Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato

di

Filippo Patroni Griffi

Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

Pubblicato sul sito il 14 dicembre 2010[i]

 

INTRODUZIONE

Come nasce la tutela dinanzi al giudice amministrativo

Il sistema delle tutele, nella sua evoluzione, rappresenta il livello di responsabilità dei poteri pubblici che l’ordinamento è disposto a riconoscere e denota la capacità dello Stato di diritto di mettersi in gioco, riconoscendo a un’articolazione autonoma di sé il potere di giudicare la legittimità del suo operare su richiesta di quegli stessi cittadini, come individui, nel cui interesse, come collettività, è svolta l’attività amministrativa.

Un richiamo, pertanto, a come nasce in Italia la tutela avverso gli atti dei pubblici poteri può fornire la chiave di lettura di un sistema che si caratterizza proprio per un’evoluzione storica contrassegnata da una progressiva emersione di situazioni tutelate, di legittimati, di tecniche di tutela.

Noi sappiamo che la legge del 1865 abolitiva del contenzioso amministrativo, nel deferire al giudice ordinario i diritti soggettivi (“diritto civile o politico”), pone una regola fondamentale di “riparto”, ovviamente “rivolta” al solo giudice ordinario (che in realtà si poneva come unico giudice) nei suoi rapporti con l’amministrazione, consistente essenzialmente nel divieto per il giudice ordinario di pronunciarsi in via principale sulla legittimità del provvedimento e di rimuoverlo. Tale regola, in modo più articolato, comportava:

a)    il divieto per il giudice ordinario di emettere sentenze costitutive (art. 4; oggi, in un’ottica diversa, si pone la norma di cui all’articolo 113 Cost.);

b)    la possibilità per il giudice di “disapplicare” il provvedimento amministrativo illegittimo;

c)     l’obbligo per la pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato, anche rimuovendo l’atto di  cui, in sede di disapplicazione, era stata riconosciuta in via incidentale l’illegittimità.

 

La dottrina tradizionale evidenzia una duplice lacuna del sistema, e precisamente una lacuna di ordine “sostanziale” e l’altra di ordine “processuale”:

a)    la sottrazione di ogni tutela nelle ipotesi in cui non sia leso un diritto soggettivo;

b)    la mancanza di un rimedio per assicurare l’ottemperanza al giudicato.

 Ma il vero problema sorge in conseguenza della riconosciuta e preservata autoritatività degli atti dei pubblici poteri: il provvedimento iure imperii, mediante l’equiparazione tra atto valido e atto invalido fino alla pronuncia di illegittimità, di fatto comportava la “degradazione” del diritto a fronte di un sistema che non consentiva al giudice civile la pronuncia costitutiva nei confronti dell’amministrazione. Si trattava, in altri termini, pur sempre di una questione di tutela di diritti, che non trovavano tutela per una ragione di ordine apparentemente processuale (il divieto delle sentenze costitutive); sicché a tale problema andava posto rimedio sul piano sì delle tecniche di tutela, ma senza stravolgere i cardini di quel “riparto” tra giudice civile e pubblica amministrazione. Probabilmente su questo punto il sistema a giurisdizione unica si incartò, lasciandoci, con la teoria della degradazione, una costruzione, che dopo decenni di onorato servizio, finisce oggi per rivelarsi una damnosa hereditas[1]).

Nasce in questo contesto la IV Sezione del Consiglio di Stato per la tutela degli interessi legittimi (che in realtà spesso erano diritti soggettivi “degradati”) e l’istituzione del giudice amministrativo si pone in continuità con il sistema della legge del 1865 (a.3, l. 1889 e poi testo unico CdS) e in via residuale nel sistema delle tutele (“quando i ricorsi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria”). Certo, però[2], si determinò una “singolare inversione logica: prima venne esperito un nuovo rimedio esperibile contro i provvedimenti amministrativi illegittimi; solo in un secondo momento si costruì una situazione giuridica soggettiva ad esso correlata”. E questa singolarità caratterizzerà a lungo il sistema della giustizia amministrativa e permane tuttora, come si vedrà.

I mutamenti intervenuti nel sistema della giustizia amministrativa e l’idea del Codice

La Costituzione pone un sistema di norme sui rapporti tra cittadino e poteri pubblici e sulle tutele, con uno specifico riferimento al sistema della tutela dinanzi al giudice amministrativo. L’evoluzione del quadro costituzionale della giustizia amministrativa –nella compiuta lettura che ne dà Bachelet[3]- può essere schematicamente riassunta in tre mutamenti significativi intervenuti negli ultimi decenni del secolo scorso[4]:

a)     la collocazione del giudice amministrativo nel sistema delle tutele: si passa dal Consiglio di Stato giudice speciale sopravvissuto al divieto di giurisdizioni speciali al giudice amministrativo –come ebbe a dire Nigro- giudice ordinario degli interessi legittimi[5], che porta alla configurazione della giustizia amministrativa come “sistema generale di giustizia, con riferimento all’esercizio del potere pubblico”[6];

b)    la progressiva e tendenziale perdita di centralità del provvedimento amministrativo (sul piano sostanziale) e del carattere impugnatorio del processo;

c)     la trasformazione, anch’essa progressiva e tendenziale, dell’interesse legittimo in posizione “piena” attraverso la quale si rende visibile il bene della vita.

 

Nel delineato contesto istituzionale, la giustizia amministrativa si pone come un sistema generale riferito all’esercizio del potere pubblico e alla tutela del cittadino, donde l’esigenza di uno strumento generale che ordini princìpi e norme del processo. Alla base della recente codificazione del processo amministrativo vi è dunque l’esigenza formale di unificazione e coordinamento delle norme stratificatesi nel tempo e sparse in più testi normativi e l’esigenza sostanziale di “codificare” quella tutela “piena ed effettiva”; ma soprattutto vi è la finalità di dare compiuta attuazione al quadro costituzionale della giustizia amministrativa come espressione dell’assetto istituzionale e costituzionale dei rapporti tra cittadino e pubblici poteri[7].

 

IL SISTEMA DELLE AZIONI

Nella giustizia amministrativa è sempre stata latente l’idea che le azioni - nella tradizione storica ma anche nella riflessione recente (C. cost. 204/2004)- più che come diritti delle parti (o come astratto “diritto di azione”, avente esso stesso natura di diritto soggettivo, tesi prevalente nella dottrina processualcivilistica), possano essere riguardate come strumenti di tutela pratica volti a reintegrare al meglio la sfera giuridica del cittadino che sia stata lesa, sfera che si compone di posizioni soggettive.

Il collegamento, più che tra diritto e azione, andrebbe fatto tra azione e sfera giuridica lesa: l’azione ha finalità reintegratoria di un “patrimonio” attaccato contra ius dal potere pubblico.

L’impostazione mi sembra abbia un illustre precedente nella tradizione romanistica, nella quale, per dirla schematicamente, il riconoscimento pretorio di un’actio rende giuridico il vincolo e “pone” le correlate posizioni soggettive; e ha assonanza con l’esperienza anglosassone, dove l’assenza di codici sostanziali ha storicamente dato, quanto meno a partire dal 1600, maggiore spazio alle Corti nell’individuazione e nella protezione degli interessi giuridici.

In realtà –secondo la suggestiva ricostruzione storica di Orestano[8]-la scienza giuridica ha sempre oscillato tra concezione soggettiva e oggettiva dell’azione, in una disputa tra chi identificava obbligazione e azione e chi considerava l’obbligazione mater actionis, mentre già in Donello[9](1583) si parlava di azioni in termini di remedia.

Ma quello che preme rilevare è che questa impostazione si pone in linea di continuità col nostro sistema, perpetuandosi quella “inversione logica” tra azione e posizioni soggettive di cui si è detto.

Nel processo amministrativo è stata infatti da tempo colta l’interazione tra sostanza e processo nel sistema di tutela[10], nel duplice senso che:

a)     è il giudice che contribuisce, attraverso il processo, a realizzare quel fenomeno –storicamente, oltre che positivamente determinato- di progressiva emersione degli interessi legittimi dalla massa di interessi di fatto[11];

b)    la processualizzazione dei mezzi di tutela (cioè, delle azioni) consente di rendere gli stessi strumenti efficaci di garanzia delle posizioni soggettive dei cittadini, per di più in assenza di una codificazione sostanziale.

Se è vero che, nel momento in cui l’ordinamento riconosce un diritto, ibi est actio, è anche vero che il riconoscimento di un’azione, anche in via giurisprudenziale, è “riconoscimento del diritto”, o, in altre parole, emersione di un interesse dal sociale al giuridico. In realtà, perché ci sia tutela, è poco interessante sapere se (già) c’è un diritto o un interesse legittimo, perché –parafrasando Adolfo di Majo- l’interesse legittimo non è un interesse materiale ontologicamente diverso, ma solo una diversa forma di rilevanza e quindi di tutela attribuita a un interesse materiale ove questo si trovi a coesistere con l’interesse pubblico: “dietro il rimedio di tutela vi è sempre una posizione di diritto sostanziale che fa capolino”.

La diversa impostazione può condurre a diverse scuole di pensiero, ma anche a un diverso approccio a problematiche rilevanti pure sul piano pratico. Due per tutte:

a)    il risarcimento del danno può essere riguardato come diritto soggettivo in sé[12] oppure come uno degli strumenti per reintegrare la sfera giuridica lesa;

b)    la scarsa considerazione dell’approccio rimediale, unita a un eccesso di categorizzazione degli stessi diritti e forse a un eccesso di dogmatismo, può portare a quegli orientamenti recenti, per ora non tradottisi in sentenze della Suprema Corte e anzi osteggiati dal giudice costituzionale, secondo cui esisterebbero diritti “forti” che darebbero luogo a una sorta di riserva, che definirei per l’appunto dogmatica, di giurisdizione per il giudice ordinario[13] (una versione rinnovata dei diritti non degradabili, figli di quella damnosa hereditas della teoria dell’affievolimento cui ormai dottrina e giurisprudenza amministrativa non credono più) anzi che, più pragmaticamente, a una miscela di rimedi che ne consentano la tutela più efficace.

 

 

Le chiavi di lettura del sistema delle tutele in un’ottica (prevalentemente) rimediale:

 

a)    il rapporto tra tipologia delle azioni e contenuti della sentenza

 

Se tutto questo è vero, emerge una chiave di lettura del sistema delle azioni  incentrata sul rapporto tra azioni e pronunce del giudice, chiave di lettura che impone una lettura unitaria delle relative norme del c.p.a.[14].

Questa chiave di lettura, in realtà, è già presente nella legge del 1889, che disciplina i poteri del giudice, e segnatamente il potere del giudice amministrativo di pronunciare l’annullamento del provvedimento, più che le azioni proponibili. Il c.p.a. sovverte la logica[15]; nondimeno sembra che permanga la necessità, anche sul piano ermeneutico, di leggere in combinato disposto tra loro disciplina delle azioni (artt. 29 ss.) e contenuti delle pronunce (artt. 34 e 35).

Come osservato in dottrina[16], “in altre e più chiare parole, se è vero che ad ogni pronuncia di merito deve corrispondere un diritto di azione, è dunque necessario verificare – ed in questo, in definitiva, consiste il compito dell’interprete dell’art. 34, posto che i limiti e i contenuti delle azioni in quanto tali sono analizzati in punto di esame delle norme che le prevedono e le disciplinano – se tale allineamento sia completo ovvero se non vi siano margini di emersione dinamica di tutele non espressamente enunciate sul piano statico”.

 

b)    il rapporto tra cognizione e ottemperanza[17]

 

La disciplina delle azioni cognitorie pone il tema dei rapporti di queste con il giudizio di ottemperanza, cui è tradizionalmente affidato nel nostro sistema il completamento della tutela. In realtà è la combinazione di strumenti cognitori e fase dell’ottemperanza che dà la pienezza di tutela. Per la verità, è sempre stato così, solo che fino a oggi l’ottemperanza ha funzionato, ed egregiamente, come momento di chiusura del sistema, nel senso che là dove non arrivava il giudizio cognitorio arrivava invece il giudizio di ottemperanza, passando attraverso l’effetto ordinatorio e quello conformativo della decisione –teorizzati da Nigro- e la natura non meramente esecutiva, ma “mista” del giudizio di ottemperanza. Il codice significativamente parla ancora di ottemperanza e non di esecuzione, ma è indubbio che il baricentro tenda a spostarsi verso la fase cognitoria, spettando per converso all’ottemperanza la collocazione residuale, di chiusura del sistema.

L’impostazione data dal codice ai rapporti tra cognizione e ottemperanza si rinviene in varie disposizioni, e in particolare: nell’art. 34 co. 1 lett. E) , che anticipa alla fase cognitoria momenti sin qui tipici dell’ottemperanza, fino alla stessa nomina del commissario; e nell’art. 112 co. 3 [18], secondo cui in fase di ottemperanza può esser proposta (e decisa) l’azione di condanna al pagamento di interessi e rivalutazione maturati dopo il giudicato e, soprattutto, l’azione risarcitoria per i danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione ed elusione del giudicato. Mentre è rimasto non disciplinato dal codice il tema del danno da impossibilità o difficile esecuzione del giudicato[19].

 

c)     Una scelta di fondo: la permanente centralità dell’azione di annullamento?

 

Vi è una sostanziale differenza nell’ottica di fondo con la quale viene riguardata la centralità di un’azione nel sistema delle tutele avverso gli atti dei pubblici poteri.

Secondo l’ottica prevalente della Cassazione[20], la tutela risarcitoria costituisce “la misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse” e, nel caso di concorso di possibili azioni, spetta al ricorrente scegliere la forma di tutela.

Il prevalente orientamento del Consiglio di Stato è sempre stato nel senso della centralità dell’azione di annullamento, come forma di tutela specifica, cui si possono accompagnare altre forme di tutela[21].

Il c.p.a. accoglie il principio della pluralità delle azioni, conforma di conseguenza la disciplina del giudizio a partire dagli atti processuali, ma indubbiamente permane una preferenza per l’azione di annullamento quando oggetto del giudizio sia un provvedimento amministrativo.

Mi sembra opportuna una riflessione preliminare di metodo, che deriva direttamente dall’impostazione rimediale dianzi esposta.

Quello che è, e deve essere, centrale nel giudizio amministrativo è l’accertamento dell’illegittimo uso del potere[22]. Una volta accertata l’illegittimità dell’azione amministrativa, l’ordinamento offre una serie di rimedi (reintegratori, costitutivi, dichiarativi), in teoria tra loro intercambiabili, ma rispetto ai quali l’ordinamento mantiene una preferenza per l’annullamento, come forma di tutela specifica:

1)    perché “al carattere imperativo del provvedimento corrisponde di necessità il carattere (preferibilmente: ndr) costitutivo della sentenza del giudice”[23];

2)     perché la sentenza costitutiva meglio garantisce, per cittadino e amministrazione, quelle esigenze di certezza di rapporti anche de futuro e al di là della cerchia dei contendenti, tra cittadino e pubblico potere.

 

 

L’AZIONE DI ACCERTAMENTO

La mancata previsione di un’azione generale di accertamento è stata una delle questioni più dibattute nel codice. Il testo predisposto dalla Commissione Speciale istituita presso il Consiglio di Stato, infatti, la prevedeva. Ed è stata eliminata in sede governativa.

Dal quadro generale che si delinea, e anche dagli orientamenti dottrinari che si vanno formando, credo però che possa sostenersi che l’azione di accertamento sia esperibile, pur nel silenzio del codice, anche per gli interessi legittimi[24].

E’ innanzi tutto pacifico che l’azione, pur nel silenzio del codice e, prima del codice, della legge, sia esperibile in materia di diritti soggettivi. In realtà, l’azione di mero accertamento è sempre stata ammessa, pur in mancanza di una norma, nel codice di procedura civile, come riflesso dell’interesse ad agire, che può consistere nel mero accertamento di un rapporto o di una situazione soggettiva.

In secondo luogo, e continuando nel ragionamento, se le azioni sono forme di tutela, esse sono modellabili su qualsiasi situazione soggettiva, specie ove si riconoscano –come ha chiarito anche C.cost. 204/2004- i caratteri di generalità e pienezza alla tutela e parità alle situazioni soggettive.

In altre parole, diritto soggettivo e interesse legittimo vanno tutelati –quando serve (cioè quando lo strumento è adatto, idoneo ad assicurare tutela)- con lo stesso strumento; e poi non si vede perché l’accertamento di un diritto soggettivo sia ammissibile senza norma ad hoc e l’accertamento dell’interesse legittimo abbisogni di una esplicita previsione; senza considerare che le posizioni soggettive vivono nella realtà in un unico rapporto.

Non dimentichiamoci –e siamo al terzo, connesso, ordine di considerazioni- che, nel giudizio amministrativo, la nascita dell’azione di accertamento è avvenuta in via giurisprudenziale. Ci si riferisce alla decisione n. 10 del 1978 dell’Adunanza plenaria che, in tema di silenzio, afferma la sussistenza di “un obbligo di provvedere con proiezione di condanna dell’amministrazione a concludere il procedimento con un provvedimento espresso tenendo conto dell’accertamento degli elementi vincolati della fattispecie eventualmente operato dal giudice”[25]. E che il codice, comunque, disciplina una serie di azioni di accertamento. In realtà da nessuna parte si ricava nel codice un elenco esaustivo e tassativo delle azioni o delle pronunce di accertamento del giudice e, anzi, la disciplina espressa di azioni di accertamento che presentano peculiarità denota la compatibilità di sistema dell’azione di accertamento pura (rectius: di mero accertamento), come riflesso del generale interesse ad agire e della pienezza di tutela accordata anche all’interesse legittimo.

E’ vero piuttosto che, oltre ai limiti derivanti dalla natura dell’interesse ad agire in mero accertamento, questa azione (al pari di quella di condanna a un facere, di cui si dirà) incontra un limite generale nell’art. 34, co. 2 (limite che nel testo licenziato dal Consiglio di Stato era riferito alla sola azione di accertamento): l’azione non è esperibile prima che il procedimento sia concluso o sia scaduto il termine per provvedere[26].

Quali sono queste azioni di accertamento? Eccole:

a)    art. 31, co. 1, in materia di silenzio, estesa alla fondatezza della pretesa;

b)    art. 31, co. 4, in materia di nullità. Due brevi osservazioni al riguardo: 1) è stato previsto un termine di decadenza, probabilmente perché la nullità in diritto amministrativo, a fronte dell’autoritatività del provvedimento, non è stata mai ben vista e ciò è alla base probabilmente della stessa nascita della teoria dell’affievolimento; ad ogni modo, non sembra che questo implichi che l’atto nullo possa produrre gli effetti una volta scaduto il termine, in quanto il termine –secondo una tesi[27]- sarebbe posto solo per far valere la nullità in via principale. Ma resta un problema: l’atto nullo non impugnato può fungere da atto presupposto? 2) la nullità può essere sempre opposta in via di eccezione, e questo –secondo una tesi[28]- crea una asimmetria di sistema;

c)     art. 34, co. 3, pronuncia di illegittimità di un provvedimento a soli fini risarcitori;

d)    art. 34, co. 5, in materia di cessazione della materia del contendere, che è pronuncia nel merito (a differenza di quella sull’improcedibilità che è pronuncia in rito: art. 35);

e)    art. 114, co. 4, in materia di violazione o elusione del giudicato;

f)      artt. 121 e 122, in tema di inefficacia del contratto.

 

L’AZIONE DI ANNULLAMENTO

Si è già detto della perdurante centralità dell’azione di annullamento. Da essa, però, non consegue più un modello rigidamente cassatorio delle pronunce. Questo perché la fase della cognizione, in generale, si arricchisce di una pluralità di contenuti, oltre che di azioni, ivi compresi molti di quelli tradizionalmente ascritti alla fase dell’ottemperanza. E’ ovvio quindi che l’azione di annullamento, o meglio la sentenza che accoglie il ricorso in annullamento, si arricchisce di potenzialità, che derivano, in parte, da una sorta di formalizzazione al suo interno degli effetti ordinatori, ripristinatori e conformativi, o di parte di essi, dall’altra, da una anticipazione alla fase cognitoria di contenuti tradizionalmente ascritti alla fase dell’ottemperanza.

E’ comunque significativo che il codice non riproduca più la disposizione sulla salvezza degli ulteriori provvedimenti amministrativi; con il che si entra nel cuore di uno dei problemi dell’effettività della giustizia amministrativa, che va oggi visto sulla base dello stretto collegamento che viene a crearsi, in certe situazioni, tra azione di annullamento e AZIONE DI CONDANNA: il problema cd. della riedizione del potere amministrativo a seguito di una sentenza di annullamento[29].

Il collegamento tra azione di annullamento e azione di condanna è testuale nel codice:

-         Art. 30, co. 1 e 5, che prevede la contestualità dell’azione di condanna con altre azioni (co.1) e la proposizione dell’azione di condanna nel corso del giudizio di annullamento o successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento (norma che conferma la preferenza per l’azione di annullamento nel sistema);

-         Art. 34, co. 1, lett c) ed e). Della lettera e), che anticipa alla cognizione strumenti ed effetti dell’ottemperanza, si è detto. Di particolare rilevanza è la lett. c), che consente la condanna “alle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”: si prevede, cioè, la condanna a un facere.

 

La condanna a un facere[30]

In forza della richiamata disposizione si è parlato di un’azione di condanna atipica.

E’ un rimedio che va nettamente distinto dal risarcimento del danno in forma specifica, in quanto la pronuncia –e la correlativa azione- non mira all’eliminazione del danno per il tramite di una prestazione diversa, ancorché equivalente, rispetto a quella originaria, ma mira a dare diretta soddisfazione alla pretesa del ricorrente, integrando così una forma di “tutela specifica”.

Nell’ambito di tale tutela è possibile sicuramente:

a) emettere pronunce ripristinatorie (già nella fase di cognizione, nel qual caso il successivo eventuale giudizio di ottemperanza avrà natura meramente esecutiva);

b) emettere pronunce che attribuiscano al privato beni o prestazioni che derivano da un provvedimento ampliativo (sussidi, consegna di un bene demaniale concesso).

Dibattuto, invece, è se il rimedio possa costituire un succedaneo dell’azione di adempimento, prevista nel testo licenziato dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato, ma non contenuta nel testo del codice[31].

Più in particolare, si è sostenuto da più parti, invocando anche il principio di atipicità delle azioni[32], che, con riferimento ai dinieghi di provvedimenti ampliativi, tale disposizione legittimi la condanna dell’amministrazione a un provvedimento amministrativo, quanto meno in sede di impugnazione di provvedimento negativo.

Si ritiene che al quesito possa essere data una risposta positiva.

Vediamo la situazione.

A fronte di un’istanza di un privato, volta a ottenere un provvedimento ampliativo, la pubblica amministrazione può tenere uno dei seguenti due comportamenti a lui sfavorevoli:

-         rimanere inerte: in tal caso, il privato può azionare il giudizio sul silenzio, correttamente qualificato come azione a contenuto di accertamento dell’obbligo di provvedere ma con una proiezione ordinatoria, e, ricorrendone i presupposti, ottenere una pronuncia del giudice sulla fondatezza della pretesa.

-         emettere un provvedimento negativo, un diniego: in tal caso, il privato avrebbe solo un’azione di annullamento cui seguirebbe: o una “riedizione del potere amministrativo” (salvi i limiti sin qui individuati dalla giurisprudenza) o un giudizio di ottemperanza sulla base dell’eventuale contenuto conformativo ed ordinatorio della sentenza.

Teoricamente, in entrambi i casi si perviene probabilmente al risultato finale. Ma in via tortuosa. E ancor più tortuosa è la via se, argomentando dalla mancata previsione di un’azione di adempimento, si arriva all’asimmetria per cui l’accertamento della pretesa sostanziale si può avere se la pubblica amministrazione resti inerte ma non se emani un diniego di provvedimento[33].

Probabilmente non ci sono ostacoli ad ammettere l’esperibilità di un’azione di adempimento, in caso di diniego di provvedimento, sulla base della lett.c, ma anche sulla base dell’art. 41, co. 2, che impone la notifica del ricorso, in caso di azione di condanna, ai beneficiari dell’atto illegittimo.

Gli unici limiti posti dal codice, per ogni tipo di azione, sono: il divieto che il giudice si sostituisca, nella fase cognitoria almeno, a valutazioni discrezionali della pubblica amministrazione; il divieto che il giudice si pronunci in relazione a poterti non ancora esercitati.

Ma forse il problema è diverso: se il giudice, e prima ancora la parte, abbia o meno gli elementi sufficienti per valutare la pretesa sostanziale e condannare l’amministrazione all’emanazione del provvedimento. Nella fase cognitoria del giudizio di legittimità, infatti, resta il limite per cui il giudice non può sostituirsi all’amministrazione; sicché, per il silenzio come per l’impugnazione del diniego, il giudizio di ottemperanza, essendo una sede di giurisdizione di merito, potrebbe essere lo strumento più efficace per il soddisfacimento reale ed effettivo della pretesa sostanziale. Occorre, in altri termini, anche sotto tale profilo, creare un più stretto collegamento tra procedimento e processo, al fine di portare la vicenda sostanziale e procedimentale all’interno del processo; e ciò può avvenire solo attraverso un’attenta valutazione del fatto (che non è il merito) nel processo e tendendo, ove possibile, a una sentenza –e quindi a un giudicato- che copra dedotto e deducibile.

Se questo è il tema, la soluzione va cercata nel costringere l’amministrazione, nella fase del procedimento, a una disamina completa dell’istanza del privato, sì da esaurire one shot i margini di valutazione discrezionale e consentire una disamina completa della questione in sede giurisdizionale.

Sotto questo profilo è interessante la tesi di chi[34] suggerisce di valorizzare il disposto dell’art. 10bis l.241/90, sul preavviso di rigetto, per imporre alla pubblica amministrazione di esaminare funditus l’istanza del privato; se non lo fa, la questione è portata tutta davanti al giudice: il privato potrà chiedere il provvedimento e la pubblica amministrazione potrà opporre alla richiesta anche i motivi non esposti nel diniego o nel preavviso di rigetto[35]. In altri termini, l’azione di condanna all’emanazione del provvedimento diventa una sorta di braccio armato della disposizione di cui all’art. 10bis e –per dirla con una dottrina[36]- “si impone all’amministrazione di consumare la sua discrezionalità rispetto al caso concreto”. E ciò nonostante la mancata riproduzione del codice di quella disposizione, sull’azione di adempimento, contenuta nel testo licenziato dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato che imponeva alla pubblica amministrazione di portare in giudizio “tutti gli elementi utili ai fini della fondatezza della pretesa”.

 

LE OBIEZIONI ALLA VIGENZA DELLE AZIONI DI ACCERTAMENTO E DI ADEMPIMENTO NEL SILENZIO DEL CODICE: UNA CONFERMA DELLA TESI DELLA LETTURA UNIFICATA DI AZIONI E POTERI DEL GIUDICE - CONCLUSIONI

Al di là della controvertibilità delle opinioni espresse, una critica radicale, perché di sistema, alla configurabilità di azioni di accertamento o di adempimento è espressa da chi[37] sostiene che, dopo la costituzionalizzazione del giusto processo “regolato per legge” (art. 111 Cost.), nel diritto processuale, e segnatamente nella individuazione delle azioni esperibili, non vi sia più spazio per interventi integrativi e pretori dell’interprete e del giudice. Il codice avrebbe accolto un principio di tipicità “moderata” delle azioni, in forza del quale, pur in assenza di un elenco delle azioni, chiaro e tassativo, le azioni sono comunque solo quelle chiaramente individuate. E, quanto all’azione di adempimento, l’Autore sottolinea come ai medesimi risultati si possa pervenire in sede di ottemperanza[38].

Non vi è dubbio che ciò che conta sono i risultati sul piano della tutela. Ma, sul piano teorico, non può non richiamarsi una tesi opposta[39], secondo cui la mancata tipizzazione delle azioni e l’ampiezza delle clausole generali relative alle pronunce –il criterio della idoneità nella lett.c- lasciano propendere per l’accoglimento del principio, direi altrettanto “moderato”, della atipicità delle azioni[40], o, quanto meno direi, della non nominatività delle stesse: è noto infatti che, sul piano della teoria generale, si ritiene che il principio di tipicità sia rispettato se l’azione è desumibile dal sistema positivo, ancorché non specificamente nominata.

E’ vero che le azioni di accertamento e di adempimento, contenute nel testo della Commissione speciale del Consiglio di Stato, sono state espunte in sede di approvazione del codice. E si è detto[41] che ciò sarebbe avvenuto per ragioni di spesa pubblica[42] (per la verità incomprensibili e comunque poco pertinenti, in quanto mai potrebbe condividersi un’impostazione, miope e in contrasto con non pochi princìpi, secondo cui ragioni di spesa pubblica potrebbero impedire la piena tutela contro l’illegittimo uso del potere pubblico, così consentendo di scaricare sul sistema produttivo e sui singoli vere e proprie diseconomie esterne di produzione da parte dell’amministrazione).

Ma così non è. La relazione governativa al codice chiarisce che le modifiche apportate al testo della Commissione sono dovute alla considerazione che il sistema delle azioni delineato dal codice è tale da assicurare una tutela piena ed effettiva. E ciò può portare a individuare nei princìpi e nelle singole disposizioni anche azioni non contemplate in un elenco (che per giunta non c’è e comunque non è allineato con l’elenco delle pronunce). Io penso che per escludere le suddette azioni, se mi si consente il paradosso, bisognerebbe vietarle espressamente, cosa peraltro di dubbia compatibilità costituzionale.

Per concludere, credo che l’approccio proposto al sistema delle azioni nel c.p.a. sia coerente con una lettura del sistema delle tutele che accentui il carattere rimediale delle stesse e che consenta alla giurisprudenza amministrativa, supportata da dottrina e Foro, di continuare, pur con le spalle coperte dal codice, in quell’opera cd. pretoria che consente l’adattamento quotidiano degli strumenti di tutela alla salvaguardia della sfera giuridica del cittadino contro gli abusi del potere (naturalmente, quando vi sono).

Forse –come osserva un acuto processualcivilista[43] in un recente saggio- il codice del processo amministrativo è opera utile e meritoria, ma, sul piano sistematico, è ben poca cosa rispetto ai codici tradizionali e, in particolare, al Verwaltungsgerichtsordnung tedesco del 1960, legato alla teorica e alla preminenza di sistema dei diritti fondamentali dell’individuo.

E ciò è indubbiamente vero, anche se va ricordato, peraltro senza possibilità di approfondimento nella presente sede, che le grandi codificazioni ottocentesche operano in un contesto storico-istituzionale non rinvenibile nei tempi attuali, e non solo in Italia; e che il codice del processo amministrativo nemmeno potrebbe definirsi un codice di settore, nel senso in cui il termine viene adoperato dalla legislazione più recente e dalla giurisprudenza consultiva del Consiglio di Stato[44]. Quanto, poi, al parallelo con il recente codice tedesco di rito, a tacere della valenza quasi costituzionale di quel testo, a fronte di una disciplina direttamente nel testo della Costituzione dei profili costituzionali del sistema di giustizia amministrativa, mi sembra sia rilevante considerare che ci si trova dinanzi a due modelli troppo diversi tra loro sul piano sostanziale[45]: l’uno, quello tedesco, in cui i diritti fungono da limite, ma da limite esterno, al potere pubblico; l’altro, quello italiano, caratterizzato da una conformazione dall’interno del potere pubblico alla valutazione legale degli interessi in conflitto.

Ed è inevitabile che il sistema delle tutele risenta della diversità di approccio sostanziale; ed è anzi indispensabile, perché il sistema delle tutele, per essere pieno ed effettivo, va reso coerente con il modello sostanziale.

 

 

 

 



[1] Sugli equivoci insiti nella teoria dell’affievolimento, v. già. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna 2000, 117 ss. (ma già nella prima edizione del 1976); ivi richiami

[2] Clarich, Azione di annullamento, Commento all’art. 29 c.p.a., in Commentario al c.p.a. (a cura di Quaranta e Lopilato), Milano 2010, rinvenibile su www.giustizia-amministrativa.it

[3] Bachelet, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, Milano 1966

[4] Cfr. Pajno, La giustizia amministrativa all’appuntamento con la codificazione, in Dir.proc.amm. 2010, 119 ss.

[5] Su cui v. ora Corte cost. sent. n. 204 del 2004

[6] Pajno, op. cit., 126

[7] Pajno, Il codice del processo amministrativo tra “cambio del paradigma” e paura della tutela, in Giorn.dir.amm. 2010, 885

[8] R. Orestano, Azione, storia del problema, in Azione.Diritti soggettivi.Persone giuridiche, Bologna 1978

[9] Donellus, Comm.de actionibus (1583 – ed. Napoli 1766)

[10] Nigro, Giustizia amministrativa, cit., passim

[11] Ancora Nigro, op. cit., p.116

[12] O più precisamente –come osservato da Villata in un recente convegno- come obbligazione da illecito

[13] Quando non a un terzo grado di giurisdizione della Cassazione sulle sentenze del giudice amministrativo

[14] Come rileva Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, (Relazione al 56° Convegno di Varenna 2010, in www.giustizia-amministrativa.it), ”la pronuncia è, infatti, il momento in cui le domande delle parti, i fatti oggetto della controversia e i poteri del giudice si incontrano”

[15] Pajno, Il c.p.a. ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in Commentario al c.p.a., a cura di Quaranta e Lopilato. L’Autore si muove su di un piano diverso da quello qui esposto, sottolineando la convergenza  tra sistema di tutela processualcivilistica e sistema della giustizia amministrativa. Va tuttavia senz’altro condivisa l’accentuazione del profilo della pretesa sostanziale della parte vittoriosa come oggetto e fine della tutela.

[16] Protto, sub art. 34 Sentenze di merito, in Caringella e Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Dike giuridica Roma 2010

[17] Sul tema cfr. l’ampio e  ben ragionato saggio di LIPARI, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, (relazione al Convegno di Varenna 2010), in www.federalismi.it n. 18/2010.

[18] Ma anche co. 4, che prevede la possibilità di proporre in sede di ottemperanza l’azione risarcitoria che, ai sensi dell’art. 30, co.5, non sia stata proposta contestualmente all’azione di annullamento; nel qual caso, però, il giudizio, che pur resta espressamente qualificato “di ottemperanza” si svolgerà nelle forme, nei termini e nei modi del giudizio ordinario

[19] Nella pratica la giurisprudenza ha utilizzato in passato lo strumento risarcitorio, in sede di ottemperanza, per far fronte a ipotesi di (pratica) impossibilità di esecuzione della decisione: es. annullamento di aggiudicazione con contratto integralmente eseguito; impossibilità di restituzione di bene. Talvolta anche di esecuzione particolarmente onerosa (art. 2098 c.c.). Nel codice c’è una disposizione in tema di contratti (art. 122), ma manca una norma generale.

Nel silenzio, sembrano prospettabili due ipotesi: a) far rientrare l’impossibilità o l’eccessiva onerosità nella mancata esecuzione; b) far rientrare la fattispecie nel combinato disposto del 112, co. 4 e 30, co.5, ma in tal caso il giudizio prosegue nelle forme ordinarie; si apre, cioè, sostanzialmente una fase di cognizione

[20] Cass. 23 dicembre 2008 n. 30254, che superò la regola della pregiudizialità

[21] In realtà, il problema reale non è quale azione prevalga, ma a chi spetti scegliere la forma di tutela. Il principio dispositivo imporrebbe di rispondere senz’altro che la scelta spetti al ricorrente, la cd.imperatività del provvedimento amministrativo rende più complessa e problematica la questione

[22] Non si vuole né si può entrare nel dibattito dottrinario sull’oggetto del giudizio amministrativo, anche perché, tutto sommato, non rilevante né pertinente ai nostri fini. Per una ricostruzione sintetica e completa, anche di richiami dottrinari, v. Police, Pluralità delle pretese, unicità dell’azione e oggetto del giudizio amministrativo, in Zito e De Carolis (a cura di) Giudice amministrativo e tutele in forma specifica, Milano 2003

[23] Clarich, cit., in www.giustizia-amministrativa.it, p.8

[24] Prima del codice, in tema di attività edilizia, cfr. Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2009 n. 717

[25] Clarich, op.cit.

[26] Gisondi, L’azione di condanna, in www.giustizia-amministrativa.it

[27] Gisondi, op. cit.

[28] Chieppa Ro., Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it

[29] Su cui, v., per richiami, Patroni Griffi, Giudicato amministrativo e ottemperanza, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano 2010, spec. 1002, ss.; ma già, Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano 2005, 1225 ss.  

[30] Nel sistema attuale –come rileva Protto (in Caringella e Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, cit., sub art.30, Azione di condanna- “la soddisfazione del bene della vita sotteso all’interesse legittimo rimaneva così fuori dall’orizzonte del giudizio di cognizione ed era rimandata al giudizio di ottemperanza nel quale il giudice amministrativo, essendo investito di poteri di merito, riteneva di potersi addentrare nella definizione del rapporto tra cittadino e p.a.”; ciò, peraltro, con tutti i limiti che derivano dalla cd. riedizione del potere, che limitano la portata della stessa sentenza di annullamento quanto ai suoi effetti ordinatori e conformativi, e tenuto conto che il Consiglio di Stato ha escluso che lo strumento del risarcimento in forma specifica potesse andare al di là dell’effetto ripristinatorio  e consentire l’ottenimento del provvedimento richiesto: es. VI, 21 maggio n. 2008 n. 2622).

[31] Sulla questione v. da ultimo, anche per richiami, Caponigro, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it

[32] Clarich, op.cit.; sostanzialmente anche Torchia, op.cit.; contra, come si vedrà, Travi

[33] In realtà l’azione di adempimento avrebbe dato una configurazione sistematica alle due fattispecie, inerzia e diniego di provvedimento, disciplinando unitariamente le stesse e consentendo in entrambi i casi, già in sede cognitoria, di pervenire al soddisfacimento della pretesa sostanziale, pur nei limiti del rispetto delle valutazioni discrezionali rimesse alla pubblica amministrazione

[34] Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it

[35] E la sentenza, in questo caso, a differenza di quella di annullamento, coprirà il dedotto e il deducibile

[36] Torchia, op.cit.

[37] Travi, Relazione Varenna 2010, dattiloscritto

[38] Ed è significativo che un Autore (Picozza, Il processo amministrativo, Milano 2009, 203 ss) ipotizzi di configurare l’ottemperanza quale forma di esercizio dell’azione di adempimento.

[39] Torchia, op.cit.

[40] in tal senso già Clarich, op.cit.

[41] In tal senso il comunicato reso al termine del CdM in cui è stato approvato il codice.

[42] Sull’esigenza di destinare al processo amministrativo maggiori risorse, da ultimo, con riferimento all’entrata in vigore del codice, cfr. Travi, Il codice del processo amministrativo. Presentazione, in Foro. It. 2010, V, 240

[43] Caponi, La riforma del processo amministrativo: primi appunti per una riflessione, in Foro it. 2010

[44] Patroni Griffi, La “nuova codificazione”: qualche spunto di riflessione, in Sandulli (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Milano 2005

[45] E’ noto, infatti, che, nel contesto europeo, l’esperienza austriaca e tedesca del processo e dello stesso diritto amministrativo sostanziale sono storicamente distanti dall’esperienza italiana, decisamente più vicina a quella francese che, semmai, presenta alcuni profili in comune con il modello inglese del judicial review, specie quanto a tecnica di sindacato dell’azione dei pubblici poteri per clausole generali.



[i] Il presente scritto costituisce la relazione tenuta in occasione del Premio Sandulli 2010, presso l’Avvocatura generale dello Stato, in data 2 dicembre 2010.