinario” della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica e, quindi, delle controversie tra cittadini e pubblici poteri - riguarda la generalità delle controversie in cui sono dedotti interessi legittimi, a differenza della giurisdizione esclusiva e della giurisdizione estesa al merito che, per differenti ragioni, non hanno carattere generale, ma “speciale”, potendo essere esercitate solo con riferimento a materie tassativamente indicate dalla legge.

Il primo comma dell’art. 7, nel prevedere la possibile devoluzione al giudice amministrativo di materie in giurisdizione esclusiva, specifica che la devoluzione ope legis alla giurisdizione amministrativa delle controversie nelle quali si faccia riferimento di diritti soggettivi può riguardare particolari materie concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere posti in essere da pubbliche amministrazioni.

Tale disposizione recepisce le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale sulla questione dei limiti che il legislatore ordinario deve rispettare nel disciplinare, ampliandola, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[9].

La Corte Costituzionale ha tra l’altro evidenziato come debba escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario, esercitando il potere discrezionale suo proprio, deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici.

In particolare, ha rilevato che il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie.

Tale necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive - e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa - è espresso dall'art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.

Il legislatore ordinario, pertanto, ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della" pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.

In definitiva, il supremo giudice delle leggi ha escluso che la giurisdizione esclusiva possa radicarsi sul dato, puramente oggettivo, della mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio o del normale coinvolgimento nelle controversie di un generico pubblico interesse, mentre può estendersi solo a controversie nelle quali la pubblica amministrazione esercita – sia pure mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - un pubblico potere.

In altri termini, deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere considerata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.

La disposizione introdotta nel primo comma dell’art. 7 del codice del processo amministrativo, nell’evidenziare che la devoluzione al giudice amministrativo delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi può avvenire con riferimento a atti, accordi e comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di un pubblico potere, esprime esattamente il concetto evidenziato dalla Corte Costituzionale.

Il terzo comma dell’art. 7 sancisce che la giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva e di merito.

 

2.            La giurisdizione generale di legittimità

La giurisdizione generale di legittimità è la giurisdizione di cui è normalmente titolare il giudice amministrativo, quale giudice “naturale” della legittimità dell’esercizio del pubblico potere, quando la posizione giuridica dedotta in giudizio è di interesse legittimo ed in tal senso si definisce generale, mentre la giurisdizione esclusiva e la giurisdizione estesa al merito non hanno carattere generale, ma speciale, in quanto, come in precedenza evidenziato, si riferiscono alle sole materie tassativamente indicate dalla legge[10].

         La giurisdizione di legittimità è stata ritenuta tradizionalmente coincidente con l’azione di annullamento, atteso che la tutela dell’interesse legittimo è stata storicamente assicurata attraverso lo strumento dell’annullamento dell’atto.

         L’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, infatti, fu dettata, dalla constatata inadeguatezza, a fini garantistici, dello strumento della disapplicazione attribuito al giudice ordinario, per cui le ragioni del privato a fronte del possibile esercizio illegittimo del potere autoritativo delle amministrazioni pubbliche furono tutelate con un’azione di annullamento del provvedimento amministrativo che di quel potere costituisce la concreta espressione[11].

         La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione originaria del processo amministrativo come un processo improntato sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi, la cui soddisfazione è data da un non facere del potere pubblico, in relazione ai quali l’annullamento dell’atto si presenta solitamente esaustivo.

         Con il proliferare di situazioni sempre nuove nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini e, soprattutto, con la presa di coscienza che, accanto all’interesse legittimo oppositivo, esiste anche un interesse di tipo pretensivo, per la soddisfazione del quale non è sufficiente la sentenza di annullamento dell’atto lesivo se non accompagnata da un agire positivo dell’amministrazione nel riesercizio del potere, è venuta in luce, in primo luogo, l’importanza delle prescrizioni conformative dell’attività amministrativa contenute nella parte motiva della sentenza di accoglimento del ricorso, e si è altresì acquisita coscienza del fatto che la sola azione di annullamento sarebbe potuta essere insufficiente per una completa e satisfattiva tutela dell’interesse legittimo; è così emerso un fiorente dibattito sulla possibilità di sindacare l’esercizio del potere pubblico, o l’inerzia dell’amministrazione, anche attraverso domande diverse da quella di annullamento.

         Il codice del processo amministrativo ha tenuto conto delle mutate esigenze di tutela, che avevano già portato ad introdurre una disciplina dei ricorsi avverso il silenzio e per l’accesso agli atti e, prima in via giurisprudenziale, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/1999, e poi in via legislativa, ad introdurre l’azione risarcitoria del danno derivante da lesione di interesse legittimo, ed ha adeguato la struttura processuale estendendola ad un più ampio ambito di azioni e di mezzi di tutela[12].

         In tal modo, il principio di effettività e di pienezza della tutela dell’interesse legittimo, come più diffusamente si vedrà infra, ha trovato attuazione - sia pure in misura ridotta rispetto a quella ipotizzata dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, che aveva previsto anche l’azione di accertamento e l’azione di adempimento – nella disciplina delle azioni, contenuta negli artt. 29 e ss. del codice, e nella disciplina delle pronunce giurisdizionali di cui al titolo IV.

        

3.            La giurisdizione amministrativa “speciale”.

La giurisdizione esclusiva e la giurisdizione estesa al merito non hanno carattere generale ma speciale ed incidono, rispettivamente, sul limite interno e sul limite esterno della giurisdizione amministrativa.

Le fattispecie di giurisdizione esclusiva incidono sul limite interno della giurisdizione in quanto alterano la linea di confine tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, devolvendo alla giurisdizione amministrativa, in particolare materie, controversie afferenti a diritti soggettivi, le quali, in assenza della specifica norma di legge attributiva della giurisdizione amministrativa esclusiva, rientrerebbero normalmente nella giurisdizione ordinaria.

L’attribuzione in determinate materie di giurisdizione di merito al giudice amministrativo, di contro, costituisce una deroga al c.d. limite esterno, in quanto il giudice non si limita al solo sindacato di legittimità dell’attività amministrativa, ma, in taluni casi, valuta anche profili di opportunità, convenienza, utilità ed equità e, comunque, può sostituirsi all’amministrazione.

In altri termini, mentre i casi di giurisdizione esclusiva costituiscono eccezione alla regola che individua l’oggetto della tutela della giustizia amministrativa nell’interesse legittimo, la giurisdizione di merito costituisce eccezione alla regola che individua l’ambito del sindacato giurisdizionale nella verifica della sola legittimità dell’azione amministrativa o, per meglio dire, in una prospettiva evolutiva, della correttezza sostanziale della disciplina del rapporto controverso impressa dal provvedimento.

Ne consegue che, mentre i casi di giurisdizione esclusiva costituiscono una deroga al limite interno, atteso che al giudice amministrativo è attribuita la cognizione di controversie inerenti a diritti soggettivi, la cui tutela spetterebbe al giudice ordinario, le ipotesi di giurisdizione di merito costituiscono una deroga al limite esterno in quanto, in presenza di attività amministrativa discrezionale, implicano il sindacato del giudice amministrativo in ordine a profili, attinenti appunto al merito amministrativo, che normalmente gli sono sottratti perché assistiti da quella che potrebbe definirsi “riserva dell’amministrazione” nei confronti del giudice e, in presenza di attività amministrativa vincolata, implicano comunque la sostituzione del giudice all’amministrazione nell’adozione, modifica o riforma dell’atto[13].

La giurisdizione amministrativa estesa al merito, quindi, attiene ai rapporti tra il potere esecutivo ed il potere giurisdizionale, mentre la giurisdizione esclusiva attiene ai rapporti tra differenti plessi giurisdizionali nell’ambito dello stesso potere costituzionale, sicché, in entrambi i casi, le previsioni legislative devono ritenersi eccezionali ed insuscettibili di applicazione analogica.

Le materie di giurisdizione esclusiva e di giurisdizione estesa al merito sono previste, rispettivamente, dagli artt. 133 e 134 del codice, in applicazione degli specifici principi dettati dall’art. 44, co. 2, lett. b), l. 69/2009, recante delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo[14].

 

3.1 La giurisdizione esclusiva.

          La tecnica utilizzata dal legislatore delegato è stata quella del recepimento di tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva contemplate da altri testi normativi, con conseguente abrogazione delle disposizioni originarie, e di inserimento di nuove fattispecie, fatte salve, ovviamente, ulteriori previsioni di legge attributive di tale giurisdizione[15].

           Le novità più significative sono contenute nelle lett. e1), g), l) e nella seconda parte della lett. p) dell’art. 133.

La fattispecie di cui alla lett. e1) estende la giurisdizione esclusiva alle controversie relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e “con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative”.

La norma è connessa alle modifiche introdotte a seguito del recepimento della direttiva 2007/66/CE, c.d. direttiva ricorsi, dagli artt. 121 e ss. del codice.

La ratio delle norme comunitarie di cui alla citata direttiva può essere individuata nella preoccupazione, essendo difficilmente reversibili le conseguenze giuridiche e materiali di un contratto stipulato con il concorrente la cui aggiudicazione è contestata, di non assicurare una tutela pienamente satisfattiva al concorrente che propone un ricorso e, quindi, nell’esigenza di garantire in materia di appalti una tutela processuale effettiva e celere.

I criteri direttivi di cui all’art. 44, co. 3, lett. h), della legge delega 88/2009 hanno attribuito al giudice che annulla l’aggiudicazione la scelta, in funzione del bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, tra privazione di effetti retroattiva o limitata alle prestazioni da eseguire, tra privazione di effetti del contratto e relativa decorrenza e sanzioni alternative, tra privazione degli effetti del contratto e relativa decorrenza ovvero risarcimento per equivalente del danno subito e comprovato.

Di talché, avendo altresì stabilito di recepire i relativi articoli della direttiva comunitaria nell’ambito di una giurisdizione esclusiva e di merito, il legislatore nazionale delegante ha inteso attribuire al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva non solo sulle controversie afferenti agli atti della gara, ma anche, in sede di cognizione, sulla efficacia del contratto medio tempore stipulato e tale volontà si è concretizzata per l’appunto con la previsione di cui alla lett. e1) dell’art. 133 del codice del processo amministrativo.

La annosa e complessa disputa sul riparto di giurisdizione in materia di effetti sul contratto conseguenti all’annullamento dell’aggiudicazione, pertanto, può ritenersi ormai consegnata alla “storia” del diritto[16].

Nella fattispecie delineata dalla lett. g) dell’art. 133, secondo cui sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva “le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”, il legislatore delegato, nella materia di cui all’art. 53 d.P.R. 327/2001, ha tenuto conto della sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 191/2006 nonché dei principi posti dalla stessa Corte con sentenza n. 204/2004, con la conseguente precisazione che la giurisdizione amministrativa in materia espropriativa concerne anche i comportamenti, vale a dire tutto ciò che non si è tradotto in provvedimenti o atti, a condizione che gli stessi siano riconducibili, sia pure mediatamente all’esercizio del potere pubblico.

Analogamente, la seconda parte della lett. p), nell’attribuire alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati, nel riferirsi all’esercizio di un pubblico potere, ha tenuto verosimilmente conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 35/2010[17].

Nel previgente regime, infatti, l’art. 4 del d.l. 90/2008, convertito in legge con modificazioni dalla l. 123/2008, si limitava a devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti dell’amministrazione pubblica o dei soggetti alla stessa equiparati, senza alcun riferimento, quindi, all’esercizio di un pubblico potere.

La lett. l) dell’art. 133 ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalle Autorità indipendenti (Banca d’Italia, Consob, Autorità antitrust, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità per l’energia elettrica e il gas e altre Autorità istituite ai sensi della legge 481/1995, Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Commissione vigilanza sui fondi pensione, Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità della pubblica amministrazione, Isvap).

Nel previgente regime normativo, la giurisdizione sulle controversie relative agli atti sanzionatori emessi dalle Autorità era talvolta attribuita al giudice ordinario.

In particolare, nei settori creditizio e mobiliare, gli artt. 145 d.lgs. 385/1993 e 195 d.lgs. 58/1998 prevedevano la giurisdizione ordinaria, e specificamente la competenza della Corte d’Appello di Roma, per le controversie afferenti alle sanzioni irrogate, rispettivamente, dalla Banca d’Italia e dalla Consob.

La norma ha pertanto omogeneizzato le diverse fattispecie anche in considerazione della stretta connessione tra il potere di vigilanza, qualificabile come servizio pubblico ex art. 33 d.lgs. 80/1998, ed il potere sanzionatorio[18].

 

3.2      La giurisdizione di merito.

            Per giurisdizione di merito, nell’accezione prevalente, si intende un sindacato pieno sul corretto e congruo esercizio del potere amministrativo in quanto connotato da peculiari poteri di cognizione, di istruzione e di decisione.

Per quanto attiene alla cognizione, l’estensione al merito esprime il pieno controllo operabile dal giudice amministrativo con riferimento non solo a tutti gli aspetti concernenti la legittimità, ma anche ai profili attinenti alla adeguatezza dell’attività istruttoria ovvero, ove il provvedimento impugnato costituisca esercizio di potestà amministrativa discrezionale, alla convenienza, opportunità ed equità delle determinazioni adottate.

Di qui, il corollario secondo cui, a fronte del più esteso ambito di cognizione, i poteri istruttori del giudice sono gli stessi che potrebbe esercitare l’amministrazione di settore competente e, d’altra parte, è evidente che, se il giudice deve sostituirsi all’amministrazione, deve avere le possibilità di indagine e conoscenza riconosciute al potere pubblico ai fini dell’adozione delle scelte vincolate e, soprattutto, discrezionali. 

I poteri decisori del giudice amministrativo investito di giurisdizione di merito sono più ampi di quelli relativi alla giurisdizione di legittimità e sono stati per la prima volta individuati dall’art. 26, co. 2 e 3, l. 1034/1971, secondo cui il Tribunale Amministrativo Regionale, quando è investito di giurisdizione di merito, se accoglie il ricorso, può anche riformare l’atto o sostituirlo nonché può condannare l’amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti debitrice.

Nel codice del processo amministrativo, l’art. 34, co. 1, lett. d), dispone che, nei casi di giurisdizione di merito, il giudice adotta un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato.

Di talché, a fronte di una facoltà attribuita al giudice di riformare o sostituire l’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso, la nuova norma sembra disegnare in termini di doverosità da parte del giudice l’adozione di un nuovo atto ovvero la modifica o riforma di quello impugnato.

Con la pronuncia di merito, in ogni caso, il giudice amministrativo può dettare direttamente la regola del rapporto disciplinato in modo illegittimo dal provvedimento impugnato ed in tal senso svolge un’attività sostitutiva dell’attività amministrativa.

Infatti, l’art. 7, co. 6, del codice sancisce che, nell’esercizio della giurisdizione con cognizione estesa al merito, il giudice amministrativo può (più propriamente “deve”) sostituirsi all’amministrazione.

Ciò, peraltro, non impedisce che si sia in presenza di un’attività sia formalmente sia sostanzialmente giurisdizionale[19].

L’art. 134 del codice individua la giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto:

a)     l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del giudizio di cui al Titolo I del Libro IV;

b)     gli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa;

c)     le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti;

d)     la contestazione sui confini degli enti territoriali;

e)     il diniego di rilascio di nullaosta cinematografico di cui all’art. 8 della legge 21 novembre 1962, n. 161.

Pertanto, in attuazione della delega, il codice ha previsto la soppressione di una molteplicità di fattispecie, precedentemente contenute nei TT.UU. 1054/1924 e 1058/1924, non più coerenti con l’ordinamento vigente, tanto che nelle fattispecie oggi qualificate sono rimaste in vigore solo quelle afferenti al giudizio di esecuzione del giudicato, alle contestazioni sui confini territoriali ed al diniego di rilascio di nulla osta cinematografico, mentre è stata espunta finanche l’ipotesi, pure inserita dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato nello schema del codice, dei provvedimenti contingibili ed urgenti emanati dal Sindaco.

            Le materie di giurisdizione amministrativa con cognizione estesa al merito previste dal codice presentano caratteristiche molto diverse l’una dall’altra.

Il giudizio di ottemperanza ne costituisce da sempre la fattispecie più importante ed il decreto legislativo n. 104/2010 si riferisce opportunamente non solo all’attuazione del giudicato, ma anche all’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive.

In particolare, l’art. 112, co. 2, del codice prevede che l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione:

a)     delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato;

b)     delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;

c)     delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato;

d)     delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione;

e)     dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.

La peculiarità di tale giudizio nasce dal fatto che il dovere dell’amministrazione di eseguire la sentenza non riguarda solo gli effetti eliminatori e ripristinatori della pronuncia, ma anche il momento rinnovatorio, del riesercizio del potere, rispetto al quale rileva particolarmente l’effetto conformativo della sentenza[20].

In particolare, quando il giudice amministrativo annulla l’atto, lo elimina perché ritiene che l’assetto del rapporto fra ricorrente ed amministrazione (ed eventuali controinteressati) non possa essere regolato da quel provvedimento, sia pure sotto il profilo dei vizi dedotti dal ricorrente, e tale statuizione, se produce certamente l’effetto di vietare all’amministrazione di riprodurre l’atto annullato, ove l’unica alternativa possibile in senso satisfattivo per il ricorrente sia quella dell’emanazione di un altro atto con un certo contenuto, assume anche un carattere ripristinatorio qualificato, perché l’assetto del rapporto non potrà essere ormai definito che con l’emanazione di quell’atto, il che significa che il giudicato produce, unitamente all’effetto demolitorio ed a quello preclusivo, anche un effetto ordinatorio direttamente incidente sul rapporto[21].

In definitiva, accanto all’effetto demolitorio e ripristinatorio, direttamente derivanti dal dispositivo di annullamento, il giudicato produce l’effetto conformativo della successiva attività amministrativa, in relazione al quale assume rilievo fondamentale la motivazione della sentenza.

L’esigenza di esecuzione della sentenza, ovviamente, si pone per le pronunce non autoesecutive, vale a dire per quelle che decidono controversie in cui sono dedotti interessi legittimi pretensivi (in cui l’interessato mira al conseguimento di un bene), ovvero anche per quelle in cui sono dedotti interessi legittimi oppositivi (in cui l’interessato mira alla conservazione di un bene) e vi sia un’attività da rimuovere, posta in essere dall’amministrazione in attuazione del provvedimento annullato.

Va da sé che l’esecuzione della sentenza è tanto più complessa quanto maggiori sono gli spazi di discrezionalità che l’amministrazione conserva a seguito dell’annullamento giurisdizionale.

Nel caso di inerzia dell’amministrazione tenuta all’esecuzione, il giudice amministrativo si sostituisce ad essa adottando, eventualmente per mezzo di un commissario ad acta, gli atti esecutivi della sentenza in modo da adeguare la situazione di fatto a quella di diritto o, più propriamente, in modo da soddisfare l’interesse sostanziale del ricorrente, vale a dire in modo da attribuire, ove spettante, il bene della vita al quale egli aspirava con la proposizione del ricorso in esito al quale è stata pronunciata la sentenza di accoglimento e di annullamento da eseguire.

L’art. 114, co. 2, lett. a), del codice precisa che il giudice dell’ottemperanza, in caso di accoglimento del ricorso, ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione, mentre la successiva lett. c) prevede che, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano.

In tal modo è possibile cogliere l’essenza del potere decisorio di merito che consente di ottenere dal giudice amministrativo una attività sostitutiva nei confronti dell’amministrazione inadempiente, quando essa cioè non si sia conformata spontaneamente al caso deciso o alla sentenza esecutiva di primo grado.

Nel giudizio di ottemperanza, insomma, l’estensione della giurisdizione al merito amministrativo è chiaramente percepibile.

Il giudizio di ottemperanza al giudicato, o alle sentenze esecutive rese dai tribunali amministrativi regionali, peraltro, ha natura di giudizio necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione; quest’ultima componente sussiste quando il giudizio di ottemperanza concorre ad identificare la volontà concreta della legge o a formare la normativa del caso concreto, riempiendo gli spazi lasciati vuoti dal giudizio di cognizione circa l’assetto del rapporto.

La natura anche cognitoria del giudizio di ottemperanza, in particolare, emerge nell’ipotesi di attività amministrativa vincolata quando la fondatezza della pretesa non sia stata accertata nel giudizio di cognizione e, in misura ancora più evidente, nell’attività amministrativa discrezionale quando l’attività che l’amministrazione avrebbe dovuto porre in essere in esecuzione della sentenza non sia stata del tutto conformata dalla sentenza da eseguire, residuando margini di discrezionalità da esercitare in sede di esecuzione.

In entrambe le ipotesi, di attività vincolata e discrezionale, vi è la sostituzione del giudice all’amministrazione, ma, nel riesercizio di un potere amministrativo discrezionale, per nulla o non del tutto conformato, è evidente la valutazione diretta dell’interesse pubblico che, in caso di inottemperanza dell’amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a compiere ed in questo può cogliersi la più profonda essenza della giurisdizione estesa al merito.

Il codice include tra le materie di giurisdizione estesa al merito gli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa, atteso che, ai sensi dell’art. 130, co. 9, il tribunale amministrativo regionale, nel rito relativo alle operazioni elettorali di comuni, province e regioni, quando accoglie il ricorso, corregge il risultato delle elezioni e sostituisce ai candidati illegalmente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo.        

L’estensione al merito in tale materia ha una connotazione molto diversa rispetto alla precedente in quanto la sostituzione dell’autorità giurisdizionale all’autorità amministrativa si concreta nel porre in essere gli atti esecutivi della sentenza di annullamento, ma senza alcun apprezzamento diretto dell’interesse pubblico.

In altri termini, nel caso di specie, si ha una sorta di anticipazione dell’esecuzione alla cognizione, ma senza alcun esercizio di potere amministrativo discrezionale da parte del giudice in quanto l’attività oggetto di sostituzione è totalmente vincolata.

L’art. 134 del codice opportunamente include tra le materie di giurisdizione estesa al merito quella relativa alle sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti.

L’espresso inserimento di tale materia tra quelle di estensione al merito, che si aggiunge alla devoluzione alla giurisdizione amministrativa esclusiva delle controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori (ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati), adottati dalle Autorità indipendenti, omogeneizza le diverse normative in materia, non sempre tra loro coerenti.

Con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in particolare, la giurisprudenza aveva ritenuto, in ordine alle sanzioni irrogate per la formazione di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza o per l’abuso di posizione dominante, che la giurisdizione del giudice amministrativo si estendesse al merito ai sensi dell’art. 23 l. 689/1981, applicabile in virtù del richiamo contenuto nell’art. 31 l. 287/1990, sicché il Tribunale, oltre ad annullare in tutto o in parte l’atto, poteva anche modificare lo stesso limitatamente all’entità della sanzione dovuta[22], mentre, in ordine alle sanzioni applicate per pratica commerciale scorretta, era stato ritenuto dubbio, ai sensi dell’art. 27, co. 13, d.lgs. 206/2005, che il giudice amministrativo potesse esercitare giurisdizione di merito, atteso che il Tribunale avrebbe potuto solo annullare in tutto o in parte l’atto, ma non anche modificare lo stesso relativamente all’entità della sanzione dovuta[23].

            La giurisdizione attribuita al giudice amministrativo in materia di contestazione sui confini territoriali non è circoscritta alla semplice verifica di legittimità dell’atto impugnato, ma si espande all’intero rapporto controverso con poteri di pieno accertamento dei fatti, al fine di dare l’assetto definitivo al rapporto medesimo.

Nell’esercizio di tali poteri, tuttavia, il giudice amministrativo non crea nuovi confini, ma deve limitarsi ad accertare quelli esistenti[24].

            Pertanto, anche in tal caso, così come per la giurisdizione in materia elettorale, la sostituzione del giudice amministrativo all’amministrazione si concreta nell’esercizio di un potere del tutto vincolato, laddove, nell’ipotesi del giudizio di ottemperanza quando il riesercizio del potere discrezionale non è completamente conformato dalla sentenza da eseguire, nelle controversie inerenti le sanzioni pecuniarie e nelle controversie aventi ad oggetto il diniego di rilascio di nulla osta cinematografico, l’attività sostitutiva afferisce strettamente al merito amministrativo, avendo il giudice la facoltà (e il dovere) di compiere egli stesso valutazioni circa l’opportunità, la convenienza o la proporzionalità (come nel caso delle sanzioni pecuniarie da modificare nel quantum) dell’azione amministrativa.

In definitiva, dalla natura delle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa di merito, si ricava che, mentre in taluni casi il giudizio attiene realmente al merito amministrativo, in altri casi una valutazione di opportunità non è nemmeno astrattamente configurabile.

Peraltro - sebbene non sia stata espressamente qualificata come giurisdizione con cognizione estesa al merito, ma solo come giurisdizione esclusiva - anche la giurisdizione relativa alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione nonché alle sanzioni alternative, ad avviso di chi scrive, comporta, in funzione del bilanciamento degli interessi, apprezzamenti diretti dell’interesse pubblico e, quindi, una valutazione del merito amministrativo.

L’art. 121 del codice, infatti, attribuisce al giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva il potere di dichiarare, nei casi tipizzati di gravi violazioni, l’inefficacia del contratto precisando, in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva; il secondo comma di tale articolo, peraltro, dispone che, anche in presenza delle violazioni per le quali dovrebbe essere dichiarata l’inefficacia, il contratto resta efficace qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale (ad esempio, esigenze imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale) imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace o l’inefficacia sia temporalmente limitata si applicano le sanzioni alternative di cui all’art. 123 (id est: sanzione pecuniaria nei confronti della stazione appaltante ovvero riduzione della durata del contratto).

Al di fuori delle ipotesi qualificate come violazioni più gravi, il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva, ai sensi dell’art. 122, stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta; se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato.

Pertanto, nonostante in sede di elaborazione del decreto sia stata espunta al primo comma la locuzione “esclusiva e di merito” per qualificare la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla privazione di effetti del contratto e alle sanzioni alternative, il corpus normativo sembra attribuire al giudice amministrativo una giurisdizione non solo esclusiva ma anche comprensiva di valutazioni che, afferendo alla comparazione ed alla ponderazione diretta degli interessi pubblici e privati coinvolti dalla fattispecie concreta, si estendono alla sfera del merito amministrativo[25].

Infatti, non solo è attribuita, in sede di cognizione, la giurisdizione a pronunciare sugli effetti del contratto, ma è attribuito anche il potere-dovere di esercitare un’attività di valutazione dell’interesse pubblico sostitutiva di quella che potrebbe essere svolta dall’amministrazione.

Le nuove attribuzioni in materia di effetti sul contratto e sanzionatori a seguito dell’aggiudicazione definitiva, in sostanza, sembrano permeate proprio da quella valutazione diretta degli interessi pubblici e privati coinvolti dall’azione amministrativa che costituisce l’essenza più profonda del merito amministrativo e comportano che lo stesso giudice sia chiamato a sostituire all’assetto di interessi dettato dall’amministrazione con il provvedimento impugnato ed annullato all’esito del ricorso l’assetto di interessi che ritiene, sulla base anche di valutazioni di opportunità, di convenienza e di buona amministrazione, il più idoneo a regolare il rapporto controverso[26].

Sempre in tema di valutazioni giurisdizionali afferenti al merito dell’azione amministrativa, occorre rilevare che il giudice amministrativo, nel giudizio risarcitorio, è chiamato a sostituirsi in via ipotetica all’amministrazione al fine di compiere un giudizio prognostico sull’effettiva spettanza del bene della vita.

La risarcibilità del danno da lesione dell’interesse legittimo, infatti, presuppone che il danno sia ingiusto e cioè che l’attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento, sicché, per gli interessi legittimi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del provvedimento richiesto o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, il giudice deve valutare la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente e tale valutazione implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell’istanza[27].

E’ soltanto la lesione del bene della vita, insomma, che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione, o dalla sua inerzia, e lo rende risarcibile.

Il giudice, pertanto, non può accogliere l’istanza risarcitoria a prescindere dalla formulazione di un giudizio sulla certa o probabile spettanza dell’utilità finale, ma il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, elemento psicologico, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento era destinata, certamente o probabilmente, ad un esito favorevole.

La sostituzione del giudice all’amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria, è tanto più evidente quanto più sono intensi i margini di valutazione discrezionale rimessi all’amministrazione nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita.

 In tale ipotesi, è stato prospettato il rischio di un’ingerenza del giudice – chiamato a formulare il giudizio prognostico sul bene non ottenuto con la determinazione illegittima ed annullata – nella sfera esclusiva dell’amministrazione, quella relativa al merito amministrativo e alle valutazioni di pura opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva dell’ottimale perseguimento dell’interesse pubblico.

Pertanto, nel previgente ordinamento, un cospicuo orientamento giurisprudenziale aveva escluso che nei casi connotati dalla persistenza in capo all’amministrazione di significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, il giudice potesse indagare sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l’amministrazione, riesercitato il potere, avesse riconosciuto all’istante il bene stesso, nel qual caso il danno ristorabile non potrebbe che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene[28].

Tale orientamento, che pure coglie nitidamente i termini del problema, ad avviso di chi scrive, non è del tutto persuasivo[29] e, comunque, non può ritenersi condividibile nella nuova struttura codicistica.

In primo luogo, se non sussiste incertezza sul fatto che, a seguito dell’annullamento giurisdizionale, l’amministrazione è tenuta a riesercitare il proprio potere discrezionale nei limiti della portata conformativa della pronuncia giurisdizionale, è altrettanto vero che, al fine di verificare la spettanza dell’utilità richiesta con la presentazione dell’istanza, il riesercizio del potere discrezionale dovrebbe avvenire sulla base delle stesse situazioni di fatto e di diritto esistenti al momento dell’adozione del provvedimento annullato, il che non sempre è possibile (si pensi, ad esempio, ad un diniego di promozione annullato quando il dipendente è ormai in quiescenza o ad un diniego di un qualsiasi atto accrescitivo della sfera giuridica di un soggetto non più vivente).

In tali ultimi casi, non sussistendo più le condizioni affinché l’adozione di un eventuale atto positivo possa effettivamente attribuire all’interessato l’utilità a suo tempo sperata, all’amministrazione non resterebbe che riesercitare, virtualmente ed ora per allora, il potere discrezionale, con la conseguenza che un eventuale ulteriore diniego costringerebbe il ricorrente o i suoi eredi ad una nuova impugnativa e così via.

La problematicità della questione, però, si delinea con maggiore evidenza con l’entrata in vigore del codice, atteso che, essendo stata introdotta la possibilità dell’azione risarcitoria autonoma, se l’azione risarcitoria non si accompagna all’azione di annullamento, il giudizio di illegittimità dell’atto causativo del danno deve essere necessariamente condotto in via incidentale e non producendo, ovviamente, l’annullamento dello stesso non impone all’amministrazione alcun obbligo di riesercizio del potere nei confronti del quale, peraltro, il ricorrente, avendo optato per l’azione risarcitoria autonoma, non ha mostrato alcun interesse.

All’assenza dell’obbligo dell’amministrazione di riesercizio del potere consegue che il giudice, al fine di decidere sulla domanda risarcitoria, è tenuto a compiere il giudizio prognostico anche nell’ipotesi di provvedimento discrezionale, con valutazione diretta del merito amministrativo.

 

4.  Il cammino verso l’effettività della tutela.

L’effettività della tutela giurisdizionale è la capacità del processo di conseguire risultati nella sfera sostanziale, vale a dire di garantire la soddisfazione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio dal ricorrente il cui ricorso, rivelandosi fondato, sia stato accolto.

Il problema dell’effettività della tutela è stato sempre avvertito ed il processo amministrativo, nel tempo e, in particolare, con l’emersione degli interessi legittimi pretensivi, ha denotato difficoltà per il fatto di essere strutturato come processo su atti, mentre esso è il luogo di esercizio della giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali, sicché dovrebbe assumere rilievo proprio il rapporto sostanziale al quale le pretese ineriscono[30].

L’inefficacia del solo giudizio di impugnazione a conseguire risultati sempre apprezzabili nella sfera sostanziale del ricorrente può essere colta con riferimento alla previgente disciplina del giudizio in materia di appalti, per il quale è stato sostenuto che, una volta stipulato ed eseguito il contratto, in assenza anche di un’azione di risarcimento, al privato non sarebbe rimasto che “mettere in cornice” la sentenza di annullamento quale soddisfazione di un interesse meramente morale[31].

La norma di cui all’art. 44 della legge delega n. 69/2009 per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, non a caso, ha indicato tra i principi e i criteri direttivi di “assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela” e di disciplinare le azioni e le funzioni del giudice “prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”.

L’art. 1 del codice stabilisce altresì, collocando l’effettività della tutela al primo posto tra i principi generali, che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.

La disciplina delle azioni, con la relativa previsione di pronunce giurisdizionali idonee a soddisfare l’interesse sostanziale dedotto in giudizio, in quanto determina l’effettivo grado di tutela predisposta dall’ordinamento alla posizione giuridica, può ritenersi, pertanto, il più significativo tra tutti i criteri di delega.

Di conseguenza, la codificazione ha avuto come scopo l’effettività e l’effettività è il principio che dovrebbe connotare il nuovo processo, atteso che il codice, completando un percorso che ha caratterizzato la legislazione e la giurisprudenza dell’ultimo decennio, ha inteso introdurre dinanzi al giudice amministrativo il principio della pluralità delle azioni al fine di garantire ogni più ampia possibilità di tutela per le posizioni giuridiche soggettive devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo[32].

L’ampiezza delle azioni a tutela delle posizioni di interesse legittimo, peraltro, come già si è avuto modo di evidenziare, è stata ridotta in misura significativa rispetto al testo elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato per effetto del venire meno della disciplina delle azioni di accertamento e di adempimento, che ne avrebbero costituito una delle innovazioni più pregnanti, anche se, valorizzando le possibilità offerte dalle disposizioni codicistiche, tale riduzione potrebbe rivelarsi più formale che sostanziale.

 

5.      La disciplina delle azioni.

Nel diritto processuale, le azioni si distinguono in ragione della natura del provvedimento giurisdizionale cui l’azione tende e, di converso, il potere del giudice di adottare una determinata pronuncia sussiste in quanto ad esso sia correlata una corrispondente azione.

Nel codice del processo amministrativo è stata inserita una specifica disciplina delle azioni, pur non essendo questa presente nel codice di procedura civile, ed una disciplina delle pronunce giurisdizionali.

La disciplina delle azioni precede quella delle pronunce del giudice, per cui il processo amministrativo si sviluppa ora lungo un cammino che, prendendo l’avvio dalle posizioni giuridiche soggettive, passa per i relativi bisogni di tutela, le azioni ammissibili e le corrispondenti tipologie di sentenze.  

Le azioni di cognizione sono previste dal capo II del titolo III del libro I (artt. 29 e ss.) e le norme sono redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle stesse in azioni di annullamento (costitutive), di accertamento (dichiarative) e di condanna, sia pure nell’ambito delle specificità dei giudizi amministrativi.

 

5.1      L’azione di annullamento.

L’azione di annullamento è l’archetipo delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo e, d’altra parte, la genesi della giurisdizione amministrativa affonda le proprie radici nell’esigenza di attribuire al giudice amministrativo la potestà di annullamento.

L’art. 29, primo articolo del capo del codice relativo alle azioni di cognizione, è così dedicato all’azione di annullamento e ciò costituisce un consistente indizio della sua permanente centralità nel sistema della giurisdizione generale di legittimità, centralità che, sia ontologicamente che in ragione della disciplina cui è stata assoggettata l’azione risarcitoria, non può ritenersi incisa neppure dalla introduzione della facoltà di esperire un’azione risarcitoria autonoma[33].

La tutela principale dell’interesse legittimo, in definitiva, continua ad essere incentrata sull’azione di annullamento, vale a dire sulla eliminazione dell’atto annullato in esito all’eventuale accoglimento del ricorso, pur nella consapevolezza che, se la stessa può rivelarsi esaustiva ove siano stati dedotti in giudizio interessi oppositivi, sovente non è parimenti satisfattiva ove siano stati dedotti interessi pretensivi.

 Tale tutela di annullamento, nel codice, è resa più penetrante, nel caso di sentenze non autoesecutive, in ragione dei poteri attribuiti al giudice nel pronunciare la sentenza di merito.

La norma relativa all’azione di annullamento si limita a ribadire che la stessa può essere proposta nel termine decadenziale di sessanta giorni per i tre vizi tipici di legittimità dell’atto, vale a dire per incompetenza e violazione di legge (possibili vizi del provvedimento amministrativo esercizio di potere vincolato o discrezionale) o eccesso di potere (vizio afferente alla sola attività amministrativa discrezionale).

         Tuttavia, nell’ottica di perseguire una maggiore effettività della tutela con riferimento all’azione di annullamento, o, più propriamente delle pronunce ad essa conseguenti, può comunque cogliersi una prima significativa novità apportata dal codice al regime previgente.

Infatti, mentre gli artt. 45 r.d. 1054/1924 e 26 l. 1034/1971 all’accoglimento del ricorso ed all’annullamento dell’atto facevano comunque seguire la salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’Autorità amministrativa, la nuova normativa non prevede più tale formula, ma, all’art. 34, co. 1, lett. e), stabilisce che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice, nei limiti della domanda, dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza.        

         In tal modo, mentre nel sistema precedente, all’effetto demolitorio del provvedimento annullato e ripristinatorio dello status quo ante si accompagnava l’effetto conformativo, con cui il giudice, nella parte motiva della sentenza di accoglimento, impartiva, in ragione della natura vincolata o discrezionale dell’attività sottoposta al proprio scrutinio di legittimità e dell’eventuale accertamento della fondatezza della pretesa in caso di attività vincolata, prescrizioni più o meno stringenti all’Autorità amministrativa sulle modalità di riesercizio del potere, nel sistema disciplinato dal nuovo codice il giudice, già in sede di cognizione, è dotato di poteri più incisivi potendo disporre misure volte all’attuazione del giudicato, anche attraverso la nomina di un commissario ad acta, misure che prima erano riservate al giudice dell’ottemperanza.

         Pertanto, la norma determina, in un’ottica di effettività e rapidità della tutela, un anticipo alla sede della cognizione di poteri prima attribuiti solo in sede di esecuzione e, quindi, nell’ampliare i poteri decisori del giudice, rende l’azione di annullamento più efficace ove il giudice decida di esercitare detti poteri.

         Ulteriore riflessione merita la considerazione che le nuove norme non fanno più riferimento, se il ricorso è accolto per motivi di incompetenza, alla rimessione dell’affare all’Autorità competente[34].

         In proposito, sempre nell’ottica di assicurare maggiore effettività e rapidità di tutela, potrebbe ritenersi che la possibilità di disporre le misure idonee all’attuazione della sentenza possa riguardare anche il caso dell’atto annullato per incompetenza dell’organo emanante, similmente alle ipotesi di ricorso accolto per la riconosciuta fondatezza di vizi di eccesso di potere o violazione di legge, quantomeno nel caso di attività vincolata e priva di ogni spazio di discrezionalità.

         Nell’ottica sostanzialistica cui il codice è ispirato al fine di assicurare l’effettività della tutela, potrebbe ancora ritenersi che la fondatezza della censura di incompetenza non esime il giudice dall’esaminare le eventuali ulteriori censure dedotte, afferenti al contenuto dell’attività amministrativa posta in essere dall’organo o dall’Autorità incompetente, e, quindi, di conformare il successivo esercizio del potere da parte dell’organo o dell’Autorità competente.

         Sulla  base di tale iter argomentativo, inoltre, potrebbe ritenersi che la fondatezza del solo vizio di incompetenza possa essere insufficiente a determinare l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’atto, ove emerga dall’esame del rapporto controverso, nel caso di attività vincolata, che l’amministrazione o l’organo competente, nel riesercizio del potere, non potrebbero che emettere un provvedimento con lo stesso contenuto del provvedimento viziato da incompetenza.

         D’altra parte già a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 21 octies l. 241/1990, aggiunto dall’art. 14 l. 15/2005, parte della giurisprudenza ha ritenuto che il provvedimento viziato da incompetenza non è invalidante qualora, per la natura vincolata dell’atto, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[35].

         Di contro - considerato che l’art. 34, co. 2, precisa che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” e che la relazione introduttiva generale al codice indica che tale esclusione è finalizzata ad evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri – potrebbe ipotizzarsi che, nel caso di vizio di incompetenza, non essendo stato il potere amministrativo esercitato dall’Autorità o dall’organo che ex lege avrebbe dovuto esercitarlo, si rientri nella preclusione di cui al richiamato art. 34, co. 2, con conseguente impossibilità interferire sul successivo esercizio del potere.

         Le innovazioni codicistiche in definitiva rafforzano l’argomentazione, già sostenuta dalla più avvertita dottrina, secondo cui la sentenza di accoglimento di un’azione impugnatoria reca in sé un valore di accertamento costitutivo in quanto, oltre all’annullamento dell’atto impugnato - ed in questo si coglie il suo profilo costitutivo, di modifica della preesistente situazione giuridica - produce anche effetti preclusivi e conformativi, nel senso che l’amministrazione non può riprodurre il provvedimento con gli stessi vizi e deve tenere conto nel riesercizio del potere delle prescrizioni contenute nella sentenza, tanto che l’atto ripetitivo di quello annullato o adottato in contrasto con le prescrizioni conformative della sentenza conterrebbe un vizio ulteriore, vale a dire quello di violazione del giudicato[36].

         La novella di cui all’art. 34, co. 1, lett. e), nel consentire al giudice di ampliare il contenuto della sentenza al punto da ricomprendervi le misure idonee all’attuazione del giudicato, ha reso ancora più palese che anche l’azione di annullamento nella sostanza mira non solo all’eliminazione dell’atto dal mondo giuridico ma anche all’accertamento della correttezza sostanziale del rapporto tra ricorrente, amministrazione resistente ed eventuali controinteressati[37].

 

5.2    L’azione di condanna.

         L’azione di annullamento, argomentando ex art. 30, co. 1, del codice, può essere accompagnata da un’azione di condanna.

         Se non costituisce una novità, essendo anzi divenuta quasi una prassi, il fatto che, nell’impugnare l’atto chiedendo il suo annullamento, il ricorrente proponga un’azione di condanna al risarcimento del danno derivante da lesione dell’interesse legittimo, è senz’altro espressione dell’articolazione di nuove forme di tutela della posizione giuridica soggettiva dedotta nel giudizio amministrativo, la previsione, contenuta nell’art. 34, co. 1, lett. c), secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice, nei limiti della domanda, “può adottare misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”.

         Il codice, nella disciplina delle azioni di condanna, non reca alcuna indicazione in proposito, per cui, atteso che il potere del giudice sussiste in quanto ad esso sia correlata un’azione corrispondente, la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’esercizio dei poteri de quibus può qualificarsi come un’azione di condanna atipica, finalizzata ad una condanna dell’amministrazione ad un facere specifico e, in quanto tale, l’azione presenta punti di contatto con l’azione di adempimento, prevista nella bozza di codice e successivamente espunta[38], con cui il ricorrente avrebbe potuto spingersi fino a chiedere la condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto o denegato[39].

         Infatti, se è vero che  nel codice non è presente la specifica azione di adempimento, è altrettanto vero che per attribuire un significato compiuto alla indicata previsione legislativa occorre ritenere che il giudice ha la facoltà di adottare qualunque misura che sia effettivamente in grado di soddisfare l’interesse sostanziale dedotto in giudizio dal ricorrente vittorioso, ivi compresa, se ha riconosciuto la fondatezza della pretesa, la condanna alla emanazione di un provvedimento richiesto o denegato.

In altri termini, l’ampia formula utilizzata dal legislatore nonché il contesto sistematico in cui essa è inserita, volto, si ribadisce ancora una volta, a garantire l’effettività della tutela giudiziaria, dovrebbe consentire al giudice di disporre, su domanda di parte costituente oggetto di un’azione di condanna proposta contestualmente all’azione di annullamento, ogni misura idonea a garantire il concreto soddisfacimento della posizione giuridica e, quindi, anche tale da accertare la correttezza sostanziale della disciplina del rapporto, definendo il contenuto del provvedimento che l’amministrazione è tenuta ad emanare[40].

Né sembra poter operare nella fattispecie la preclusione, di cui all’art. 34, co. 2, dei poteri amministrativi non ancora esercitati, la quale, in quanto finalizzata ad evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa pro futuro, è da ritenere relativa alle sole ipotesi in cui l’amministrazione non abbia ancora provveduto e sia ancora in corso il termine per provvedere.

 Occorre inoltre sottolineare che, se l’azione di annullamento è esperibile, ai sensi dell’art. 29, per i tipici vizi di legittimità, vale a dire incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, l’azione di condanna “atipica” - che postula l’annullamento dell’atto, in assenza del quale, ovviamente, nessuna misura potrebbe essere adottata continuando l’assetto di interessi ad essere regolato dalla volontà dell’amministrazione che si è tradotta nel provvedimento – prescinde totalmente dai vizi dell’atto dedotti nel ricorso, che nel previgente sistema circoscrivevano la cognizione del giudice adito, ampliando notevolmente l’oggetto del giudizio a completamento, o ulteriore progressione, di quell’iter evolutivo il quale, nel prendere atto che con l’adozione del provvedimento l’amministrazione detta la regola del caso concreto, ha indotto a spostare l’attenzione dall’atto ed i suoi vizi di legittimità alla correttezza sostanziale della disciplina del rapporto[41].

Peraltro, considerato che l’attività amministrativa discrezionale, comportando un’attività di selezione, valutazione e comparazione di interessi pubblici e privati non può essere svolta dal giudice se non nei limitati ed eccezionali casi di giurisdizione con cognizione estesa al merito, la nuova disciplina, che consente al giudice amministrativo di esercitare nuovi e più ampi poteri decisori, può trovare spazio, ad avviso di chi scrive, solo quando la lesione alla posizione giuridica sia stata inferta dall’attività amministrativa vincolata.

In tal caso, la nuova disciplina consente al giudice amministrativo, ove l’azione di annullamento sia accompagnata da un’azione di condanna “atipica”, non solo di sindacare la legittimità dell’atto pervenendo all’eventuale annullamento per la fondatezza di uno dei tre vizi tipici di legittimità, ma anche di estendere la propria valutazione al di fuori dei vizi dedotti onde accertare la fondatezza della pretesa e disporre misure concernenti il contenuto del provvedimento da emanare nel riesercizio dell’attività amministrativa ad idonea ed effettiva tutela dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio.

Del resto, il giudizio sul silenzio, vale a dire sul comportamento inerte dell’amministrazione a seguito di un’istanza pretensiva del privato, già nel previgente sistema prevedeva la possibilità di conoscere della fondatezza della pretesa, per cui la nuova norma colma un’asimmetria, posto che analoga possibilità non era riconosciuta nel caso in cui l’amministrazione avesse provveduto, ed un vuoto di tutela presente nell’ordinamento, nel caso di esercizio di attività amministrativa vincolata, il quale, prima, assicurava una tutela più intensa al ricorrente, non solo per la rapidità del rito, ma anche per la maggiore estensione della cognizione del giudice, in caso di mancato esercizio del potere.

Il codice, invece, consente una cognizione più ampia, estesa ai profili dell’esercizio del potere che, non avendo costituito oggetto del provvedimento, non hanno potuto essere censurati nel ricorso, anche nell’ipotesi in cui l’amministrazione non sia rimasta inerte ma abbia comunque emesso un provvedimento.

In definitiva, l’introduzione nel sistema di un’azione di condanna “atipica” è desumibile dal fatto che l’art. 34, co. 1, lett. c), in caso di accoglimento del ricorso, rende possibile, nei limiti della domanda, adottare misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e sembra sostanziarsi nella facoltà del giudice di conoscere della fondatezza della pretesa, al di là dei vizi di legittimità prospettati con l’azione di annullamento e sempreché la stessa sia stata accolta, e di adottare qualunque misura, anche inerente al contenuto dell’atto che l’amministrazione dovrà emanare nel riesercizio del potere, ove il provvedimento impugnato costituisca espressione di potestà amministrativa vincolata, atteso che, non potendo il giudice nella giurisdizione generale di legittimità sostituirsi all’amministrazione, non può compiere direttamente la valutazione degli interessi pubblici e privati che costituisce l’essenza della discrezionalità amministrativa.

Tra le azioni di condanna “tipiche” di cui all’art. 30 del codice, assume un rilievo pregnante quella di risarcimento dei danni da lesione dell’interesse legittimo.

La risarcibilità dei danni derivanti da lesione di un interesse legittimo, vale a dire la configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c., della pubblica amministrazione per i danni derivanti a soggetti privati dalla emanazione di provvedimenti amministrativi illegittimi, per lungo tempo esclusa, soprattutto con riferimento agli interessi legittimi pretensivi, era stata già riconosciuta, ben prima dell’emanazione del codice, sia in via giurisprudenziale sia in via legislativa[42].

La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/1999, che può considerarsi la capostipite di tutta la giurisprudenza successiva, ha fatto presente che, ai fini della responsabilità aquiliana, non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante, per cui, essendo previsto il risarcimento solo qualora il danno sia ingiusto e cioè prodotto non iure, la lesione dell’interesse legittimo costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. in quanto occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole dell’amministrazione pubblica, l’interesse al bene della vita al quale, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, l’interesse legittimo effettivamente si collega.

Nondimeno, erano sorti vibranti contrasti tra la giurisdizione ordinaria, che la negava, e la giurisdizione amministrativa, che prevalentemente la affermava, sulla questione della c.d. pregiudiziale amministrativa, vale a dire sulla necessità di impugnare e di ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da lesione dell’interesse legittimo prodotta dallo stesso atto e, quindi, sulla proponibilità o meno dell’azione risarcitoria in via autonoma e cioè in alternativa e non in aggiunta all’azione di annullamento.

La nuova disciplina, nel tentativo di ricercare una soluzione a tali contrasti, ha previsto l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto all’azione di annullamento, superando il principio della pregiudiziale, ma prevedendo alcuni accorgimenti.

In particolare, l’esperibilità autonoma dell’azione risarcitoria è stata controbilanciata sia dalla previsione di un termine decadenziale breve - di centoventi giorni (centottanta giorni nella versione del testo elaborato dalla Commissione speciale), decorrente dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo - sia dalla previsione, anch’essa contenuta nell’art. 30, co. 3, del codice secondo cui il giudice “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Il termine decadenziale di centoventi giorni, come detto, decorre dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo, sicché la sua decorrenza non coincide sempre con il dies a quo del termine di decadenza di sessanta giorni per la proposizione dell’azione di annullamento (o con il termine di centoventi giorni per la proposizione del ricorso straordinario al Capo dello Stato), fissato nel giorno di piena conoscenza, effettiva o legale, dell’atto impugnato.

In altri termini, mentre per la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione impugnatoria si ritiene sufficiente la piena conoscenza della lesività del provvedimento, ai fini della decorrenza del termine per l’esperimento dell’azione risarcitoria autonoma sembra necessaria la compiuta percezione, da valutarsi sulla base del parametro della buona fede e dell’ordinaria diligenza, delle conseguenze dannose provocate dall’atto illegittimo, evento dannoso che non sempre coincide con l’emanazione dell’atto.

Ne consegue che, se è vero che per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma è previsto un termine decadenziale breve, è altrettanto vero che in molti casi, forse la maggior parte, il relativo dies a quo non sarà coincidente con la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione di annullamento, ma sarà ad esso successivo.

L’individuazione del momento della decorrenza del termine per proporre l’azione autonoma di risarcimento del danno, quindi, imporrà al giudice, al fine di verificare la tempestività dell’azione, una specifica valutazione, atteso che il dies a quo può variare caso per caso.

Un’ipotesi in cui l’evento dannoso può ritenersi temporalmente coincidente con l’emanazione dell’atto è individuabile nel decreto di esproprio, atteso che, con la privazione del diritto di proprietà sul bene, l’interessato perde immediatamente la possibilità di godere dello stesso o di lucrare un prezzo per la sua eventuale vendita o locazione; in tal caso è plausibile ritenere che il dies a quo per proporre l’azione risarcitoria debba coincidere con quello di proposizione dell’azione di annullamento, vale a dire che è individuabile nell’avvenuta conoscenza del provvedimento lesivo.

Diversamente, ad esempio, l’esclusione dalle prove concorsuali del candidato che ha presentato domanda inizierà a produrre effetti dannosi sul piano patrimoniale solo dal momento in cui i vincitori del concorso saranno stati assunti ed avranno preso servizio, per cui, in ragione del disposto normativo, collocandosi la conseguenza dannosa in un momento non coincidente ma successivo all’adozione del provvedimento, è plausibile ritenere che la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma sia successiva, anche ampiamente, alla conoscenza del provvedimento e, quindi, al termine a decorrere dal quale l’interessato avrebbe potuto esperire l’azione di annullamento.

Non minori difficoltà esegetiche sono poste dalla previsione contenuta nell’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 30.

Tale norma, che consente la limitazione o l’esclusione del risarcimento attraverso un meccanismo sostanzialmente ispirato all’art. 1227 c.c.[43] - secondo cui, da un lato, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivati, dall’altro, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza – potrebbe indurre a ritenere che sia stata introdotta una sorta di “pregiudizialità mascherata”[44].

Pur non ritenendo condivisibile tale prospettazione, in considerazione del fatto che l’azione risarcitoria, sebbene svincolata dall’azione di annullamento, è nel nuovo ordinamento certamente ammissibile e deve essere valutata nel merito tenendo conto ai fini della decisione sull’an e sul quantum del risarcimento sia della diligenza sia della buona fede di tutte le parti, non vi è dubbio che, ove la giurisprudenza dovesse orientarsi nel senso di escludere il risarcimento nell’ipotesi in cui il ricorrente avrebbe potuto evitare il danno proponendo una tempestiva azione impugnatoria, vale a dire ove il giudice amministrativo dovesse ritenere che la tempestiva proposizione dell’azione di annullamento dell’atto rientra nell’ordinaria diligenza del soggetto inciso da un provvedimento amministrativo produttivo di danno, l’esito del ricorso avente ad oggetto l’azione risarcitoria autonoma non potrebbe che essere di reiezione con un risultato sostanzialmente analogo alla declaratoria di inammissibilità cui nel previgente ordinamento la domanda sarebbe andata incontro seguendo la teoria della c.d. pregiudiziale amministrativa.

Né una significativa novità è costituita dalla previsione contenuta nell’art. 34, co. 3, del codice, in relazione alla quale, quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori. 

La giurisprudenza sia del Consiglio di Stato sia dei Tribunali Amministrativi Regionali, infatti, anche nel precedente regime, nel caso in cui, in materia di appalti, all’annullamento dell’aggiudicazione non sarebbe potuto seguire per un fatto oggettivo un ulteriore atto di aggiudicazione in favore dell’impresa ricorrente, ha ritenuto possibile, e non incompatibile con la teoria della c.d. pregiudiziale, la dichiarazione di improcedibilità della domanda di annullamento e la valutazione nel merito, con conseguente accertamento incidenter tantum dell’illegittimità o meno dell’atto, della domanda volta a conseguire la condanna al risarcimento del danno[45].

Nel testo elaborato dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato era stabilito che, nel determinare il risarcimento, il giudice “può escludere i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o l’invito all’autotutela”, mentre nell’art. 30, co. 3, d.lgs. 104/2010 è stato espunto il riferimento all’invito all’autotutela ed è stato fatto esclusivo riferimento all’esperimento dei mezzi di tutela previsti.

La formula utilizzata dal legislatore lascia, evidentemente, ampi margini di discrezionalità all’interprete che, come rilevato, ove dovesse ritenere che l’omessa tempestiva impugnazione dell’atto concreti sic et simpliciter una carenza di diligenza tale da escludere il risarcimento del danno perché a seguito della stessa le conseguenze dannose prodotte dal provvedimento sarebbero state evitate, o quantomeno sarebbero potute essere evitate, renderebbe l’azione risarcitoria autonoma un “guscio vuoto” perché, in assenza dell’azione di annullamento avverso il provvedimento lesivo, non potrebbe mai essere accolta.

In altri termini, ove dovesse prevalere il descritto orientamento, la pregiudizialità amministrativa, pure formalmente esclusa dal testo di legge, che ha espressamente previsto l’azione autonoma di risarcimento del danno, sarebbe sostanzialmente affermata in via giurisprudenziale e l’azione risarcitoria potrebbe condurre ad un risultato proficuo solo in caso di preventivo o contestuale vittorioso esperimento dell’azione di annullamento.

Orbene, che la locuzione “anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti” sia evocativa della facoltà di impugnazione in sede giurisdizionale del provvedimento lesivo causativo del danno non sussiste dubbio.

L’onere di esperire mezzi di tutela diversi dall’azione risarcitoria per non aggravare il danno, tuttavia, non rientra nella logica dell’art. 1227 c.c., vale a dire che, nella prospettiva civilistica, l’azione giudiziaria del danneggiato volta ad evitare che il danno sorga o si incrementi non è esigibile nell’ambito di un comportamento normalmente diligente.

Ciò induce a riflettere sulla circostanza che, se pure è evidente il riferimento della norma del codice del processo amministrativo all’art. 1227 c.c., il rapporto tra le due forme di tutela, quella annullatoria e quella risarcitoria, è estraneo all’ambito di applicazione della norma civilistica e risente della persistente concezione pubblicistica della responsabilità dell’amministrazione nell’esercizio della funzione pubblica ed attinente all’essenza stessa della posizione giuridica tutelata e cioè del fatto che, a fronte dell’agire autoritativo e provvedimentale dell’amministrazione pubblica, il modo ordinario di protezione dell’interesse legittimo è costituito dall’annullamento dell’atto[46].  

L’introduzione dell’autonomia dell’azione risarcitoria, sia pure nella logica pubblicistica della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio della sua funzione, impone pertanto all’interpretare di ricercare chiavi esegetiche più complesse ed innovative.

In particolare, una volta che il legislatore delegato ha inteso escludere la pregiudizialità, appare molto arduo ipotizzare che il giudice possa automaticamente respingere la domanda di risarcimento solo perché il ricorrente non ha proposto l’azione impugnatoria in esito alla quale, con l’eliminazione ex tunc dell’atto, il danno sarebbe potuto essere evitato, mentre appare logico ritenere che, come d’altronde espressamente indicato dalla norma, debba valutare il complessivo comportamento successivo all’adozione del provvedimento lesivo dell’interesse legittimo e produttivo del danno, il quale deve costantemente essere ispirato ai tradizionali principi di diligenza e buona fede, non solo del soggetto la cui sfera è stata incisa dal provvedimento ma anche dell’amministrazione agente.

In sostanza, sebbene il riferimento all’autotutela sia stato espunto dal testo del codice, nell’ipotesi in cui, pendente ancora il termine per l’esercizio dell’azione di risarcimento dei danni, il soggetto leso faccia presente puntualmente all’amministrazione le ragioni dell’illegittimità dell’atto e le conseguenze dannose prodotte dallo stesso nella sua sfera patrimoniale e personale e l’amministrazione non provveda all’annullamento d’ufficio, ove in sede di azione risarcitoria il provvedimento sia incidentalmente riconosciuto illegittimo per le ragioni già esposte dal ricorrente all’amministrazione in sede stragiudiziale, non è plausibile ritenere che il comportamento del privato sia stato connotato da negligenza.

Ne consegue, ad avviso di chi scrive, che gli “strumenti di tutela previsti” devono essere considerati in modo estensivo, al fine di comprendere non solo quelli giudiziali ma anche ulteriori strumenti, quali quelli volti a sollecitare i poteri di autotutela, come le eventuali informative preventive trasmesse all’amministrazione dall’interessato che ritenga di essere stato leso nella sua posizione di interesse legittimo.

D’altra parte, l’art. 243 bis d.lgs. 163/2006, aggiunto dall’art. 6, co. 1, d.lgs. 53/2010, di recepimento della c.d. direttiva ricorsi, in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, prevede espressamente che nella materia de qua i soggetti che intendono proporre un ricorso giurisdizionale informano le stazioni appaltanti della presunta violazione e della intenzione di proporre il ricorso e che l’omissione della comunicazione, unitamente all’inerzia della stazione appaltante, costituiscono comportamenti valutabili ai sensi dell’art. 1227 c.c., imponendo un onere di collaborazione tra le parti che, mutatis mutandis, potrebbe ispirare la valutazione sulla diligenza e buona fede delle stesse anche nelle controversie risarcitorie attinenti alle altre materie.

In definitiva, appare ragionevole ritenere che il giudice amministrativo, nel caso di azione risarcitoria autonoma, ove abbia riscontrato un danno ingiusto in quanto lesivo di un interesse al bene della vita realmente spettante, determini l’an ed il quantum del risarcimento valutando la complessiva condotta di ciascuna delle parti, sulla base dei principi della buona fede e dell’ordinaria diligenza, e, in particolare, se, anche a prescindere dalla proposizione dell’azione di annullamento, l’interessato abbia fatto presente i profili di illegittimità dell’atto in tempo utile ad evitare le sue conseguenze dannose e se l’amministrazione abbia tenuto o meno un comportamento inerte a fronte di tale informativa.

Ove l’azione di annullamento sia stata proposta, ai sensi dell’art. 30, co. 5, la domanda risarcitoria può essere formulata in corso di giudizio o, comunque, non oltre centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.

Peraltro, ove le conseguenze dannose del provvedimento illegittimo ed annullato dovessero prodursi, a causa di un fatto oggettivo che renda non più possibile o utile l’esecuzione del giudicato, una volta decorso il detto termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, occorre evidentemente ritenere che si versi nell’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 30, vale a dire dell’azione risarcitoria autonoma proponibile entro il termine decadenziale di centoventi giorni da quello in cui il fatto si è verificato, atteso che tale è il giorno da cui il diritto può essere fatto valere.

L’azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, ai sensi dell’art. 112, co. 3,  può essere proposta nel processo di ottemperanza, nel cui ambito può essere altresì proposta la domanda di risarcimento del danno di cui all’art. 30, co. 5, vale a dire successiva all’azione di annullamento, con la specificazione che in tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.

L’art. 2 bis l. 241/1990, aggiunto dall’art. 7 l. 69/2009, obbliga le pubbliche amministrazioni al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, introducendo il c.d. danno da ritardo.

Nel disciplinare le azioni di condanna, il codice, all’art. 30, co. 2, prevede analogamente che può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante non solo dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, ma anche dal mancato esercizio di quella obbligatoria.

L’espresso riferimento al “danno ingiusto”, sebbene sia stata anche ipotizzata la risarcibilità del danno da mero ritardo, induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria anche in tali fattispecie non può prescindersi dalla spettanza del bene della vita, atteso che è soltanto la lesione del bene della vita che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto dalla sua inerzia e lo rende risarcibile[47].

Il giudice, pertanto, ad avviso di chi scrive, non può accogliere l’istanza risarcitoria a prescindere dalla formulazione di un giudizio sulla spettanza dell’utilità finale, ma il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo pretensivo è anche in tal caso subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, elemento psicologico, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento era destinata, certamente o probabilmente, ad un esito favorevole[48].

L’azione risarcitoria del danno c.d. da ritardo è proponibile, ai sensi dell’art. 30, co. 4, del codice nel termine di centoventi giorni decorrente dal momento in cui l’inadempimento è cessato o, comunque, al compimento di un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

La norma codicistica, quindi, ha recepito l’orientamento del Consiglio di Stato secondo cui il ritardo dell’amministrazione nel provvedere sull’istanza del privato si configura come un illecito permanente che termina al momento dell’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento avviato ad istanza di parte, con la conseguenza che il termine di prescrizione (nel codice qualificato come termine di decadenza) comincia a decorrere solo dal momento di cessazione dell’illecito[49].

Tuttavia, avendo altresì stabilito che il dies a quo per l’esercizio dell’azione inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere, la norma, a meno di non volerne sottolineare la contraddittorietà e la incompatibilità con la previsione immediatamente precedente, postula che il decorso del detto termine annuale comporti l’estinzione dell’obbligo di provvedere e faccia venire meno l’illecito omissivo.   

In definitiva, il ritardo dell’amministrazione è configurato dal codice come un illecito permanente che, però, può durare al massimo un anno, decorso il quale l’obbligo e, conseguentemente, l’illecito si estinguono.

Un’ulteriore ipotesi di azione di condanna è prevista dall’ultimo periodo dell’art. 30, co. 2, del codice, secondo cui, sussistendo i presupposti di cui all’art. 2058 c.c., può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

Tale forma di tutela è del tutto distinta da quella “atipica”, desumibile dall’art. 34, co. 1, lett. c), volta ad ottenere le misure idonee a tutelare l’interesse sostanziale dedotto in giudizio, di cui si è detto in precedenza, sebbene entrambe siano finalizzate ad ottenere un facere dell’amministrazione di carattere non proprio patrimoniale, ma prevalentemente provvedimentale (per le misure satisfattive) o materiale (per il risarcimento in forma specifica).

La domanda di risarcimento in forma specifica, a fronte della quale il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore, è proponibile nello stesso termine decadenziale dell’azione di condanna al risarcimento del danno patrimoniale, a condizione che, trattandosi di un’attività materiale, sia in tutto o in parte possibile.

Essa tende ad eliminare il danno già prodotto attraverso l’imposizione all’amministrazione che con il proprio provvedimento illegittimo ha causato il danno ingiusto dell’obbligo di compiere un’attività materiale opposta a quella compiuta in esecuzione del provvedimento e tale da ripristinare, non solo sotto il profilo giuridico ma anche sotto quello fattuale, lo status quo ante.

Un’ipotesi paradigmatica di risarcimento in forma specifica può essere individuata nella condanna alla ricostruzione dello stesso immobile demolito in esecuzione di un’ordinanza illegittima.

In conclusione, in ragione delle norme di cui all’art. 30 sulle azioni di condanna ed all’art. 34 sulle sentenze di merito, è possibile ritenere che sia stata introdotta nel sistema un’azione di condanna “atipica”, proponibile solo congiuntamente all’azione di annullamento in quanto non prevista dall’art. 30[50], ed una serie di azioni di condanna “tipiche” – vale a dire l’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, l’azione di condanna al risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi e l’azione di condanna al risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c. - proponibili sia congiuntamente ad altra azione sia in via autonoma nei termini di legge.

 

5.3      L’azione di accertamento.

Le azioni di accertamento, una volta espunto dal testo del decreto legislativo la norma generale - secondo cui chi vi ha interesse, a condizione che non possa far valere i propri diritti o interessi mediante l’azione di annullamento o di adempimento, può chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative – sono disciplinate dall’art. 31 del codice e si sostanziano nell’azione finalizzata ad accertare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere e nell’azione di nullità.

L’azione avverso il silenzio, esperibile solo a tutela di posizioni di interesse legittimo, implicanti, quindi, l’esercizio in via autoritativa di una potestà pubblica, e non se l’inerzia è serbata a fronte di un’istanza avanzata per il riconoscimento di un diritto soggettivo[51], può essere proposta, allo stesso modo dell’azione di condanna al risarcimento del danno da ritardo, fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.

L’espresso riferimento all’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere rende chiaro che il ricorso avverso il silenzio è finalizzato in primo luogo alla mera declaratoria dell’obbligo.

La natura dell’azione, invero, è mista in quanto se, da un lato, tale declaratoria configura all’evidenza un’azione di accertamento, dall’altro, occorre anche considerare che l’art. 34, co. 1, lett. b), indica che, in caso di accoglimento del ricorso e nei limiti della domanda, il giudice ordina all’amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un certo termine, per cui, sotto tale profilo, ha natura anche di azione di condanna ad un facere.

Nella vigenza dell’art. 2, co. 5, l. 241/1990, come modificato dalla l. 15/2005 e sostituito dall’art. 3, co. 6 bis, d.l. 35/2005 – il quale aveva tra l’altro previsto che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza della pretesa – la giurisprudenza aveva avuto modo di affermare che la fondatezza della pretesa poteva essere valutata soltanto nei casi di attività amministrativa interamente vincolata quando la spettanza o meno del bene della vita fosse ictu oculi rilevabile.

In altri termini, tale delibazione è stata ritenuta possibile tutte le volte che la fattispecie esaminata riguardi attività strettamente vincolata che non necessiti di particolari adempimenti istruttori[52].

La possibilità di esaminare la fondatezza nel caso di attività discrezionale, infatti, è evidentemente esclusa dal divieto per il giudice, in sede di cognizione, di sostituirsi all’amministrazione nella gestione ossia nell’apprezzamento dell’interesse pubblico attraverso valutazioni di convenienza o opportunità della scelta e deve essere parimenti esclusa nel caso in cui, sebbene si versi in attività amministrativa vincolata, non sia immediatamente percepibile a causa della delicatezza degli interessi in gioco e, quindi, della complessità esegetica della normativa di riferimento, atteso che la ratio del rito camerale ed acceleratorio del giudizio sul silenzio postula la rapida soluzione della controversia, mentre non è compatibile con la definizione di questioni di maggiore complessità.[53].

In sostanza, ove il giudice potesse spingere la propria cognizione sulla fondatezza della pretesa, vale a dire sulla spettanza del bene della vita richiesto, all’attività amministrativa discrezionale si verserebbe in un’ipotesi di giurisdizione di merito che, però, non è come tale contemplata dal legislatore, con la paradossale possibilità per il ricorrente di conseguire un’utilità senz’altro maggiore di quella conseguibile con l’azione impugnatoria nel caso in cui l’amministrazione, anziché rimanere inerte, abbia esercitato la propria potestà provvedimentale.

Nel solco di tale orientamento giurisprudenziale, la norma codicistica ha espressamente sancito che il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.

 E’ pur vero che l’art. 31, co. 3, del codice aggiunge ai risultati cui la giurisprudenza era giunta in via pretoria l’ipotesi che “non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”, ma la formula appare pleonastica in quanto, se non sussistono margini per l’esercizio dell’attività amministrativa discrezionale, vuol dire che l’agere amministrativo si presenta al giudice adito con il ricorso avverso il silenzio come un’attività totalmente vincolata.

L’altra azione di accertamento, disciplinata dall’art. 31, co. 4, del codice, è volta alla dichiarazione delle nullità previste dalla legge - ad eccezione degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, che sono dichiarati nulli in sede di giudizio di ottemperanza - ed è proponibile entro il termine di decadenza di centottanta giorni, mentre può essere sempre opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice.

La previsione di un termine di decadenza per la sola parte che avrebbe interesse a proporre l’azione, termine non previsto nello schema di codice elaborato dalla Commissione, suscita alcune perplessità.

In primo luogo, in ambito civilistico, l’art. 1422 c.c. dispone che l’azione per far dichiarare la nullità, in tema di nullità del contratto, non è soggetta a prescrizione, così come l’art. 2379 c.c. fissa in tre anni il termine per la proposizione dell’azione di nullità delle deliberazioni di società per azioni.

Inoltre, mentre il termine di decadenza è stato fissato per la parte che ha interesse a contestare l’atto, non è stato fissato per l’amministrazione resistente che potrebbe sempre invocare la nullità di un atto favorevole ad un privato, sicché le parti non sembrano poste esattamente sullo stesso piano[54].

Un’ulteriore pronuncia dichiarativa, sia pure connessa ad un’azione di annullamento, può desumersi dall’art. 34, co. 5, del codice, che include tra le sentenze di merito la dichiarazione di cessata materia del contendere, la quale deve essere pronunciata qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta.

La collocazione della dichiarazione di cessata materia del contendere nell’ambito delle sentenze di merito e non di rito assume un pregnante rilievo sintomatico nell’ottica di un giudizio sostanzialistico ed orientato al rapporto e dà atto del fatto che la sentenza ha valore di accertamento ed effetti satisfattivi per il ricorrente in relazione alla pretesa sostanziale sottesa alla domanda di annullamento[55].

La sentenza in tal caso, nell’accertare che il provvedimento impugnato, originariamente lesivo, è stato rimosso o è inefficace, è idonea a fare stato tra le parti non solo con riferimento all’improcedibilità del ricorso, altrimenti sarebbe una mera pronuncia di rito, ma anche, e perciò è qualificata come sentenza di merito, riguardo alla causa di tale improcedibilità, vale a dire alla sopravvenuta rimozione o inefficacia dell’atto, ormai non più lesivo in quanto non può essere portato ad esecuzione dall’amministrazione né idoneo ad essere posto a base di successivi provvedimenti o comportamenti della stessa; analogamente, ove sia stato dedotto un interesse pretensivo, l’accertamento idoneo a fare stato tra le parti è compiuto con riferimento all’adozione del provvedimento attributivo del bene della vita richiesto.

Ne consegue che, per l’efficacia preclusiva propria di ogni accertamento, il giudicato di cessazione della materia del contendere, in caso di interesse oppositivo, potrebbe essere sempre opposto all’amministrazione che, dopo la pronuncia giurisdizionale, intendesse comunque portare ad esecuzione il provvedimento ritenuto inefficace o rimosso ovvero porre lo stesso quale presupposto di un ulteriore esercizio del potere, così come, nell’ipotesi di interesse pretensivo, potrebbe essere sempre invocato, anche con la proposizione del giudizio di ottemperanza, qualora l’amministrazione non intendesse portare ad esecuzione il provvedimento ampliativo adottato.

Per altro verso, la peculiarità della dichiarazione di cessata materia del contendere, in quanto espressamente inclusa tra le sentenze di merito, è costituita dal fatto che una pronuncia di accertamento, idonea a fare stato tra le parti, è correlata non già ad un’azione di accertamento, ma ad un’azione di annullamento.

 

5.4      Cumulo di azioni.

L’art. 32 del codice, a chiusura del capo relativo alle azioni di cognizione, ammette la cumulabilità nello stesso giudizio di domande connesse, con la specificazione che se le azioni sono soggette a riti diversi (come sovente si verifica con la proposizione di un’azione avverso il silenzio, per la quale è previsto un rito accelerato in camera di consiglio, e di un’azione di annullamento, soggetta al rito ordinario in udienza pubblica) si applica, salve alcune eccezioni relative ai riti abbreviati e speciali, il rito ordinario.

Tale previsione, da leggere sempre in un’ottica di concentrazione del giudizio e rapidità della tutela, segna un avanzamento rispetto all’orientamento della giurisprudenza tradizionale che, pur non escludendo il cumulo tra le azioni, aveva costantemente ritenuto inammissibile la trattazione congiunta di domande assoggettabili a riti diversi.

            Per quanto attiene ai riti speciali, in tema di tutela contro l’inerzia della pubblica amministrazione, l’art. 117, co. 6, dispone che, se l’azione di risarcimento del danno c.d. da ritardo è proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria. Nel processo di ottemperanza relativo ad una sentenza di accoglimento di un’azione di annullamento, invece, ove sia proposta la connessa domanda risarcitoria, il giudizio si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.

 

6.         Pronunce giurisdizionali.

La tipologia delle pronunce discende strettamente dalla tipologia delle azioni previste, tanto che le azioni si qualificano proprio in considerazione del provvedimento giurisdizionale richiesto ed ogni pronuncia del giudice in tanto è possibile in quanto sussiste una corrispondente azione.

La casistica delle pronunce giurisdizionali è comunque contenuta nel titolo IV del libro I del codice, alle cui norme si è fatto costante riferimento nell’analisi della disciplina delle azioni.

Tra le sentenze di merito sinora non richiamate, è interessante notare come l’art. 34, co. 4, preveda che, in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine, fermo restando che se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso per l’ottemperanza possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti.

L’innovatività della previsione non consiste nella facoltà attribuita al giudice di fissare i criteri, in quanto già presente nel precedente regime, ma nel fatto che tale possibilità è preclusa dall’opposizione delle parti.

La ratio della norma riposa, verosimilmente, nella prevalenza accordata alla volontà della parte, da esercitare prima che la causa sia stata trattenuta per la decisione, che intenda velocizzare il giudizio imponendo al giudice la determinazione della somma dovuta, atteso che la mera fissazione dei criteri potrebbe portare, se non si giunge ad un accordo tra le parti, ad una inevitabile dilatazione dei tempi di soddisfazione della pretesa sostanziale.

Dall’ambito delle pronunce che il giudice amministrativo, nel merito, può pronunciare in caso di accoglimento del ricorso, così come, d’altra parte, dal novero delle azioni proponibili, è assente l’accertamento del diritto, che costituisce l’effetto principale dell’accoglimento dell’azione di accertamento proponibile in sede di giurisdizione esclusiva allorquando la posizione giuridica dedotta in giudizio è di diritto soggettivo.

E’ pur vero che sia tra le azioni sia tra le pronunce giurisdizionali si fa riferimento alla condanna al pagamento di somme di denaro e che l’azione di accertamento di un diritto soggettivo nei confronti di un’amministrazione pubblica ha spesso ad oggetto diritti di carattere patrimoniale ed è, quindi, specificamente preordinata ad ottenere la conseguente condanna dell’amministrazione, resta però il fatto che l’accertamento del diritto, che della condanna costituirebbe il presupposto e che comunque potrebbe essere oggetto autonomo di domanda, non è specificamente menzionato nelle norme codicistiche.

Tale assenza potrebbe discendere dalla eliminazione in sede di approvazione del testo della norma generale sull’azione di accertamento, prevista nello schema elaborato dalla Commissione, secondo cui “chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative” e della conseguente previsione, contenuta nella norma sulle sentenze di merito che avrebbe consentito al giudice di “dichiarare l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto giuridico”.

L’originalità della norma avrebbe potuto cogliersi nel fatto che l’azione di accertamento sarebbe stata espressamente proponibile anche in giurisdizione generale di legittimità, vale a dire a tutela di interessi legittimi, non certo nella sua proponibilità in giurisdizione esclusiva a tutela di diritti soggettivi, nel cui ambito costituisce ontologicamente l’azione principale.

La tipologia delle azioni e delle pronunce, in effetti, sembra maggiormente ritagliata sulle forme di tutela assicurate in sede di giurisdizione generale di legittimità (o in sede di giurisdizione con cognizione estesa al merito), quando cioè sia stata dedotta in giudizio una posizione di interesse legittimo, mentre, per la controversie concernenti diritti di cui il giudice amministrativo conosce in sede di giurisdizione esclusiva, i soli limitati riferimenti sono all’azione di condanna volta, in particolare, al pagamento di una somma di denaro; ciò, peraltro, non sembra escludere che in tale ambito il giudice amministrativo possa anche accertare l’esistenza o l’inesistenza del diritto soggettivo di cui il ricorrente invoca tutela.

L’incisività della codificazione in tema di effettività della tutela sarebbe stata indubbiamente maggiore ove il codice avesse espressamente disciplinato, così come previsto nello schema predisposto dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, le azioni di adempimento e di accertamento.

Tuttavia, i risultati sostanziali dell’azione di adempimento, come rilevato, potrebbero essere comunque realizzati attraverso l’azione di condanna “atipica” ed il conseguente esercizio del potere attribuito al giudice dall’art. 34, co. 1, lett. c), di condanna all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio, atteso che la locuzione utilizzata è talmente generica da poter comprendere, sussistendo i presupposti per una decisione sulla fondatezza della pretesa, anche la condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento rifiutato o omesso.

La previsione dell’azione di accertamento della posizione di interesse legittimo, finalizzata nello schema del codice a risolvere incertezze relative all’esercizio di pubblici poteri con l’individuazione della regola concretamente posta dal provvedimento amministrativo, avrebbe fornito una compiuta risposta all’esigenza del cittadino di avere certezza del perimetro di efficacia del provvedimento e, in particolare, della sua eventuale lesività anche nei confronti della propria posizione giuridica.

La dottrina più attenta, infatti, ha da tempo posto in evidenza che talvolta, anche in presenza di un processo che nasce da un’azione di annullamento, si manifesta l’esigenza di pronunce con valore dichiarativo.

Tali sono, ad esempio, le ipotesi in cui l’impugnativa di un atto si conclude con una sentenza di inammissibilità per l’assenza di ogni effetto lesivo attuale derivante al ricorrente dall’atto impugnato; in tal caso la sentenza, sia pure in astratto sfavorevole per il ricorrente, è in concreto per lo stesso satisfattiva.

La possibilità di proporre un’azione di accertamento e di ottenere una pronuncia dichiarativa, idonea a passare in giudicato, potrebbe in queste situazioni garantire al ricorrente, titolare di un interesse legittimo oppositivo, la preclusione per l’amministrazione di dare esecuzione al provvedimento nei suoi confronti, effetto sostanziale che, con riferimento al caso in cui in corso di giudizio il provvedimento sia rimosso, si è ora raggiunto con l’inclusione della sentenza di cessata materia del contendere tra le sentenze di merito, idonee a fare stato tra le parti.

L’azione di accertamento, peraltro, prima dell’introduzione del codice era stata ritenuta ammissibile ove ritenuta necessaria per garantire all’interessato l’effettività della tutela giurisdizionale[56].

La scelta codicistica pone ora davanti ad un bivio, e cioè se ritenere che l’esclusione dell’azione di accertamento e delle relative tipologie di pronunce giurisdizionali determini l’inammissibilità di un’azione autonoma di accertamento volta alla tutela di una posizione di interesse legittimo, con conseguente impossibilità della relativa pronuncia dichiarativa, ovvero se ritenere la stessa comunque ammissibile in ragione del fatto che il potere di accertamento del giudice è connaturato al concetto stesso di giurisdizione, tanto che nel processo civile - nel quale, da un lato, manca analogamente un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento, dall’altro, è assente però anche una specifica disciplina delle azioni – è pacificamente ammessa.     

   

7.         Note conclusive.

Il giudice amministrativo, in definitiva, è chiamato ad un’attività interpretativa per l’applicazione delle norme codicistiche non inferiore a quella cui era chiamato in passato in quanto il codice costituisce senz’altro un “punto d’arrivo” delle elaborazioni degli ultimi decenni, ma è soprattutto un “punto di partenza” per l’evoluzione giurisprudenziale successiva[57].

Il codice muove verso l’effettività della tutela e porta un maggiore impegno per il giudice, al quale sono attribuiti nuovi poteri con le connesse responsabilità.

Ritengo, tuttavia, che offra anche una notevole opportunità: per noi magistrati amministrativi, l’opportunità di contribuire a rendere un migliore servizio giustizia nei rapporti tra cittadini e pubblici poteri; per noi studiosi del diritto, l’opportunità di contribuire a scrivere una nuova storia.

 

                                                                                              Roberto Caponigro



[1] Relazione per l’incontro di studio tra magistrati sul codice del processo amministrativo, tenuto a Roma, presso il TAR Lazio, il 28 settembre 2010.

[2] La relazione introduttiva generale al codice evidenzia in proposito che il codice risente della peculiare caratteristica delle norme processuali amministrative, che nella legislazione italiana sono non di rado introdotte in occasione di leggi che regolano l’azione amministrativa nei più svariati settori.

[3] L. Torchia, Biblioteche al macero e biblioteche risorte, il diritto amministrativo nella sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale, in www.giustizia-amministrativa.it, 2004, peraltro, fa presente che la configurazione di un’amministrazione o tutta autoritaria, sottoposta alla giurisdizione amministrativa, o tutta paritaria, sottoposta alla giurisdizione ordinaria, non trova rispondenza nella realtà e nel diritto amministrativo moderno che la studia ed evidenzia che la capacità euristica dello schema dicotomico autorità/libertà è stata messa in dubbio proprio in relazione alla complessità dell’azione amministrativa e delle regole che essa applica e che ad essa si applicano, mostrando come il diritto amministrativo sia andato via via perdendo i caratteri originari della separatezza, della supremazia e della specialità, a favore di una natura non più solo duale, tanto che il quid proprium dell’azione amministrativa non sarebbe più da ricercare nella natura autoritativa o unilaterale, ma nella necessaria ponderazione di interessi, pubblici e privati, che caratterizza ogni attività amministrativa.

[4] R.Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministativa.it, 2010, il quale rileva che - coerentemente con l’esigenza di accordare al cittadino in modo pieno, celere ed effettivo, tutte le utilità che il diritto sostanziale riconnette alla posizione soggettiva dedotta in giudizio, sia essa di diritto soggettivo o di interesse legittimo – l’art. 7 del codice non pone più al centro della giurisdizione amministrativa l’impugnazione di un atto ma la posizione soggettiva lesa dallo scorretto esercizio del potere amministrativo che può manifestarsi attraverso atti, provvedimenti, comportamenti o accordi.  

[5] In particolare, l’art. 26 R.D. 1054/1924 attribuiva al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale il compito di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa e, analogamente, l’art. 2, co. 1, lett. b), l. 1034/1971 attribuiva al tribunale amministrativo regionale il compito di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti amministrativi.

[6] Tra i tanti Autori che si sono interessati della questione, V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, pagg. 503 e ss., pone chiaramente in luce che una pronunzia di annullamento, considerata in funzione della sola verifica di legittimità dell’atto impugnato, senza alcuna incidenza sull’assetto del rapporto intercorrente con l’amministrazione, non può reputarsi satisfattiva, ove si consideri la funzione che la giurisdizione amministrativa è chiamata ad assolvere, che è quella di assicurare in concreto la protezione di interessi sostanziali giuridicamente qualificati.

[7] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, pagg. 93 e ss., nell’evidenziare, tra l’altro, che la norma attributiva del potere amministrativo non prescinde dalla considerazione degli interessi privati, ma consiste proprio della loro presa in considerazione insieme con uno o più interessi pubblici e della loro sottoposizione all’incidenza del potere, definisce l’interesse legittimo come “la posizione di vantaggio fatta ad un soggetto dell’ordinamento in ordine ad una utilità oggetto di potere amministrativo e consistente nell’attribuzione al medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione della pretesa all’utilità”.

[8] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Caponigro, La pregiudiziale amministrativa tra l’essenza dell’interesse legittimo e l’esigenza di tempestività del giudizio, Giurisdizione amministrativa, 2/2007, in cui si sostiene che la caratteristica peculiare ed unificante della figura dell’interesse legittimo può essere individuata nel fatto che la posizione giuridica “dialoga” con un’amministrazione pubblica che, agendo nell’esercizio di un potere pubblico per la realizzazione dei fini collettivi il cui perseguimento è ad essa istituzionalmente demandato dalla norma attributiva del potere, è in grado di incidere – in esito ad un procedimento in cui anche l’interesse privato normativamente qualificato è acquisito, valutato e comparato – in modo unilaterale ed autoritativo sulla sfera giuridica del soggetto destinatario, realizzando la soddisfazione del suo interesse sostanziale o determinandone il sacrificio.

[9] Cfr., in particolare, le sentenze 6 luglio 2004, n. 204, 11 maggio 2006, n. 191, 27 aprile 2007, n. 140 e, più di recente, la sentenza 5 febbraio 2010, n. 35.

[10] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2002, pagg. 171 e ss., richiama l’attenzione su come, avendo la giurisdizione amministrativa quale nucleo originario e tipico la garanzia degli interessi legittimi, carattere sancito anche dall’art. 103 Cost., sia stato sostenuto che il complesso rappresentato dai TAR e dal Consiglio di Stato costituirebbe il giudice “ordinario” degli interessi legittimi, non nel senso che il giudice amministrativo abbia acquisito lo “status” del giudice ordinario, ma nel senso che rispetto agli interessi legittimi la sua competenza non può dirsi “speciale” perché è prevista come generale dalla norma costituzionale.

[11] Un’esaustiva ricostruzione delle origini storiche dell’azione di annullamento come fulcro della giustizia amministrativa è contenuta in M. Clarich, Commento all’art. 29 del codice del processo amministrativo, Azione di annullamento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.

[12] La relazione introduttiva generale fa presente che, in attuazione della delega, il codice, completando un percorso che ha caratterizzato la disciplina e la giurisprudenza dell’ultimo decennio, introduce dinanzi al giudice amministrativo il principio della pluralità delle azioni, al fine di garantire ogni più ampia possibilità di tutela anche per le posizioni giuridiche soggettive devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

[13] V. Caianiello, op. cit., pagg. 297 e segg., evidenzia, riportando un’ampia dottrina, che per taluni l’espressione “giurisdizione di merito” starebbe ad indicare un più ampio potere di indagine del giudice in ordine al fatto, per altri un’estensione al merito amministrativo delle valutazioni compiute dall’amministrazione, concludendo che, dall’esame delle leggi che si sono succedute nel tempo con riferimento ai casi per i quali è stata prevista la giurisdizione di merito, sembra che il legislatore si sia riferito all’estensione al merito amministrativo, vale a dire alla valutazione della convenienza e dell’opportunità dell’attività amministrativa.

[14] La norma di delega prevede che i decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato – al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele – si attengono, tra gli altri, ai seguenti principi e criteri direttivi: disciplinare le azioni e le funzioni del giudice “riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni” e “riordinando i casi di giurisdizione estesa al merito, anche mediante soppressione delle fattispecie non più coerenti con l’ordinamento vigente”.

[15] La giurisdizione esclusiva in materia di class action per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi, peraltro, non è compresa nel codice, ma continua ad essere disciplinata dal d.lgs. 198/2009.

[16] In proposito, sia consentito il richiamo a R. Caponigro, Annullamento dell’aggiudicazione ed effetti sul contratto, Foro Amministrativo C.D.S. 10/2009, pagg. 2423 e ss., in cui è posto in rilievo che il problema derivante dall’annullamento dell’aggiudicazione non è tanto “chi giudica che cosa”, quanto l’effettività della tutela dell’interesse legittimo dedotto in giudizio e, quindi, la strutturazione di un sistema che, in linea con le coordinate comunitarie, sia in grado di coniugare la piena tutela del ricorrente vittorioso in giudizio con la tutela dell’interesse pubblico all’individuazione del “giusto” contraente ed al rispetto della libertà di concorrenza tra le imprese.

[17] La Corte Costituzionale, con sentenza n. 35 del 2010, nel dichiarare non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. 90/2008, convertito con modificazioni dalla l. 123/2008, richiama i principi di cui alle sentenze della stessa Corte nn. 204/2004, 191/2006 e 140/2007, evidenziando che l’espressione “azione di gestione dei rifiuti” deve essere logicamente intesa nel senso che l’attività della pubblica amministrazione deve essere preordinata alla organizzazione ed alla erogazione del servizio pubblico di raccolta e di smaltimento dei rifiuti, con conseguente esclusione dalla giurisdizione amministrativa esclusiva delle questioni meramente patrimoniali connesse al mancato adempimento da parte dell’amministrazione di una prestazione patrimoniale nascente da un rapporto obbligatorio, questioni queste non ricomprese nell’ambito di applicazione della norma e rientranti nella giurisdizione ordinaria.

[18] La relazione introduttiva generale al codice indica espressamente che la Commissione è stata indotta a prevedere anche per tutte le sanzioni irrogate dalla Banca e dalla Consob una giurisdizione esclusiva onnicomprensiva in ragione della stretta connessione tra potere di vigilanza, costituente già servizio pubblico nei settori di cui all’art. 33 d.lgs. 80/1998, e potere sanzionatorio.

[19] F. Benvenuti, Enciclopedia del diritto, IX, III, Competenza e giurisdizione, 5. La giurisdizione di merito, Milano, 1961.

[20] A. Travi, op.cit. , pag. 314.

[21] V. Caianiello, op. cit., pag. 961, il quale pone in rilievo che il vincolo dell’amministrazione appare comprensibile solo se si ammette che la pronuncia del giudice, per mezzo del sindacato sulla validità del provvedimento, investe il rapporto intercorrente fra le parti, sia pure attraverso la puntualizzazione che di questo traspare nel prisma dell’atto impugnato.

[22] Ex multis: T.A.R. Lazio, Roma, I, 13 marzo 2008, n. 2312; T.A.R. Lazio, Roma, I, 29 dicembre 2007, n. 14157, con cui il giudice ha provveduto a rideterminare la misura della sanzione pecuniaria applicata.

[23] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, I, 18 gennaio 2010, n. 314, che, nell’annullare il provvedimento dell’Autorità per la sola parte inerente alla quantificazione della sanzione, ha fatto presente che la misura della sanzione da irrogare alla ricorrente deve essere rideterminata dalla stessa Autorità in esecuzione della sentenza.

[24] V. Poli, Manuale di giustizia amministrativa, di F. Caringella, R. De Nictolis, R. Giovagnoli e V. Poli, cap. 18, La giurisdizione di merito del giudice amministrativo, Roma, 2008.

[25]  L’art. 44, co. 3, lett. h), della legge delega 88/2009, stabiliva di recepire i relativi articoli della direttiva 89/665/CEE e della direttiva 92/13/CEE, come modificati, dalla direttiva 2007/66/CE, con determinati criteri, “nell’ambito di una giurisdizione esclusiva e di merito”.

[26] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Caponigro, La valutazione giurisdizionale del merito amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010, in cui si sostiene, da un lato, che, qualunque siano le qualificazioni che l’interprete vorrà dare dei poteri attribuiti al giudice, questi ultimi determinano comunque una nuova prospettiva di svolgimento della funzione, dall’altro, che la nuova disciplina, sia pure con le inevitabili incertezze che saranno legate alla concreta applicazione delle innovazioni e con le eventuali modifiche che dovessero rendersi necessarie per assicurare il corretto ed efficace funzionamento del sistema, sembra coerente con la generale esigenza di tempestività del giudizio e con la particolare esigenza di velocizzazione del rito sulle controversie in materia di appalti pubblici nonché con la evoluzione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto, evoluzione che ha portato a ridurre progressivamente nel tempo le distanze esistenti tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito.

[27] Cass. Civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500, precisa che l’interesse legittimo va inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene.

[28] Cfr. Cons. St., IV, 29 gennaio 2008, n. 248; T.A.R. Puglia, Lecce, I. 5 giugno 2008, n. 1651.

[29] Cfr. anche Cass. Civ., III, 3 settembre 2007, n. 18511, secondo cui non è sostenibile che, nel caso di annullamento in sede giurisdizionale amministrativa per insufficienza o inadeguata motivazione sull’esercizio del relativo potere discrezionale, del diniego di rilascio di un provvedimento richiesto a soddisfazione di un interesse pretensivo, il diritto al risarcimento del privato si configuri soltanto qualora successivamente l’amministrazione provveda positivamente e si identifichi nel c.d. danno da ritardo, non essendo invece configurabile alcun danno in mancanza di tale successivo provvedimento positivo; la sentenza, pertanto, evidenzia che, mentre nel caso di adozione del provvedimento sarà configurabile solo un danno da ritardo, nel caso che tale adozione sia mancata il danno è configurabile, sussistendone i relativi presupposti, come danno da mancato conseguimento del provvedimento ampliativo.

[30] V. Caianiello, op. cit., pagg. 519 e ss., il quale, inoltre, evidenzia che una visione sostanzialistica dell’oggetto del giudizio amministrativo consentirebbe di superare anche l’orientamento in base al quale, con inutile spreco di attività processuale, è possibile pervenire all’annullamento degli atti per meri vizi di forma o per difetto di motivazione, il che potrebbe invece evitarsi ove potesse accertarsi in giudizio che dai predetti vizi non sia derivata alcuna concreta lesione degli interessi del ricorrente.

[31] G. Coraggio, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, in www.giustizia-amministrativa, 2008.

[32] La relazione introduttiva generale al codice, peraltro, precisa che l’effettività si traduce anche nella essenziale questione del rispetto della ragionevole durata del processo, atteso che il processo può essere ingiusto per il solo fatto che dura e lo è certamente quando dura troppo.

[33] M. Clarich, op. cit, rileva che, nell’impostazione del codice, la preminenza dell’azione di annullamento non è scalfita, nell’operatività concreta, né dall’azione di nullità né dall’azione risarcitoria pura.

[34] L’art. 26, co. 2, l. 1034/1971 disponeva che, se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, il tribunale amministrativo regionale rimette l’affare all’autorità competente; analogamente, l’art. 45 T.U. 1054/1924 stabiliva che il Consiglio di Stato, se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, annulla l’atto e rimette l’affare all’autorità competente.

[35]  Cfr. Cons. St., VI, 6 novembre 2006, n. 6521; T.A.R. Lazio, Latina, 17 gennaio 2007, n. 39.

[36] Per V. Caianiello, op. cit. pag. 523, una sentenza costitutiva, quale certamente è quella di annullamento di un atto illegittimo, deve contenere in sé, quale indefettibile presupposto, l’accertamento della volontà della legge relativamente al caso concreto.

[37] M. Clarich, op. cit., invece, ritiene che il codice non abbia superato l’impostazione tradizionale del processo amministrativo di processo sull’atto anziché di processo sul rapporto, in cui l’impugnazione dell’atto costituisce l’occasione per accertare nella sua interezza il modo di essere del rapporto.

[38] Il testo del codice elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato aveva disciplinato l’azione di adempimento stabilendo che “il ricorrente può chiedere la condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto o denegato” e prevedendo che l’azione potesse essere proposta contestualmente a quella di annullamento o avverso il silenzio entro i termini previsti per tali azioni.

[39] M. A. Sandulli, Anche il processo amministrativo ha finalmente un codice, Foro Amministrativo T.A.R., 5/2010, indica la presenza di un’azione di condanna anche generica, evidenziando che in essa trova spazio l’azione di adempimento.

[40] Nello stesso senso, si sono espressi alcuni tra i primi commentatori del codice, tra cui, oltre a M. A. Sandulli, citata nella nota precedente, M. Clarich, op. cit., il quale evidenzia che la disposizione sembra far rientrare dalla finestra l’azione di adempimento appena uscita dalla porta, R. Gisondi, op. cit., secondo cui non sembrano sussistere ostacoli di ordine letterale o sistematico per escludere che l’azione di condanna “atipica” possa consentire al ricorrente di ottenere la stessa pronuncia che avrebbe potuto ottenere con l’azione di adempimento, mentre R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010, precisa che le potenzialità della nuova azione di condanna “atipica” sono ancora tutte da esplorare.

[41] R. Gisondi, op. cit., sottolinea che, contemplando il codice l’azione di condanna “atipica”, nulla si oppone a che l’oggetto del giudizio di annullamento possa essere integrato, sottoponendo all’esame del giudice anche quei tratti vincolati dell’azione amministrativa che, siccome non presi in considerazione dalla motivazione o dagli atti preparatori che hanno preceduto l’atto impugnato, non potevano essere dedotti come motivi di impugnativa; l’Autore, condivisibilmente, soggiunge che tale impostazione consente anche di colmare una lacuna del processo amministrativo di legittimità, atteso che, fino all’entrata in vigore del codice, la pronuncia del giudice in ordine alla spettanza di un determinato provvedimento era consentita solo in sede di giudizio sul silenzio, ma non nel caso di impugnazione di un atto di diniego.

[42] L’art. 35 del d.lgs. 80/1998, come sostituito dall’art. 7 della l. 205/2000, nel prevedere la possibilità del risarcimento danni nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non operava alcuna distinzione tra le posizioni di diritto soggettivo e quelle di interesse legittimo, inducendo a ritenere che non è esclusa la possibile risarcibilità quando il danno derivi da lesione di interesse legittimo, ma soprattutto l’art. 7, co. 3, della l. 1034/1971, come sostituito dall’art. 35, co. 4, del d.lgs. 80/98 nel testo introdotto dall’art. 7 l. 205/2000, devolveva alla cognizione dei Tribunali Amministrativi tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno anche in giurisdizione generale di legittimità postulando, evidentemente, la sussistenza di un problema risarcitorio in caso di violazione di interessi legittimi.

[43] G. Ferrari, Il nuovo codice del processo amministrativo, guida all’art. 30, Roma, 2010, ritiene evidente il richiamo implicito all’art. 1227 c.c., poi riproposto, questa volta clare verbi, nell’art. 124 relativo alla tutela in forma specifica e per equivalente in materia di appalti, che, al secondo comma, prevede come in sede di liquidazione del risarcimento del danno il giudice valuti, ai sensi dell’art. 1227 c.c., la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto.

[44] R. Chieppa, op. cit., evidenzia che alcuni degli argomenti critici mossi per affermare che si tratterebbe di una “pregiudizialità mascherata” tendono in realtà a sostenere la tesi dell’assoluta indifferenza dell’azione di risarcimento rispetto all’azione di annullamento, tesi che, però, non è stata mai proposta né dalla Cassazione né in sede di lavori per la predisposizione del codice e che è del tutto minoritaria anche con riferimento agli altri ordinamenti europei.

[45]  Cfr. Cons. St., VI, 14 marzo 2005, n. 1547; T.A.R. Lazio, Roma, Prima, 19 novembre 2007, n. 11330.

[46] R. Gisondi, op. cit., il quale, nell’evidenziare che l’art. 1227 c.c., in armonia con i principi solidaristici a cui è ispirata l’intera disciplina delle obbligazioni del codice civile, impone al danneggiato di attivarsi per non aggravare la posizione del debitore compiendo quegli atti che, senza un particolare sforzo economico, possono ridurre o contenere il danno, specifica che non rientra però tra i doveri del danneggiato quello di agire giudizialmente contro il debitore per ridurre un danno che potrebbe essere evitato attraverso lo spontaneo adempimento dell’obbligazione.

[47] N. Durante, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, in www.giustizia-amministrativa..it, 2010, pone l’accento sul fatto che l’ingiustizia del danno, quale presupposto della condanna al risarcimento, è richiesta dall’art. 30, co. 2, del codice, sia per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, sia per il ritardato o mancato esercizio della stessa, per cui, essendo indiscusso che il danno da uso illegittimo del potere presuppone sempre la titolarità dell’interesse sostanziale in capo all’istante, non si vede perché, quando nello stesso contesto l’aggettivo “ingiusto” è utilizzato per il danno da mancato uso del potere, questo debba assumere un’accezione diversa e più favorevole. 

[48] D’altra parte, la giurisprudenza, già nel previgente regime, aveva chiaramente evidenziato come il solo ritardo nell’emanazione di un atto fosse elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento cioè sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario (cfr. Cons. St., IV, 23 marzo 2010, n. 1699).

[49] Cfr. Cons. St., V, 30 settembre 2009, n. 5899.

[50]  Il primo comma dell’art. 30, infatti, consente la proponibilità dell’azione risarcitoria autonoma solo nei casi di giurisdizione esclusiva ed in quelli previsti dallo stesso art. 30.

[51] Ex multis: Cons. St., VI, 7 gennaio 2008, n. 33; T.A.R. Lazio, Roma, III quater, 1° dicembre 2008, n. 12254.

[52]  Ex multis: T.A.R. Lazio, Roma, III ter, 18 maggio 2010, n. 11828.

[53]  Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, I, 3 aprile 2006, n. 2293.

[54] R. Chieppa, op. cit., evidenzia che il sistema non è chiaro e non sembra essere simmetrico in quanto l’atto nullo è inefficace di diritto, mentre nella previsione codicistica, da un lato, decorsi centottanta giorni, l’invalidità non può essere fatta valere da chi ha interesse a contestare l’atto, dall’altro, se la stessa nullità è invocata dall’amministrazione per sottrarsi all’applicazione di un atto nullo favorevole ad un privato, non vi è alcun termine di decadenza per far valere il vizio.

[55] V. Caianiello, op. cit. pagg. 499 e ss., evidenzia lucidamente la possibile rilevanza extraprocessuale di effetti prodotti da pronunzie formalmente processuali, tra cui, prima dell’innovazione codicistica, era da includere la pronuncia di cessazione della materia del contendere.

[56] cfr. Cons. St., VI, 9 febbraio 2009, n. 717, che ha ritenuto esperibile dal terzo l’azione di accertamento autonomo per ottenere una pronuncia dichiarativa sull’insussistenza dei presupposti per svolgere l’attività edilizia sulla base di una denuncia di inizio attività.

[57] P. de Lise, Verso il codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010, secondo cui la peculiarità del testo è che esso mostra la propensione a costituire una raccolta normativa che funga non tanto da “punto di arrivo”, ma da “punto di partenza” per la giurisprudenza successiva, nel senso che sono state messe a frutto le conquiste giurisprudenziali, codificandole in un testo che, da un lato, valga a risolvere problemi che vanno al di là di quanto sia consentito agli interventi giurisprudenziali, dall’altro, fornisca una base solida, ma al contempo flessibile e aperta, per ulteriori conquiste della giurisprudenza.