L’onda lunga della giustizia amministrativa ed il codice del processo amministrativo

 

di Aldo Fera

Avvocato in Roma

 

Pubblicato sul sito il 10 gennaio 2011

 

Sommario: 1. Un codice di procedura per la giustizia amministrativa. 2.1. Le fondamenta ideologiche della giustizia amministrativa nel sistema francese. 2.2. Segue: un giudice nell’amministrazione. 2.3 Segue: verso l’effettività della tutela. 3.1 Nascita del sistema di giustizia amministrativa italiano. 3.2 Segue: l’evoluzione del sistema della giustizia amministrativa italiana. 3.3 Segue: il decennium mirabilis della giustizia amministrativa. 4. Ritorno al passato o ulteriore tappa verso l’effettività della tutela?  5. Il background del cambiamento.

 

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1. Un codice di procedura per la giustizia amministrativa.

Fino al 2010, chi si accostava, per motivi professionali o di studio, alla giustizia amministrativa restava colpito dal fatto che, nonostante l’impianto del sistema risalga a più di un secolo, il processo amministrativo, a differenza di quello civile e penale, non avesse un suo codice. Per di più, la sola lettura delle norme processuali, che sono state scritte a volte in modo sistematico a volte in modo occasionale nel corso di quasi centocinquanta anni, non consente di formarsi una sia pur vaga idea del sistema. Sistema che, in realtà, è stato creato dalla “sapiente lentezza” dei giudici, in primo luogo di quelli del Consiglio di Stato, che hanno sistematizzato le poche norme a loro disposizione  e hanno adeguato la lettera della legge al mutare dei tempi, costruendo così un insieme tendenzialmente compiuto ed autosufficiente.

Lo scenario muta improvvisamente nel corso di quest’ultimo decennio, che ha visto il legislatore svegliarsi dal lungo sonno ed intervenire con decisione in molte direzioni, che vanno dall’annoso problema del riparto della giurisdizione con l’autorità giudiziaria ordinaria (decreto legislativo n. 80 del 1998), cui tuttavia è seguito un intervento correttivo della Corte Costituzionale (6 luglio 2004, n. 204 ), all’adeguamento delle norme processuali ( legge n. 205 del 2000), ed infine all’accrescimento dei poteri decisionali del giudice amministrativo in tema di contratti pubblici (d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53 di recepimento della direttiva ricorsi) e di azione collettiva per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici (d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198). Il mutamento del quadro normativo, che dal punto di vista politico ha dato una risposta ad una domanda di giustizia che i giudici non avevano potuto soddisfare, ha palesato, sul piano della tecnica giuridica l’inadeguatezza delle norme di base a descrivere ciò che il processo amministrativo era diventato nella pratica giudiziaria.

Da qui l’esigenza di fare ordine e quindi della codificazione. Esigenza recepita dall’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha conferito al Governo la delega ad adottare ” uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato”, con una ricchezza di principi e criteri direttivi tale far ritenere come il Parlamento fosse ben conscio che si stava realizzando una sorta di rifondazione dell’intero sistema.

La delega, infatti, non si è limitata ad affidare al Governo il compito di procedere al “riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele” ( comma 1), cioè un opera di ripulitura delle norme esistenti con qualche sprazzo di novità. Ma ha cercato ( comma 2) di modificare la sostanza del processo amministrativo. Il nuovo codice, nell’intenzione del delegante, avrebbe dovuto : a) assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela; b) disciplinare le azioni e le funzioni del giudice: 1) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni; 2) riordinando i casi di giurisdizione estesa al merito, anche mediante soppressione delle fattispecie non più coerenti con l'ordinamento vigente; 3) disciplinando, ed eventualmente riducendo, i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia dei provvedimenti del giudice; 4) prevedendo pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa; c) procedere alla revisione e razionalizzazione dei riti speciali, e delle materie cui essi si applicano; d) razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, introducendo, tra l’altro, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; e) razionalizzare e unificare la disciplina della riassunzione del processo e dei relativi termini; f) riordinare la tutela cautelare, anche generalizzando quella ante causam, nonché il procedimento cautelare innanzi al giudice amministrativo in caso di ricorso per Cassazione; g) riordinare il sistema delle impugnazioni, disciplinando, tra l’altro, la concentrazione delle impugnazioni, l'effetto devolutivo dell'appello, la proposizione di nuove domande, prove ed eccezioni.

Come si vede, un disegno di ampio respiro che presenta almeno due punti di rottura con il passato. Uno è contenuto al n. 4 della lettera b) laddove “ prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”, il processo amministrativo ordinario è svincolato dai limiti dell’azione di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo, che non consentiva al giudice amministrativo, salvo casi particolari ed eccezionali, di adottare misure incidenti direttamente sul rapporto giuridico sottoposto dalle parti alla sua cognizione. Non solo ma, collegando l’azione alla natura della pretesa fatta valere, si passa dal processo sull’atto al processo sul rapporto giuridico, dando piena dignità giuridica alla relazione che corre tra pubblica amministrazione e cittadino. L’altro è contenuto nella seconda parte della lettera d) secondo la quale nel nuovo codice va introdotta “ la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni”. L’intento era quello di colmare una lacuna nella tutela giuridica del cittadino, aperta dalla Camera dei Deputati che, a partire dalla XIII legislatura, ha negato la propria giurisdizione sulle controversie riguardanti atti del procedimento elettorale preparatorio, e dalle concomitanti pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha sempre negato la giurisdizione del giudice ordinario su detta materia ( 8 aprile 2008, n.9151). La soluzione del problema era stata auspicata anche dalla Corte Costituzionale, che, nel rifiutarsi di risolvere la questione mediante una sentenza additiva, osservò come l’introduzione della nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “ può essere invece frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata” ( 19 ottobre 2009, n. 259). Qui, ciò che colpisce non è tanto che così viene assicurata protezione giuridica, e quindi il rispetto delle regole, in un settore essenziale per la vita politica della Nazione, quanto che la giustizia amministrativa estende la propria competenza oltre i limiti del conflitto tipicamente amministrativo con poteri che incidono direttamente sulla composizione della massima istituzione politica.

Il progetto del “codice del processo amministrativo”, redatto da una commissione speciale, nominata dal Presidente del Consiglio di Stato e composta di consiglieri di Stato e magistrati di Tar, di magistrati della Cassazione, di un rappresentante dell’Avvocatura dello Stato e di esponenti del mondo accademico e forense, cioè da personaggi rappresentativi di tutto il mondo della giustizia amministrativa, ha cercato di sfruttare al meglio gli spazi di manovra consentiti dalla delega. Ed invero, in 155 articoli, viene configurato un modello di processo amministrativo che va oltre la tipologia originaria del modello impugnatorio-demolitorio del provvedimento amministrativo illegittimo. Già nell’enunciazione dei principi fondamentali della giurisdizione amministrativa (art. 2), viene scolpito nel marmo ( si fa per dire) come “ la giustizia amministrativa assicura una tutela giurisdizionale piena ed effettiva nel rispetto dei principi della Costituzione e del diritto europeo”, avendo ben chiaro in mente che l’effettività ha una sua autonomia che la colloca ben oltre gli altri principi generali che pure sono richiamati : (art. 3) ragionevole durata del processo, (art. 4) giusto processo, inteso come “effettiva parità delle parti, il loro pieno accesso agli atti e la piena conoscenza dei fatti”, (art. 5) contraddittorio. Proprio il richiamo al diritto europeo lascia intendere come ci si riferisce ad una tutela giurisdizionale che incide direttamente, senza mediazioni ulteriori dell'amministrazione, sul rapporto giuridico controverso e solo così può definirsi "piena ed incondizionata". La Corte giustizia CE ha più volte affermato come “ l'effettività della tutela giurisdizionale costituisce principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Tale principio è sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risulta ribadito nell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. ( Corte giustizia CE, grande sezione, 13 marzo 2007 , n. 432). Ora, quando la Carta di Nizza, costituzionalizzata dal Trattato di Lisbona del 2007, prescrive che “ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice” vuol dire, tra l’altro, che il giudice non può limitarsi ad una operazione dichiarativa che definisca l’esatto significato della norma da applicare al caso ed indicare chi ha ragione e chi ha torto, ma deve poter adottare quelle misure che in concreto portino, anche in difetto di collaborazione della parte soccombente, alla realizzazione in concreto dell’interesse del vincitore .

L’effettività della tutela giurisdizionale, infatti, si esprime pertanto attraverso il riconoscimento di una pluralità di poteri, iniziative e facoltà che vanno ben oltre la mera proposizione della domanda giudiziale, e che sono indispensabili per ottenere la tutela effettiva e concreta del diritto o interesse leso.

Il cuore del progetto, comunque sta nel Capo II del Titolo terzo, ove sono specificate le azioni proponibili davanti al Giudice Amministrativo. Ovviamente sono confermate la azioni di annullamento ( art. 38), avverso il silenzio ( art. 37) e quella cautelare ( art. 42). Ma ne vengono introdotte di nuove. L’azione di accertamento (art. 36), mediante la quale “ chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l'adozione delle consequenziali pronunce dichiarative.” In quest’ambito è compreso “l’accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo.” Si tratta, è vero, di una azione residuale, perché la stessa è non proponibile “quando il ricorrente può o avrebbe potuto far valere i propri diritti o interessi mediante l’azione di annullamento o di adempimento”, ed è soggetta all’ulteriore limitazione che “ l’accertamento non può altresì essere chiesto con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”, ma è pur sempre un’azione di chiusura del sistema che non lascia spazi vuoti nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive di chi entra in contatto con l’amministrazione pubblica.

Vi è poi l’azione di condanna ( art. 39) secondo la quale “chiunque vi abbia interesse può chiedere la condanna dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro o all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva, non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni.” Nell’ambito di tale azione è collocata “la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio o dal mancato esercizio dell’attività amministrativa”, oltreché quella per il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Viene chiarito al riguardo come “sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica” e che “l’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centottanta giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo” ed, inoltre, “ nel determinare il risarcimento il giudice può escludere i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o l’invito all’autotutela.” L’azione per il risarcimento per lesione di interessi legittimi è configurata, pertanto, come autonoma rispetto all’impugnazione dell’atto lesivo.

Viene, anche, introdotta l’azione di adempimento ( art. 40). in base alla quale, contestualmente alle azioni di annullamento o avverso il silenzio , “il ricorrente può chiedere la condanna dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento richiesto o denegato.”

Seguono, da ultimo, le azioni esecutive ( art. 41), mediante le quali “ il ricorrente può chiedere l’attuazione delle pronunce esecutive e di quelle passate in giudicato”. Anche qui va rimarcato come ( art. 124) il giudice non si limita ad emanare un comando generico ma “ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione”. Ed inoltre “ fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato.

Con ciò, nell’intenzione della commissione, il vecchio processo amministrativo, già morto a causa dell’opera congiunta del legislatore e della giurisprudenza, sarebbe stato definitivamente sepolto.

Le cose, tuttavia, non sono andate come auspicato, in quanto il testo redatto dalla commissione speciale è stato oggetto di un profondo rimaneggiamento da parte del Governo, “ al precipuo fine di non introdurre istituti che, anche indirettamente o mediatamente ed in prospettiva temporale di medio periodo, potessero essere suscettibili di determinare incremento di oneri per la finanza pubblica, evidentemente insostenibili nell’attuale fase congiunturale”, che ha portato ad un articolato profondamente diverso, sul piano sistematico, dal progetto iniziale. In realtà, il Governo non ha elaborato un testo alternativo, ma si è limitato ad espungere quelle norme che riteneva non conformi ai propri desiderata, nell’evidente preoccupazione che una più efficace tutela del cittadino potesse esporre eccessivamente un’amministrazione molte volte assente e per lo più non ancora allineata alle esigenze dei tempi.

Ed è stata una demolizione non da poco, se si considera che sono state soppresse l’azione di accertamento, salvo quella di nullità del provvedimento amministrativo, l'azione di adempimento e l’azione collettiva per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, anche se non essendo stato esplicitamente abrogato il decreto legislativo 20 dicembre 2009 n. 198 l’istituto sembrerebbe ancora esistente, ed è stata soppressa anche la nuova giurisdizione in materia di gli atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni dei membri del Parlamento. Non solo, ma la norma sull’azione di condanna che, nel testo della commissione recitava “chiunque vi abbia interesse può chiedere la condanna dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro o all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva, non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni” ( art. 41), è stata così riformulata “l'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma”, cioè solo nel caso di risarcimento del danno.

In pratica, il testo approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010 , n. 104, dopo l’intervento governativo, ridotto a 137 articoli, appare un coacervo asistematico di norme di vecchia e nuova fattura, difficili da interpretare e ancor più da applicare. Né può essere di aiuto la legge di delega, posto ben due criteri tra i più significativi (n. 4 della lettera b e seconda parte della lettera d) sono stati volutamente ignorati dal Governo, che ha ritenuto i tempi non ancora maturi per una tutela piena del cittadino.

Non v’è dubbio che un compito enorme è caduto sulle spalle del giudice, in particolare di quello costituzionale e di quello amministrativo, che dovrà prima di ogni altra cosa ricreare quell’ordine sistematico che consenta al codice di assicurare una tutela del cittadino allineata con le norme costituzionali nazionali ed i principi del diritto europeo.

Comunque, la domanda, cui qui si cerca di dare una risposta, è se un processo amministrativo costruito sul modello tradizionale, dell’impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo e del suo annullamento con riserva di esecuzione da parte dell’amministrazione, sia stato effettivamente risuscitato dall’intervento governativo e, se ciò non è avvenuto come personalmente ritengo,  quel’è la via da percorrere per una tutela effettiva anche nel campo della giustizia amministrativa.

Per fare ciò, occorre tornare alle premesse ideologiche della giustizia amministrativa, compiendo una rapida incursione nel sistema francese, non solo perché è lì che è nata la nuova giurisdizione ma anche perché, contrariamente a quanto avviene in Italia dove il termine ha assunto una valenza negativa, in Francia è ancora viva uno spirito razionalista che tende a costruire i sistemi giuridici sulla base di un’idea forte. Cioè ad una ideologia. Circostanza questa che fa comprendere non solo perché un sistema è stato fondato in una forma, piuttosto che in un'altra, ma anche il senso della sua evoluzione.

 

2.1. Le fondamenta ideologiche della giustizia amministrativa nel sistema francese.

L’idea che il cittadino debba essere tutelato giuridicamente di fronte agli abusi commessi dal potere pubblico, nella specie quello amministrativo, nasce con la rivoluzione francese. L’ancien régime, nonostante l’invenzione dello Stato e di una amministrazione stabile, era ancora dominato dal principio secondo il quale il Sovrano, e quindi lo Stato, era “ legibus soluto”. Principio, che, sul piano amministrativo, ammetteva al massimo una qualche forma di protezione del suddito attraverso la supplica al Re nei confronti degli atti adottati dai suoi agenti.

Tutto ciò ripugnava alla borghesia, che giustamente vedeva, nella mancanza di regole precise e di controllo, la radice dell’arbitrio dei funzionari incaricati dell’amministrazione dello Stato. Il mondo nuovo nega decisamente che gli agenti dello Stato possano fare ciò che più gli aggrada ed afferma, di contro, che solo la volontà del popolo, espressa nella forma della legge, abbia il potere di obbligare giuridicamente il cittadino a tenere un determinato comportamento od a subire una misura coercitiva. Per questo motivo, l’ordine impartito dell’agente dello Stato può e deve essere eseguito solo se conforme alla legge. E’ il principio di legalità, nella sua forma originaria, che esprime la supremazia della legge sull’apparato amministrativo.

L’influenza del pensiero di Rousseau è indubbia. E’ lui che modella lo stato di diritto, espressione con cui intendeva “ una forma di governo che ponga la legge al di sopra dell’uomo” giacché “ un popolo libero obbedisce, ma non è servo; ha capi ma non padroni; obbedisce alle leggi ma a nulla di più che alle leggi, ed è per la forza delle leggi che non obbedisce agli uomini” ( Lettres écrites de la Montagne, Lettre VIII).

Lo stesso concetto possiamo trovarlo nella Déclaration des droits de l'homme et du citoyen del 1789, il cui articolo 7 afferma solennemente : « Nul homme ne peut être accusé, arrêté ou détenu que dans les cas déterminés par la loi et selon les formes qu'elle a prescrites. Ceux qui sollicitent, expédient, exécutent ou font exécuter des ordres arbitraires doivent être punis ; mais tout citoyen appelé ou saisi en vertu de la loi doit obéir à l'instant; il se rend coupable par la résistance. ». La fonte di legittimazione dell’atto amministrativo non sta nel fatto che esso provenga da un organo del potere pubblico, ma nella sua conformità alla legge.

In altri termini, se la sovranità appartiene al popolo che la esercita mediante le assemblee legislative, cioè mediante leggi, il potere amministrativo, che a partire dal cinquecento in Francia era andato consolidandosi intorno ad apparati stabili ( tanto stabili da passare nel nuovo regime senza eccessivi sconvolgimenti, trattandosi solo di cambiare padrone), ritrova la sua legittimazione nel fatto che esso è esercitato dagli organi, nei modi e per le finalità stabiliti dalla legge.

Il rovescio della medaglia è che l’illegittimo esercizio del potere amministrativo costituisce un abuso che non può essere tollerato. Per cui occorre trovare i mezzi ed il modo per impedire che l’atto comunque adottato possa produrre gli effetti che  intendeva realizzare. Ma chi decide se un atto amministrativo è illegittimo e soprattutto chi adotta le misure necessarie per rimuovere gli effetti prodotti dal provvedimento amministrativo illegittimo  e ristora i danni subiti dal cittadino?  L’assoggettamento dell’amministrazione alla legge, a stretto rigore, dovrebbe comportare di per sé l’esistenza di un potere terzo che, accertatane l’illegittimità,  privi di valore giuridico l’atto amministrativo, ne cancelli gli effetti nel frattempo prodotti e applichi la volontà della legge al caso concreto.

Qui le cose si complicano perché un altro principio fondamentale dello Stato di diritto, affermato solennemente dalla Déclaration des droits de l'homme et du citoyen del 1789, è quello della separazione dei poteri. Recita l’articolo 16 : « Toute société dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n'a point de Constitution ». Formula che venne intesa dall’Assemblea nazionale in senso rigoroso, anche per la preoccupazione che l’azione di una magistratura indipendente potesse funzionare da freno per lo slancio rivoluzionario. Già con la Costituzione del 1791 viene introdotto il principio della “ exclusion judicial “ delle controversie di diritto pubblico nelle quali sia parte l’amministrazione.

Il problema che ha travagliato la Francia per ben due secoli è tutto qui. Se l’assoggettamento del potere amministrativo alla legge porta alla logica conseguenza dell’assoggettamento dell’amministrazione ad un giudice che possa reintegrare il cittadino nella posizione giuridica offesa, come può il giudice esercitare la sua funzione senza violare il principio di separazione dei poteri? La linea evolutiva del sistema della giustizia amministrativa, non solo in Francia ma anche in Italia e negli altri paesi dell’Europa continentale a diritto amministrativo, sta tutta nella soluzione di questa evidente aporia.

 

2.2. Segue: un giudice nell’amministrazione.

In Francia, la questione fu avviata a soluzione da Napoleone Bonaparte, che, già quando era ancora primo console, istituì un apposito organo, il “Conseil d’Etat” ( Costituzione dell’anno VIII – 1799), “ incaricato di redigere i progetti di legge ed i regolamenti dell’amministrazione pubblica e di risolvere le questioni che sorgono in materia amministrativa” ( articolo 52). Nell’ambito di questa seconda funzione, la legge del 28 pluvioso dell’anno VIII, introduce un complesso ed articolato sistema detto del contenzioso amministrativo, avente alla base i Consigli di prefettura ed al vertice il Consiglio di Stato. Si tratta, è vero, di organi non giudiziari ma amministrativi, specializzati nel derimere le controversie, ed è altrettanto vero che essi non hanno potere decisionale ma si limitano ad esprimere un parere all’organo di amministrazione attiva che sola ha il potere di decidere: l’Imperatore, per le questioni di carattere nazionale, ed i Prefetti, per le questioni territoriali concernenti i distretti ed i municipi. Ma è solo l’inizio.

Una lunga e progressiva evoluzione porterà, di pari passo, alla creazione del diritto amministrativo ed alla nascita di una nuova giurisdizione, nel cui ambito il Consiglio di Stato, a partire dal 1872, decide direttamente la controversia senza dover rimettere le proprie determinazioni all’autorità amministrativa.

C’è da dire che il Consiglio di Stato non copre tutta l’area del contenzioso tra l’amministrazione ed il cittadino, ma fin dall’inizio viene posta una netta distinzione tra questioni di diritto pubblico o di diritto amministrativo, affidate agli organi della giustizia amministrativa, e questioni di diritto privato considerate “comme judiciaire” e quindi affidate all’autorità giudiziaria ordinaria.

Soprattutto ad opera del Consiglio di Stato, la “jurisdition administrative” , ancorché incardinata nel potere esecutivo, si evolve affermando nel tempo la propria indipendenza, che solo più tardi sarà riconosciuta ufficialmente dal “Conseil Costitutionnel” ( decisione del 12 settembre 1984), non sulla base di una norma ad hoc ma come estensione del principio di inamovibilità dei giudici esplicitamente affermato dalla Costituzione per i “ juges juduciaires”.

Per quel che concerne il processo amministrativo, una lunga e costante evoluzione,  guidata sempre dal “Conseil d’Etat”, distingue la nuova giurisdizione in due grandi categorie : i “ recours d’excés de pouvoir” ed i “recours de plein contentieux”, chiamati da taluni già allora “de plein jurisdition” . I primi, per dirla con un linguaggio a noi vicino, sono caratterizzati dall’impugnazione di un atto amministrativo che il ricorrente assume essere stato adottato in violazione delle norme che regolano l’esercizio del potere. Si tratta di una giurisdizione di diritto oggettivo, nella quale, per dirla con Marcel Hauriou ( Précis de droit administratif e de droit pubblic, Paris 1933) , il ricorrente agisce come un “ pubblico ministero nell’interesse della legge”, e che è contraddistinta dal fatto che l'unica misura consentita è l’annullamento dell’atto impugnato e, ove questo non sia sufficiente, il rinvio dell’interessato davanti all’Amministrazione, affinché quest’ultima prenda le misure necessarie per l’esecuzione della decisione giudiziaria. Il processo, quindi, terminava con l’annullamento del provvedimento illegittimo senza che il “Conseil d’Etat” potesse comandare alcunché all’Amministrazione. Ciò sempre in rigorosa applicazione del principio di separazione dei poteri che vietava al giudice di interferire sulla funzione amministrativa. Interpretazione che, col tempo, ha acquistato il valore di un dogma ed ha assunto rango costituzionale con la Costituzione Gollista del 1958, che vieta alla giurisdizione contenzioso-amministrativa di dare esecuzione alle proprie sentenze. Anzi ad avviso del Conseil Costitutionnnel il divieto sarebbe ricompreso nei principi fondamentali costituenti il “bloc de constitutionnalité.”

Il “ recour d’excés de pouvoir” , ad opera della giurisprudenza del “Conseil d’Etat”, si è imposto come rimedio a carattere generale, quale principio generale del diritto francese, anche se non sorretto da garanzia costituzionale.

I “ recours de plein contentieux”, invece, non hanno carattere generale, essendo previsti solo in determinate materie, indicate dalla legge o introdotte nel sistema da decisioni giurisprudenziali. Hanno, però, carattere soggettivo e possono portare ad una pronuncia giurisdizionale di condanna ed alla modifica ad opera del giudice della decisione amministrativa impugnata.

Tornando al “ recour d’excés de pouvoir”, va detto che l’enfasi, con cui è stato ribadito ed esteso anche al giudice amministrativo il divieto per il giudice di “troubler de quelque maniére que ce soit, les opérations des corpes administratifs” , era indice non di forza ma di una estrema debolezza del sistema. Sottoposto a proteste sempre più vigorose di parte di coloro che, vittoriosi nel processo amministrativo, non riuscivano ad ottenere dall’amministrazione una esecuzione piena e completa della decisione del giudice amministrativo. Oggetto di feroci critiche della dottrina, che non ha perso l’occasione per sottolineare la debolezza dello strumento a disposizione del “Conseil d’Etat” sul piano cautelare – “ sursis à l’exécution” ( differimento dell’esecuzione dell’atto amministrativo) – e l’inefficacia della decisione giudiziaria per mancanza in capo al giudice che aveva emesso la decisione di un potere di esecuzione ( Jean Rivero “ les Huron au Palais Royal - EDCE 1980, p. 27 e s). Il privilegio dell’amministrazione, nonostante la protezione accordata dalla Costituzione gollista e  dal Conseil Costitutionnnel, non ha retto.

Ha cominciato la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha aggirato l’ostacolo della mancanza di una azione di esecuzione, creando pressoché dal nulla una azione di “ rèparation du dommage” da proporre nell’ambito della “ plein jurisdition”. Ha seguito il legislatore che, nonostante la costituzionalizzazione del divieto per il giudice di interferire sulla funzione amministrativa, ha ribaltato il principio della separazione dei poteri nell’arco di un solo ventennio.

 

2.3 Segue : verso l’effettività della tutela.

Il cambiamento del modello processuale in Francia è opera dell’Assemblea nazionale, che con tre leggi del 16 luglio 1980, dell’ 8 febbraio 1985 e del 30 giugno 2000, poi sistematizzate nel “Code de justice administrative “ , ha attribuito ai “tribunaux administratifs” il potere di dare esecuzione diretta alle proprie sentenze, consentendo loro di imporle all’amministrazione mediante “injonctions preventives”, e li ha dotati di strumenti cautelari efficaci ( les réferés ) affidati ad organi giurisdizionali specializzati.

Il codice dedica un intero libro, il quinto, a “ le référé, quelle che da noi vengono chiamate misure cautelari, stabilendo che il giudice del référé, che deve essere diverso da quello cui competerà di pronunciarsi sul giudizio principale, adotta nel minor tempo possibile misure provvisorie cautelari, ( art. L511-1), ed in questo ambito egli « peut ordonner la suspension de l'exécution de cette décision ( administrative) , ou de certains de ses effets « ( art. L521-1) ed anche « toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d'une liberté fondamentale » ( art. L521-2). Inoltre, « En cas d'urgence et sur simple requête qui sera recevable même en l'absence de décision administrative préalable, le juge des référés peut ordonner toutes autres mesures utiles sans faire obstacle à l'exécution d'aucune décision administrative « ( art. L521-3). A questa formulazione un po’ generica fanno, però, da contrappeso i poteri attribuiti al “ juge de référé” nei singoli settori di intervento, che vanno, ad esempio, dall’ordine di rispettare l’obbligo di pubblicità nei contratti pubblici e di procedere mediante gara, all’annullamento delle decisioni amministrative prese, alla sospensione dell’esecuzione del contratto od al differimento della stipula etc. ( capitolo primo). Inoltre, il giudice, può garantire l’effettiva esecuzione dei propri ordini, dettando le relative modalità e determinando l’ammontare “de l'astreinte provisoire “. Le référé comporta quindi il potere di ordinare all’Amministrazione di tenere un dato comportamento adeguato alle diverse fattispecie : contrattuale, fiscale, comunicazione audio visuale, urbanistico - ambientale, etc.

All’esecuzione delle sentenze, il codice dedica il libro nono, che si muove in due direzioni. Da un lato stabilisce che, quando l’esecuzione comporta la collaborazione dell’amministrazione, il giudice amministrativo, già nella sentenza di merito, può stabilire i tempi e le modalità dell'esecuzione. Inoltre, già in questa sede, il giudice, al fine di assicurare la corretta e tempestiva esecuzione della sentenza può determinare l’ammontare della “astreinte”; istituto proprio del diritto francese, consistente nel potere, attribuito al giudice, di fissare, indipendentemente dal diritto al risarcimento del danno ed agli interessi, una somma di denaro che il debitore inadempiente è tenuto a pagare qualora si rifiuti di ottemperare all'ordine di eseguire la prestazione dovuta, come precisato nella sentenza. Un istituto simile è stato recentemente introdotto in Italia in sede civile con la c.d. coercizione indiretta, prevista all'art. 614-bis c.p.c. ( L. 18 giugno 2009, n. 69). La somma ingiunta non adempie ad una funzione riparatoria ma è una forma di coercizione affinché la prestazione venga effettuata. Per tale ragione il suo ammontare va determinato in base alla capacità patrimoniale dell'inadempiente ed eventualmente ad altri parametri come il grado di colpa.

Il “Code de justice administrative “, rompendo con una tradizione durata ben due secoli, pone la parola fine al “contentieux administratif” e conferisce piena effettività alle sentenze del giudice amministrativo, che, alla stregua dei principi basilari della giurisdizione, può finalmente imporre forzosamente all’amministrazione l’esecuzione del giudicato.

 

3.1 Nascita del sistema di giustizia amministrativa italiano.

Da noi si parte con un certo ritardo, perché occorreva prima fare l’Italia, con ciò intendendo una serie di cose: l’unificazione politica della penisola, la cancellazione degli istituti dell’ancien régime, forzatamente reintrodotti negli Stati preunitari dopo il Congresso di Vienna, e quindi la costruzione della Nazione e dello Stato moderno. Ed è appunto all’interno della legge sull’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, 20 marzo 1865, n. 2248, che, all’allegato E, viene affrontato il tema della protezione giuridica del cittadino nei confronti dell’amministrazione.

La legge del 1865 abolisce i tribunali del contenzioso amministrativo ( articolo 1), organi di giustizia ritenuta che comunque assicuravano una sia pur minima tutela amministrativa, ed attribuisce “alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa” ( articolo 2). Tuttavia, un’applicazione rigorosa del principio della separazione dei poteri porta il legislatore a dire che “gli affari non compresi nell'articolo precedente saranno attribuiti alle autorità amministrative” ( articolo 3), e, per meglio chiarire, che “quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso “ ( articolo 4);  in questo, come in ogni altro caso le Autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. ( articolo 5).

Poche norme ma bastevoli a creare un sistema. I fondatori dello Stato italiano, pur riconoscendo in linea di principio che l’amministrazione è soggetta al potere giudiziario, allontanandosi così del modello francese del contenzioso amministrativo, contemporaneamente negano quel ricorso “ d’excés de pouvoir” che rappresentava l’unico strumento giuridico con il quale il cittadino poteva, all'epoca, sindacare il cattivo uso del potere amministrativo.

Se a ciò si aggiunge che, all’epoca, spettava al Consiglio di Stato risolvere i conflitti di attribuzione tra autorità giudiziaria ordinaria ed amministrazione pubblica, non stupisce che prevalse la teoria secondo la quale l’esecutorietà dell’atto amministrativo fa si che l’eventuale diritto vantato dal cittadino degradi a mero interesse. L’altra possibile soluzione, adottata nei paesi di lingua inglese, era che l’atto contrario alla legge dovesse essere considerato adottato ultra vires, inidoneo quindi a produrre effetti giuridici. Ma questa seconda strada non fu neppure presa in considerazione.

Con la legge del 1865, da un lato è solennemente riaffermato il principio dello stato di diritto, che impone all’amministrazione di rispettare la legge ed affida al giudice il compito di vigilare che ciò avvenga, dall’altro il potere discrezionale dell’amministrazione è sottratto ad interferenze esterne ivi comprese quelle dei tribunali ordinari. In pratica, il potere discrezionale ritorna ad essere, come nell’antico regime, un potere arbitrario.

Uno scandalo che non poteva durare. Parole di fuoco furono pronunciate da Silvio Spaventa, che sarà poi il padre vero della giustizia amministrativa italiana, nel discorso pronunciato nell’associazione costituzionale di Bergamo ( pubblicato in opuscolo estratto dalla Gazzetta provinciale di Bergamo, n. 107, 7 maggio 1880 ). Dopo aver esordito precisando come il tema del suo intervento sarebbe stato il “ pericolo che corrono le nostre istituzioni per causa della ingerenza indebita dei deputati nell’amministrazione dello Stato, e alla necessità di porvi riparo”, elenca una serie di casi per i quali la legge del 1865 non prevedeva alcuna tutela giurisdizionale. Casi che è opportuno ricordare, se non altro per sfatare il mito dell’esistenza di una presunta età dell’oro dell’amministrazione italiana, poi degenerata a causa della democrazia parlamentare. E che sono quelli di sempre: il pretestuoso scioglimento della congregazione di carità di Venezia, le ingerenze ministeriali sulla cassa di risparmio di Milano in violazione dello statuto dell’opera pia che l’amministrava, lo scioglimento dell’opera pia di San Paolo di Torino per “ introdurre nel maneggio di quell’opera una creatura del prefetto”, lo scioglimento dell’opera pia della Casa di Genova sulla base di motivi smentiti da documenti autentici, il mutamento dell’amministrazione di trecento e piú opere pie della città di Bologna senza osservare le disposizioni degli articoli 23 e 24 della legge sulle opere pie, la soppressione da parte del commissario regio di Firenze dei sussidi alle scuole pie, il rinnovamento del quinto al consiglio comunale di Napoli, la negata conferma dei vice-sindaci di Napoli, l’insabbiamento del ricorso al governo del Re di Vittorio Imbriani contro l’annullamento della sua elezione a consigliere provinciale di Napoli, e tanti altri che hanno quale denominatore comune l’ingerenza del ministro, del prefetto e dei singoli deputati sull’amministrazione al fine di favorire gli interessi particolari dei notabili graditi al governo.

Sembra di leggere la cronaca di oggi. Tutto ciò è accaduto, accade e, probabilmente, accadrà sempre. Con l’unica, ma significativa, differenza che, mentre allora non restava altro che rassegnarsi, oggi gli arbitri dell’amministrazione possono essere portate davanti ad un giudice, che può intervenire e ripristinare il diritto violato. E questo lo dobbiamo proprio a quella classe politica dell’Ottocento, di cui era parte Silvio Spaventa, che ha avuto il coraggio di affermare con forza la “necessità di avere, veri giudici e veri giudizi di diritto pubblico in tutte le sfere della nostra amministrazione; unico rimedio ai pericoli che corre il sistema parlamentare”, e che ha avuto la capacità di intuire come tale risultato poteva essere raggiunto senza ribaltare il sistema ma semplicemente colmando il vuoto lasciato dalla legge del 1865, attraverso la riforma del Consiglio di Stato e degli altri organi deputati al contenzioso amministrativo. Creando così il modello della “giustizia nell’amministrazione”, che ha retto la scena per più di un secolo ed ancora oggi trova qualche sostenitore.

Il progetto trova concretezza attuazione con la legge 31 marzo 1889, n. 5992, che modifica la composizione del Consiglio di Stato, costituendo una nuova sezione, la quarta, “ per la giustizia amministrativa”. Le attribuzioni della sezione possono essere raggruppate in due categorie: la prima, di carattere generale concerne il potere di decidere “ sui ricorsi per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti o provvedimenti di un’autorità amministrativa… che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici” ( art. 3); la seconda, di carattere eccezionale, concerne il potere di decidere, “ pronunziando anche in merito” su un elenco tassativo di casi tra i quali i “ ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico” ( art. 4, n. 4). Quanto ai poteri, la quarta sezione “ se accoglie il ricorso…, nei casi previsti dall’art.3, annulla l’atto o provvedimento , salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”; e , nei casi dell’art. 4, “decide nel merito” ( art. 17, comma 3).

Il senso della nuova giurisdizione, così come era avvertita dalla classe politica dell’epoca, si può facilmente ricavare sempre dagli scritti di Silvio Spaventa, che fu anche il primo presidente della quarta sezione del Consiglio di Stato. Nel discorso per l’inaugurazione (13 marzo 1889), rimasto incompleto e mai pronunciato poiché questa ebbe luogo in forma non solenne, l’attenzione viene focalizzata sulla considerazione che “ in questa giurisdizione non si tratta di definire controversie nascenti dalla collisione di diritti individuali e omogenei, ma di conoscere solamente, se il diritto obbiettivo sia stato osservato. Ciò può servire mediatamente anche all’interesse dell’individuo ma non ne è l’immediata conseguenza.” Per cui “ l’interesse individuale offeso è solamente preso come motivo e occasione per l’amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti; ma non è l’oggetto proprio della decisione, a cui tale riesame può metter capo.”

L’attribuzione al Consiglio di Stato delle controversie di diritto amministrativo, quindi, non da vita ad un nuovo ordine giudiziario esterno all’amministrazione ma costituisce un foro interno nel quale prevale, anche se non ne è il fine esclusivo, l’interesse pubblico alla tutela del diritto oggettivo. Ciò corrisponde alla natura del rapporto giuridico definito dalle leggi amministrative, “che non contengono alcuna norma giuridica obbligatoria, sia nei rapporti dei privati fra loro, sia dello Stato con essi” e “ nelle quali sono date regole o istruzioni per indirizzare l’opera degli organi dell’amministrazione nella realizzazione del pubblico interesse: ma con questo non si concede alcun diritto al cittadino di costringere l’amministrazione ad operare in questo o in quel modo per il suddetto fine: gli interessi individuali, qui, non sono giovati se non in quanto è richiesto dall’interesse generale, di cui soli tutori sono lasciati gli organi dell’amministrazione.”

Fin qui, l’argomentazione sembrerebbe dar ragione ai sostenitori della legge del 1865, per i quali le uniche situazioni giuridiche soggettive tutelabili nei confronti dell’amministrazione pubblica erano quelle ascrivibili al diritto soggettivo. Pur ammettendo, infatti, che la mano libera concessa all’Amministrazione porti inevitabilmente all’arbitrio, la visione ideologica condivisa  dalle due anime del movimento liberale si opponeva al controllo giurisdizionale sull’amministrazione, perché negava in radice che potesse esistere un conflitto tra gli  interessi del cittadino e quelli dello Stato. In realtà, la questione è vista come un inconveniente di fatto cui occorre trovare rimedio.  Da qui la domanda posta da Silvio Spaventa: “ vi è ora una zona in questo campo, che, se non può sottoporsi al riesame dell’autorità giudiziaria, può però sopportare un controllo giurisdizionale dentro l’amministrazione stessa contro l’abuso dei suoi organi, con sufficienti garantie di giustizia ?” La risposta, ovviamente  positiva, è, quindi, una risposta di fatto  e ciò spiega perché la giurisdizione amministrativa è concepita “ come mezzo di semplice ricognizione dell’osservanza del diritto pubblico obbiettivo (prima norma fondamentale dell’amministrazione pubblica) la decisione non è che un giudizio di annullamento o di conferma dell’atto...

Quanto l’ideologia liberale abbia pesato sulla costruzione del sistema è un dato  acquisito. Sennonché, in Italia la giustizia amministrativa nasce tardi, cioè quando lo stato liberale è già in crisi. Una lucida descrizione di ciò la troviamo nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1909-1910, tenuta preso l’Università di Pisa da Santi Romano, che appunto porta il titolo “ lo Stato moderno e la sua crisi”. C’è da ricordare che per stato moderno, all’epoca, s’intendeva lo stato liberale, che negava rappresentanza politica ai corpi sociali intermedi e perseguiva l’illusione di costituire l’unico momento di sintesi possibile per gli interessi degli individui. Afferma Santi Romano come “ il principio cioè, che lo Stato, rispetto agli individui che lo compongono e alle comunità che vi si comprendono, è un ente a sé che riduce ad unità gli svariati elementi di cui consta, ma non si confonde con nessuno di essi, di fronte ai quali si erge con una personalità propria, dotato di un potere, che non ripete se non dalla sua stessa natura e dalla sua forza, che è la forza del diritto”. Una concezione razionale e limpida dello stato, che servì a porre le basi per la teorizzazione dello stato di diritto, descritto come un fenomeno complesso consistente, prima, nella creazione del diritto da parte dello stato come fatto politico preesistente e, poi, come sottomissione dello stesso stato allo stesso diritto. Una concezione, però, che porta “ con sé il suo peccato di origine: quello di essere eccessivamente semplice”. Tant’è che l’affacciarsi sulla scena politica delle masse popolari fino ad allora escluse dalle istituzioni e dell’organizzazione politica degli interessi corporativi fa sì che “ il diritto pubblico moderno dunque non domina, ma è dominato da un movimento sociale, al quale si viene stentatamente adattando, e che intanto si governa con delle leggi proprie.”

La giustizia amministrativa italiana, il cui impianto iniziale è implementato con norme che vengono erette a sistema nel testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato approvato con il Regio Decreto 26 giugno 1924, n. 1054, continua, apparentemente indifferente, la sua strada e si stabilizza intorno a tre forme di giurisdizione: la giurisdizione generale di legittimità di annullamento degli atti amministrativi illegittimi avente ad oggetto interessi che verranno qualificati come legittimi per distinguerli da quelli di mero fatto ( art. 26 del T.U. n.1054), la giurisdizione di merito limitata a casi tassativamente indicati ( art. 27 del T.U. n.1054) e la giurisdizione esclusiva estesa ai diritti ( art. 29 del T.U. n.1054), che sottrae in via di eccezione particolari materie alla giurisdizione ordinaria. In questa forma la giustizia amministrativa attraverserà il secolo breve, troverà conferma nella Costituzione della Repubblica, che blinderà con apposita norma il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario ( art. 103), e giungerà fino alle radicali riforme che si svilupperanno a partire dalla fine degli anni novanta.

 

3.2 Segue: l’evoluzione del sistema della giustizia amministrativa italiana.

La spinta a modificare il sistema della giustizia amministrativa nasce dal basso, dalle esigenze connesse alla trasformazione della società industriale nata dall’unificazione. Il cambiamento è radicale, giacché è volto a superare i limiti del modello astratto costruito dal legislatore; modello che si può definire con due parole, giurisdizione oggettiva e processo demolitorio dell’atto illegittimo. Se questo può soddisfare le ragioni dell’amministrazione, che col porre a disposizione del cittadini strumenti che assicurano il rispetto oggettivo della legge amministrativa migliora l’efficienza del sistema e si autolegittima politicamente, di certo non soddisfa il ricorrente che, con l’azione promossa davanti alla giustizia amministrativa, cerca di ottenere non tanto il rispetto astratto della legge quanto la soddisfazione di un proprio interesse. Per chi investe notevoli capitali nelle nuove società industriali, è vitale poter contare su di un’amministrazione che agisce secondo regole precise e soprattutto che sia sottratta alla mutevolezza dei politici.

Nel silenzio del legislatore, sono la giurisprudenza e la dottrina che aprono la strada al cambiamento. Il punto cardine da cui si parte è appunto quello della configurazione della giustizia amministrativa come giurisdizione oggettiva ed è il primo a cadere. Già ne “ la giustizia amministrativa” di Umberto Borsi ( Padova, 1935) la teoria secondo la quale il giudice amministrativo “ intende assicurare l’osservanza del diritto oggettivo” è presentata come un retaggio del passato smentito “dall’art. 26 della legge sul Consiglio di Stato che considera l’interesse individuale leso dall’atto che si pretende illegittimo come oggetto del ricorso e non come semplice condizione dell’ammissibilità del medesimo”. In buona sostanza la trasformazione del processo amministrativo, dal modello della giurisdizione oggettiva a quello della giurisdizione soggettiva, passa attraverso la creazione di una nuova situazione giuridica soggettiva, che si affianca al diritto soggettivo e che, per distinguerla dall’interesse processuale, verrà chiamato appunto “ interesse legittimo”.

Cosa sia l’interesse legittimo, confesso, di non averlo mai capito fino in fondo, soprattutto per il gran numero di teorie che si sono succedute nel tempo. Una cosa, però, è certa. Di fronte al potere dell’amministrazione pubblica di modificare unilateralmente la sfera giuridica dei cittadini, questi ultimi non si trovano in una situazione di una mera soggezione ma divengono titolari di una situazione giuridica soggettiva sostanziale, che consente loro pretendere che il pregiudizio sia giustificato dal rispetto formale delle norme che attribuiscono il potere amministrativo e, più in generale, dall’esistenza in concreto di un interesse pubblico effettivo che richieda il sacrificio che gli è richiesto. Il diritto a chiamare l’Amministrazione davanti ad un giudice, che accerti nel caso concreto il rispetto di tali condizioni, viene solo dopo ed è il portato della progressiva giurisdizionalizzazione del modello burocratico di stato di diritto, che si afferma nel corso del novecento nell’Europa continentale come naturale evoluzione dello stato di diritto liberale. Modello che vede nella procedimentalizzazione dell’attività amministrativa lo strumento principe per consentire, da un lato, la verifica ex post del rispetto del principio di legalità e, dall’altro lato, una più efficiente mediazione fra l'interesse pubblico e gli interessi corporativi che, secondo Santi Romano, avrebbero portato alla crisi dello stato moderno. In questo nuovo contesto caratterizzato dalla ricerca continua di un punto di equilibrio fra legislatore, amministrazione e giurisdizione, il giudice amministrativo assume sempre più il ruolo di arbitro tecnico di conflitti che non hanno trovato composizione in sede politico-amministrativa e di fonte sussidiaria del diritto amministrativo sostanziale e processuale.

Comunque già nei primi decenni del novecento, la giurisprudenza affronta e risolve, ovviamente con i modi propri della giurisprudenza cioè in via indiretta, i due limiti più gravi del modello processuale, che di fatto impedivano una efficace tutela dell’interesse legittimo. Il primo è che il giudice amministrativo poteva conoscere l'atto amministrativo, sia pur a contenuto negativo, ma non un comportamento omissivo dell’autorità, che avrebbe dovuto agire ma non l’ha fatto. Certo, qua e là nell’ordinamento, c’è qualche norma particolare che attribuisce all'inerzia significato positivo ( artt. 97 e 148 del testo unico della legge comunale provinciale del 1934) o negativo ( art. 63 del citato testo unico), ma manca una norma di carattere generale. Questa è creata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, attraverso un processo durato alcuni anni ( V sezione, decis. 22 luglio 1926; IV sezione, decis. 21 gennaio 1927), che ha portato a riconoscere l’atto amministrativo nella “ silenziosa inerzia” dell’Amministrazione indipendentemente dall’esistenza di disposizioni legislative che ne stabiliscano l’equivalenza.

Il secondo problema è l’esecuzione della sentenza del giudice amministrativo. Al riguardo, l’art. 88 del regolamento di procedura, approvato con il Regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, recita testualmente “ l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese.” Che fare se l’amministrazione, ricevuta la decisione di annullamento di un proprio provvedimento, anziché adottare le misure necessarie per adeguare la situazione di fatto al punto di diritto affermato dal giudice, mette tutto nel cassetto. Anche qui la giurisprudenza si muove con rapidità ed efficacia. Partendo dalla considerazione che l’art. 28, coma 2, del testo unico del 1924, attribuisce, sia pur in via indiretta, l’efficacia di cosa giudicata “alla questione principale decisa nel caso” sottoposto al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, quest’ultimo applica in via analogica l’art. 27, n.4, del testo unico del 1924, che attribuiva alla giurisdizione di merito i “ ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico” ( IV sezione, decis. 9 marzo 1928; V sezione, decis. 29 novembre 1930, 13 marzo 1931 e 5 dicembre 1931).

Il resto del secolo breve passerà nell’affinare e adeguare questi istituti di base al mutamento dei tempi, che è bene ricordarlo vedono la definitiva uscita di scena dello stato liberale e l’affermarsi in tutto l’Occidente della democrazia partecipativa con estensione a tutti i cittadini del diritto di eleggere i propri governanti ed il riconoscimento del ruolo politico dei corpi sociali intermedi. Un adeguamento che, alla fine, porterà decisamente al superamento del modello iniziale, come ricorda Mario Nigro ( “ l’alterazione e la trasformazione del tipo “ in Giustizia amministrativa, Bologna 1976). Il processo di impugnazione dell’atto amministrativo, destinato a concludersi con la demolizione giuridica dell’atto illegittimo, non è più avvertito, almeno nella giurisprudenza più consapevole dei riflessi teorici, diretto contro il provvedimento ma contro il modo in cui è stato esercitato il potere amministrativo nel contesto specifico della vicenda sottoposta alla cognizione del giudice. “ Una considerazione e una valutazione, le quali sembrano ormai investire l’atto non già in sé e per sé come realtà autosufficiente, espressione totalizzante ed esclusiva della volontà di comando dell’amministrazione, ma solo in quanto punto di emersione e segno di unificazione della complessa dinamica dell’esercizio del potere, tramite di comodo ( qualcuno ha parlato anche di occasione per instaurare il giudizio: Abbamonte) per sindacare tale esercizio, individuare le regole concrete, che debbono reggerlo e indirizzare secondo esse l’azione dell’amministrazione.”

Si tratta di una rivoluzione silenziosa, quella compiuta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la cui prima ricaduta sta nel contenuto sostanziale della decisione, che non è più limitato all’effetto demolitorio dell’atto illegittimo, con rinvio della questione all’amministrazione perché adotti le determinazioni di propria competenza, ma è arricchito da un ulteriore effetto ripristinatorio, in forza del quale il giudice ordina all’amministrazione di conformare lo stato di fatto e di diritto al punto di diritto accertato in via definitiva con la sentenza.

 

3.3 Segue: il decennium mirabilis della giustizia amministrativa.

A smuovere le acque è il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, che in occasione della privatizzazione del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, e conseguente trasferimento delle relative controversie dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria, interviene anche sul criterio di riparto della giurisdizione. Lo fa devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi” ( art. 33), nonché quelle “ aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia” ( art. 34). Aggiunge, poi, che “ il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. L’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, ha poi generalizzato lo strumento di tutela all’intero ambito della giurisdizione amministrativa.

Tre le novità: la prima è che il legislatore cerca di superare il criterio tradizionale di riparto della giurisdizione tradizionale, incentrato sulla dicotomia diritti soggettivi - interessi legittimi, adottando il criterio dei "blocchi di materie": la seconda è che l’oggetto della giurisdizione esclusiva si espande dagli atti e provvedimenti ai “ comportamenti”; il terzo è che, con l’attribuzione al giudice amministrativo della competenza a conoscere del risarcimento del danno e nell’estendere l’azione risarcitoria anche alla lesione dell’interesse legittimo, quest’ultimo per l’ennesima volta cambia natura.

Solo quest’ultima misura si salva dalla scure della Corte Costituzionale, che riscrive l’art. 33, eliminando il carattere generale della giurisdizione esclusiva sui servizi, riconducendo quest'ultima a “ particolari materie” come stabilito dalla Costituzione ( art. 103, comma 2), cancella il riferimento ai “ comportamenti”, ma, fortunatamente, dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale rivolta nei confronti dell’art. 35, con la considerazione che “il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia piena al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.

L'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato (sub 3), ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l'art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost..

Tutto sommato, l’intervento demolitorio della Corte Costituzionale, che resta ancorata al criterio formale di riparto della giurisdizione stabilito nella Costituzione, assume nel complesso un’importanza minore rispetto alle argomentazioni usate per respingere la questione di legittimità costituzionale delle norme che hanno riconosciuto al giudice amministrativo il potere di pronunciarsi, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione, sulle domande di risarcimento del danno ingiusto. Lo schema del percorso argomentativo è il seguente: 1) riconoscimento della piena dignità di giudice agli organi della giustizia amministrativa ex art. 24 della Costituzione 2) giurisdizione amministrativa come tutela piena ed effettiva degli interessi legittimi 3) adeguatezza necessaria dei poteri attribuiti al giudice amministrativo 4) pluralità di strumenti di tutela, con aggiunta a quello tradizionale demolitorio/conformativo dello strumento ulteriore del risarcimento del danno. In altri termini, se la Costituzione ha blindato l’interesse legittimo, gli ha anche riconosciuto la natura di situazione giuridica soggettiva meritevole di una effettiva tutela da realizzarsi mediante una giurisdizione piena, che implica, in applicazione  dell’art. 24 della Costituzione, quanto meno gli strumenti demolitorio, conformativo e risarcitorio.

Quale sia la natura di questa situazione giuridica è tutto da scoprire. Peraltro la distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, o meglio la convinzione che il secondo rappresenti una situazione giuridica minore rispetto al primo è solo italiana e non trova riconoscimento a livello sopranazionale. In un caso risalente ormai al 2000, la Corte Europea dei Diritti Umani aveva già esplicitamente affermato che quelli che noi chiamiamo comunemente interessi legittimi rientrano indubbiamente “ nella categoria dei diritti protetti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 ( decisione n. 33804/96 del 3 ottobre 2000).

Inoltre, il Consiglio di Stato, alle prese con il nuovo strumento di tutela, dopo una incertezza iniziale, ha iniziato a percorrere una strada estremamente interessante. Circa il “diritto al risarcimento del danno, in quanto connesso alla pretesa lesione di un interesse legittimo, si parla, a tale riguardo, di una specifica relazione tra P. A. e cittadino, preventiva rispetto al fatto o atto produttivo di danno e perciò distinta dalla pura e semplice responsabilità extracontrattuale; relazione che ormai nel linguaggio giuridico ha assunto la denominazione di " contatto sociale qualificato" o di " responsabilità da contatto ", implicante, appunto, da parte della P. A. il corretto sviluppo dell'iter procedimentale secondo non solo le regole generali di diligenza, prudenza e perizia, ma anche e soprattutto di quelle specifiche del procedimento amministrativo, sulla base delle quali avviene la legittima emanazione del provvedimento finale”. (sez. VI, 18 marzo 2008 , n. 1137 ; sez. V, 2.9.2005, n. 4461; sez. IV 12 marzo 2010, n. 1467).

E' agevole cogliere in questa affermazione l’influenza della dottrina francese, che da tempo aveva elaborato nel campo del diritto privato la categoria dei “ droits subjectifs réactionnelles” per descrivere quelle situazioni giuridiche soggettive caratterizzate dal fatto che, mentre nessuna preesistente relazione giuridica obbliga i soggetti coinvolti, il diritto protetto con le azioni ( responsabilità aquiliana, concorrenza sleale etc.) sorge nel momento stesso del pregiudizio e come sua diretta conseguenza ( P. Roubier, droits subjectifs et situations juridiques, Paris, 1963).

Ora, assodato che il risarcimento del danno rappresenta uno strumento, sia pur ulteriore, di tutela dell’interesse legittimo e che è estremamente complicato pensare ad un interesse legittimo duale, avente una sostanza nell’azione di annullamento ed un'altra in quella risarcitoria, la soluzione più semplice sembrerebbe quella riconoscere la medesima natura di droit subjectif réactionnelle all’interesse legittimo tout court.

L’ondata riformatrice, poi, prosegue lungo tutto il decennio, con l’aggiunta nel 2005 dell’art. 2 bis alla legge sul procedimento amministrativo ( n. 241/1990) che accorda la risarcibilità del danno da ritardo nell’esercizio dell’attività amministrativa, e si intensifica in questi ultimi anni. Due in particolare gli interventi degni di nota : il d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, che introduce azione collettiva per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, ed il d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, di recepimento della direttiva ricorsi.

Il primo stabilisce che gruppi di utenti e consumatori possono agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici,” se dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte dei servizi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, ovvero dalla violazione degli standard qualitativi ed economici stabiliti dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore, derivi la lesione diretta, concreta e attuale” dei loro interessi ( art. 1). Ora, è vero che il decreto legislativo non prevede esplicitamente la possibilità di ottenere il risarcimento del danno ed è accompagnato da tanti e tali limiti da rendere difficile la strada per i ricorrenti, ma contiene un elemento che pone l’azione fuori dello schema tradizionale. In un italiano un po’ forzato, il decreto stabilisce che “ il giudice accoglie la domanda se accerta la violazione, l'omissione o l'inadempimento di cui all'articolo 1, comma 1, ordinando alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine” ( art. 4). Lo schema originario ( accertamento dell’illegittimità - annullamento dell’atto - riserva di esecuzione all’amministrazione) è sostituito con uno schema nuovo ( accertamento dell’illegittimità - individuazione del comportamento legittimo - ordine all’amministrazione di un tenere un comportamento specifico). Un ordine, il cui rispetto è pur sempre garantito dal giudizio di ottemperanza ( art. 5).

Il secondo decreto legislativo recepisce nell’ordinamento interno la direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE, che è stata adottata dall'Unione Europea al dichiarato scopo di “ contrastare l’aggiudicazione di appalti mediante affidamenti diretti illegittimi” , e realizza tale scopo mediante la previsione di “sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive”. L’effettività è assicurata, in primo luogo, dalla regola secondo la quale “ un contratto risultante da un’aggiudicazione mediante affidamenti diretti illegittimi dovrebbe essere considerato in linea di principio privo di effetto. La carenza di effetti non dovrebbe essere automatica ma dovrebbe essere accertata da un organo di ricorso indipendente o dovrebbe essere il risultato di una decisione di quest’ultimo.”

Il decreto modifica il codice dei contratti pubblici del 2006, inserendo una serie di disposizioni che modificano il processo in materia di contratti pubblici. Anche qui cade uno dei criteri tradizionali di riparto della giurisdizione, in quanto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si espande in direzione di un territorio fino ad allora riservato diritto civile, cioè “ alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione e alle sanzioni alternative” ( art.7). “ Il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva dichiara l'inefficacia “ dello stesso in una serie definita di casi di particolare gravità “ precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva” ( art. 9). Negli altri casi “ il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la relativa domanda sia stata proposta” ( art. 10). E' da notare come in questo caso la riserva di esecuzione dell’amministrazione semplicemente scompare. E’ la sentenza a dettare la condotta dell’amministrazione e quali effetti la sentenza medesima produce direttamente sul rapporto giuridico controverso. Il principio di effettività comporta, nella giustizia amministrativa, l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di sostituirsi all’Amministrazione inadempiente per realizzare in via coercitiva la legittima pretesa del privato.

 

4. Ritorno al passato o ulteriore tappa verso l’effettività della tutela?

Il sistema francese della giustizia amministrativa, così come quello italiano, sono passati, attraverso una elaborazione durata poco più di un secolo, da una giurisdizione di diritto oggettivo ad una giurisdizione di diritto soggettivo, e si avviano ad assicurare una tutela piena ed effettiva del cittadino nei confronti del potere discrezionale della pubblica amministrazione. Un dubbio, tuttavia, serpeggia tra gli addetti ai lavori, per quel che concerne l’Italia. Le modifiche introdotte dal Governo al progetto di codice redatto dal Consiglio di Stato, che tra l’altro sono coeve ad una crisi particolarmente acuta dello stato insidiato sia per quel che concerne  l’unità nazionale che sotto il profilo della democrazia partecipativa,  rappresentano un fatto contingente o vanno viste come primo passo di un inversione della tendenza.

Alla fine del primo paragrafo, ci eravamo chiesti se l’intervento governativo fosse realmente riuscito nell’intento di tornare ad un modello di processo amministrativo del tipo impugnatorio-demolitorio del provvedimento amministrativo con riserva di esecuzione da parte dell’amministrazione.

La risposta data dagli operatori del diritto amministrativo non è stata unanime. Il Presidente del Consiglio di Stato ha sottolineato, con l’autorevolezza che deriva non solo dalla carica ma dall’aver partecipato e seguito da vicino gli eventi preparatori del codice, come “il testo approvato dal Consiglio dei Ministri abbia lasciato immutata una grandissima parte del testo e dell’impianto della Commissione: parlare perciò, in relazione alle modifiche apportate in sede governativa, di “rigurgito reazionario di qualche burocrate” e di “operazione di retroguardia dal punto di vista culturale”, mi sembra francamente eccessivo e ingeneroso” ( Pasquale de Lise, conclusioni della Tavola rotonda, tenutasi il 21 aprile 2010 presso la Corte Suprema di Cassazione). E, a parte l'intento di non aprire guerre tra istituzioni, c'è molto di vero. Il ritorno al processo di mero annullamento sembra solo un’affermazione di principio, rivolta a tranquillizzare soprattutto le nuove classi politico-burocratiche emergenti dei governi locali, ma non trova effettivo riscontro nel codice. Le forbici del governo non hanno toccato i punti chiave, che spetterà alla giurisprudenza sviluppare in concreto.

Mi riferisco in particolare all’art. 7, comma 1, del codice, che definisce l’ambito della giurisdizione amministrativa precisando come “ sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. “ Ora, quando si parla di “comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere”, si è decisamente fuori dal giudizio di impugnazione del provvedimento amministrativo e dall’azione di annullamento e , per così dire, rientra dalla finestra quell’azione di accertamento e le conseguenti pronunce dichiarative che si era inteso cancellare .

Anche l’azione di condanna, che nella nuova formulazione sembra ristretta al solo risarcimento del danno per equivalente è ben più ampia di quanto affermato. L’art. 34, comma 1, del codice, nel definire i contenuti sostanziali delle sentenze di merito del giudice amministrativo, precisa “c) condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile”. E più avanti “ e) dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.” Col che, riprende vigore l’azione di condanna e rispunta fuori l’azione di adempimento.

In effetti, l’unica vera vittima dell’intervento di ripulitura è la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, che viene cancellata senza alcuna apparente ragione, anzi in stridente contrasto con la legge di delega. Ma si tratta di una materia che, a rigore, non rientra nel campo del diritto amministrativo.

Altri sono stati più duri, o forse meno diplomatici. Fabio Merusi ha parlato della trasformazione di “ quello che doveva essere un processo paritario, in una sorta di giustizia domestica preunitaria. Insomma in qualcosa di più arretrato rispetto al discorso di inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato scritto da Silvio Spaventa verso la fine dell’Ottocento” ( in viaggio con Laband, in www.giustamm.it). Franco Gaetano Scoca è stato lapidario “ il giudizio sullo schema, dopo l’intervento dello sforbiciature ministeriale, non può essere che negativo” dal convegno tenuto presso il Consiglio di Stato il 19 maggio 2010, su “ il processo amministrativo ( ieri- oggi- domani)”.

Un giudizio intermedio è quello di Roberto Chieppa ( il codice del processo amministrativo, Varese 2010) secondo il quale “ nella consapevolezza che su molte questioni si è persa un’occasione, si anticipa che il giudizio, pur con molte riserve, è positivo e conduce a ritenere il bicchiere mezzo pieno”. In effetti il timore del Governo di “ rendere la tutela del cittadino realmente effettiva” lo ha portato a cancellare una serie di azioni che venivano sistematizzate in via generale, ma non a cancellare del tutto i germi che si sono andati annidando nel lento procedere del tempo. Per questo motivo, “ il Codice costituisce una tappa, una tappa importante, ma non il punto d’arrivo”, per cui i buchi creati dalle forbici governative potranno ben essere riparati dal naturale “ impulso all’evoluzione del processo amministrativo verso l’effettività della tutela”, controllato dalla sapiente lentezza del Consiglio di Stato.

E’ un opinione che ci sentiamo di condividere. Allo stato attuale, è improbabile che il sistema di giustizia amministrativa possa tornare al suo modello originario e c’è una ragionevole speranza che le disarmonie del codice possano essere in breve  tempo risolte dalla giurisprudenza.

C’è tuttavia un nodo sostanziale, sul quale Commissione e Governo hanno espresso un concorde punto di vista e che, tuttavia, rappresenta il vero salto evolutivo che il sistema dovrà prima o poi affrontare per assicurare una tutela effettiva dell’interesse offeso dal cattivo uso del potere amministrativo. Il problema dei margini dell’annullamento con rinvio all’amministrazione. L’art. 31, comma 3, del codice, in realtà contiene una norma specifica, disponendo che “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”, lasciando chiaramente intendere come, laddove residui uno spazio di discrezionalità ( anche tecnica), il giudice deve fermarsi e rinviare la questione all’amministrazione. Aggiunge poi il comma 2 dell’art. 34, che “ in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. E’ il colpo di coda del principio della separazione dei poteri, che non si rassegna alla completa giurisdizionalizzazione della funzione amministrativa.

La norma può essere letta in due modi diversi, come principio generale che rende recessivo il potere sostitutivo del giudice amministrativo ovvero come eccezione che impone di definire con accuratezza i limiti della riserva di potere dell’amministrazione. Quale delle due finirà per prevalere è cosa che dipenderà da un gran numero di fattori mutevoli, non ultimo il grado di effettiva autonomia che il giudice amministrativo riuscirà a conservare nel riassetto dei poteri pubblici che si va delineando.

Una cosa, però, si può cominciare a dire fin da adesso. Nella pratica, non esiste un atto amministrativo interamente vincolato o interamente discrezionale. Il potere amministrativo non si esercita mediante atti singoli ma attraverso procedimenti nei quali questi si pongono come dati in sequenza che acquistano un significato determinato solo se la catena procedimentale regge. E’ il vecchio principio di articolazione che fu introdotto nel sistema proprio per consentire il controllo dell’uso del potere. Ora, la maggior parte di questi atti non sono affatto espressione di potere discrezionale, così come la maggior parte degli adempimenti istruttori si riducono ad accertamenti tecnici che possono essere valutati solo in termini oggettivi. Si pensi ad esempio al rilascio del permesso di costruire, dove il potere discrezionale è stato speso quasi per intero nei procedimenti urbanistici a monte, per cui di discrezionale resta poco o niente. Non solo ma all’interno del procedimento, se l’atto conclusivo viene annullato per un vizio di un atto vincolato posto a valle, per quale motivo il giudice amministrativo dovrebbe rinviare la questione all’amministrazione affinché questa riesamini l’atto discrezionale a monte, che aveva superato il vaglio di legittimità ?

Si tratta, in pratica, di fissare una linea di confine. Ma non è cosa da poco, in quanto nella sua collocazione sta il futuro del potere sostitutivo del giudice amministrativo.

 

5. Il background del cambiamento.

La descrizione del percorso fin qui fatto dalla giustizia amministrativa, se spiega dal punto di vista tecnico giuridico l’evoluzione del sistema della giustizia amministrativa, non spiega perché un meccanismo così ben congegnato, soprattutto nel calibrare pesi e contrappesi del rapporto tra l’autorità amministrativa e la libertà del cittadino, abbia subito una lenta ma costante e progressiva evoluzione fino a trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. La spiegazione, ovviamente, sta fuori della scienza giuridica, che non si occupa dei moti di formazione del diritto, e può essere ricercata nel background che sta dietro all’onda lunga della giustizia amministrativa.

Abbiamo già detto come questa sia figlia della rivoluzione francese che, non solo è riuscita a legittimare l’azione degli apparati burocratici pubblici, ma pone la dualità tra principio di legalità e separazione dei poteri come uno dei pilastri essenziali su cui poggia il moderno “Stato di diritto”. A ben vedere, la rivoluzione borghese presenta non pochi tratti di continuità con ’” l’ancien régime” . Fra di essi, senza dubbio, va annoverata la costruzione dello Stato come apparato burocratico centralizzato, sorto nella Francia del ‘500 in contrapposizione alle antiche autonomie feudali non più in grado di fronteggiare le nuove sfide dell’età moderna. La conquista dei vasti territori scoperti dai navigatori transoceanici ed il conseguente sviluppo del commercio mondiale richiedevano non solo la creazione di grandi eserciti e di flotte poderose, ma il reperimento delle risorse  finanziarie, lo sviluppo della tecnologia e soprattutto un’amministrazione per uffici stabili. Non bastava più chiamare a raccolta i baroni, con le loro soldataglie, e noleggiare flotte da corsari o da repubbliche marinare. Occorre costruire un esercito ed una flotta stabili, con corpi di ufficiali preparati in apposite accademie, costruire arsenali, dotarsi di un sistema fiscale certo; in poche parole, occorre creare uno stato su cui poter far conto.

La rivoluzione francese recepisce questo stato e si limita a sostituire la fonte del potere: dalla sovranità del re a quella del popolo. Il passo ovviamente richiede degli adattamenti perché la sovranità del popolo non si esaurisce nell’elezione dei nuovi governanti ma implica la trasformazione di coloro su cui il potere verrà esercitato da sudditi in cittadini. Ai quali va data comunque una qualche forma di protezione, sia pur nella forma passiva della possibilità di difesa giuridica del proprio patrimonio dagli atti arbitri dei funzionari del governo.

E’ questo il modello accolto dal Regno d’Italia e perfezionato fino alla caduta del fascismo e della monarchia. Un modello estremamente efficace nei confronti di chi trae il suo benessere da un patrimonio consolidato, tanto è vero che la giustizia amministrativa sopravvive e sviluppa sofisticate tecniche di protezione del cittadino anche sotto la dittatura fascista: dimostrando così come lo stato di diritto liberale possa  esistere anche senza democrazia. Ovviamente, non è vero il contrario, perché una democrazia senza stato di diritto, cioè senza regole certe ed un sistema di controllo sul potere pubblico,  non può esistere.

Con la Repubblica le cose cambiano perché, nella nuova democrazia, il rapporto stato - cittadino non si esprime più in termini passivi. Il cittadino, anche come individuo, è chiamato a partecipare attivamente alla vita politica ed amministrativa. Per di più, l'impostazione pluralistica del potere pubblico pone fine alla costruzione stato-centrica dell’amministrazione. Ciò significa non solo differenziazione e moltiplicazione delle fonti di produzione del diritto, ma anche riconoscimento di uno spazio di maggiore autonomia nel quale si muovono le forze sociali non istituzionalizzate. Lo stato-amministrazione non rappresenta più l’unità della Nazione, ma uno strumento neutrale che  assicura la mediazione tra gli interessi contrapposti portati avanti dagli organismi esponenziali delle categorie ed esprime la funzione di ricerca di un accettabile punto di equilibrio tra le esigenze collettive e quelle individuali. E’ uno stato che, al contrario di quello liberale, non nega ma gestisce il conflitto sociale.

Che il nuovo di tipo di democrazia conduca ad una radicale revisione delle categorie giuridiche dell’800, peraltro, è ben chiaro nella cultura giuridica americana. Secondo Breyer e Steward, che insegnano negli anni ‘50 presso la Law School di Harward : “durante il New Deal, i sostenitori del processo amministrativo supponevano l’esistenza di un “ interesse pubblico” oggettivo che poteva essere determinato e gestito da amministratori specializzati, competenti e sperimentati, purché gli fossero conferiti poteri generali. Noi siamo meno sicuri oggi che degli “ esperti” possano determinare e gestire ciò che è nell’interesse generale. Noi siamo scettici sull’esistenza di un “ interesse pubblico” oggettivo  e concepiamo le più importanti questioni di politica amministrativa come scelta comparativa tra interessi economici e valori sociali.”  ( riportato da Cohen Tanugi – le droit sans l’ètat – Paris 1985).

Anche ad essere meno rigorosi degli americani, non pare dubbio che lo stato sociale, affermatosi anche in Italia nel secondo dopoguerra, rende più sfuggente la categoria dell’interesse pubblico oggettivo su cui Silvio Spaventa aveva costruito nel nostro paese  il sistema della giustizia amministrativa.

Rispetto al mutamento dell’assetto istituzionale, la giustizia amministrativa resta ancorata alla tradizione, ed è per questo motivo che si fa strada l’insoddisfazione per una tutela giudiziaria che resta ai margini della vicenda amministrativa e la richiesta di una giustizia che penetri all'interno dell’amministrazione pubblica e risolva una volta per tutte il conflitto. Richiesta che ha caratterizzato la seconda metà del vecchio secolo.

Oggi, la situazione è nuovamente mutata. Il fenomeno cui stiamo assistendo è la trasformazione degli apparati politici centrali, istituzionalmente depositari della sovranità popolare, ed il progressivo indebolimento dello “stato nazione”. Sopravvissuto alla degenerazione cagionata dei nazionalismi che hanno avvelenato l’Europa nella prima metà del secolo scorso e che stanno risorgendo con il fenomeno delle piccole patrie, lo stato nazione semplicemente sta perdendo sovranità.

La crisi è di vecchia data ma è diventata manifesta con la globalizzazione dei mercati. Si tratta di un fenomeno complesso, ancora in piena evoluzione e bisognevole di assestamento, sul quale è estremamente rischioso ed ingannevole fare previsioni o manifestare certezze. Per quel che concerne i riflessi che esso produce sullo stato di diritto, vale la pena di concentrare l’attenzione su alcuni aspetti particolari: la glocalizzazione, la new economy e la nascita di una nuova classe sociale, la global class ( parole coniate da Dahrendorf – Dopo la democrazia, Laterza – Bari 2001).

Glocalizzazione è un fenomeno duale, che vede emigrare parti sempre più consistenti della decisione politica dallo stato nazionale in direzioni opposte. Da una parte verso un livello superiore, cioè verso organizzazioni sopranazionali ( ONU, Commissione Europea, banca mondiale, G8, NATO etc.) e dall’altra verso un livello inferiore, cioè verso istituzioni locali legate al territorio ed alle sue tradizioni storiche. E' un processo asimmetrico, in quanto mentre le istanze politiche sopranazionali sono società aperte, che ripudiano per loro natura ogni forma di discriminazione individuale, quelle territoriali sono spesso attratte verso forme di regressione sociale e politica, con esaltazione di forme di cittadinanza fondate sullo ius sanguinis anziché sullo stabile insediamento di liberi cittadini su di un territorio.

E’ un fenomeno duale, perché, paradossalmente, nessuna delle due dimensioni sembra poter vivere senza l’altra. Senza l’ombrello di protezione militare ed economica offerto dagli organismi sopranazionali le comunità locali non sopravvivrebbero ma sarebbero destinate a soccombere di fronte alle mire del vicino più famelico o ridotte alla miseria dalla speculazione finanziaria globale. Senza la diffusione del potere politico verso il basso, gli organismi sopranazionali dovrebbero farsi carico dell’amministrazione locale e quindi costruire un sistema burocratico estremamente complesso ed elefantiaco, tale da renderne impossibile la gestione.

Ciò non toglie però che tra centro e periferia possano esplodere contrasti e conflitti, specie laddove gli interessi locali si sentano minacciati dalla realizzazione di progetti e programmi sopranazionali.

Anche new economy e global class sono fenomeni che manifestano una perdita di potere decisionale da parte degli stati nazionali, questa volta non verso sedi istituzionali ma verso poteri privati. Il problema è la difficoltà crescente delle istituzioni politiche nazionali non solo a governare l'economia, ma anche a tentare di realizzare un indirizzo politico più vicino possibile ai desideri del corpo elettorale che li ha legittimati. Basti pensare come l’impero privato di Murdoch sia in grado di influenzare, più di qualunque stato nazionale, l’opinione pubblica mondiale. E' il mondo delle corporations internazionali, dalla cui decisione sulla localizzazione degli stabilimenti produttivi può dipendere il benessere della popolazione di vaste aree, ma anche di gruppi finanziari in grado di decidere lo spostamento di capitali da una parte all’altra del globo senza vincoli di fedeltà nei confronti di un singolo stato o autorizzazioni di sorta. Esempi del potere politico esercitato dalla global class sono sotto gli occhi di tutti: basti pensare a come una recente decisione del gruppo Fiat abbia cambiato unilateralmente il sistema delle relazioni industriali, senza che Governo, Parlamento, Confindustria e Sindacati abbiano avuto la benché minima possibilità di interloquire. Basti pensare all’attacco alla Grecia, all'Irlanda e, prima ancora, a quello riuscito all'Argentina, condotto da un gruppo di finanzieri internazionali con l’uso spregiudicato di strumenti finanziari, che ancora oggi non sono del tutto sotto il controllo degli organismi internazionali.

La rapida evoluzione del fenomeno non consente oggi di prevedere quale sarà l’assetto del potere pubblico nei prossimi dieci anni.

Nella nebbia, tuttavia, sembra profilarsi uno scenario per molti versi simile all'inizio del mondo moderno: un impero lontano in perenne lotta con signorotti locali, compagnie di affaristi che si impadroniscono di interi continenti, un popolo spaurito e disperso che non è più in grado di produrre organizzazioni politiche capaci di trasformarsi in istituzioni. Quello che cambia sono gli strumenti: il potere dell'impero solo raramente ( la guerra dei Balcani) si esprime attraverso l'uso delle armi, che è riservato a contenere la pressione dei nuovi barbari alle frontiere, ma prende corpo mediante l’imposizione di modelli standard di comportamenti istituzionali, che ogni stato nazione è obbligato a rispettare. Il rispetto dello standard è condizione per l’inclusione nel mercato globale e lo standard è elaborato in modo tale da assicurare lo sviluppo del mercato globale e, più prosaicamente, il governo effettivo degli organismi internazionali su tutti i livelli di governo sott’ordinati.

Per restare nel mercato globale, pertanto, gli stati nazionali sono costretti a adeguare il proprio modello di sistema giuridico ai  parametri stabiliti in sede sovranazionale e garantiti da corti internazionali. Due gli esempi che riguardano da vicino la giustizia amministrativa: la Carta di Nizza, costituzionalizzata con il Trattato di Lisbona del 2007, e la direttiva ricorsi dell’Unione europea del 2007. I due atti enunciano il principio di effettività della tutela giurisdizionale del cittadino europeo contro la pubblica amministrazione ed hanno cambiato sostanzialmente il ruolo del giudice amministrativo anche nel nostro paese.

Quanto detto finora non deve condurre alla conclusione errata che lo stato nazionale stia scomparendo. La funzione dello stato nazionale, in questo contesto, non viene meno ma cambia nel senso che esso si pone, da un lato come elemento costitutivo degli organismi sopranazionali, dall’altro come punto di raccordo tra il governo sopranazionale e le comunità territoriali. Per quel che ci riguarda come produttore di regole interne conformi agli standard, cioè come garante dello stato di diritto interno, intendendo quest’ultimo non più come contrappeso ad un potere dispotico ma come garanzia di esistenza e di sviluppo del mercato globale.

Ciò porta ragionevolmente a ritenere come principi quali la separazione dei poteri abbiano fatto il loro tempo e che i nuovi principi, come quello dell’effettività della tutela giurisdizionale del cittadino globalizzato, nel cui ambito va collocata l’indipendenza del giudice considerata come equidistanza dalle parti, hanno iniziato a illuminare il cammino della giustizia amministrativa.