Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo
riformato
di
Filippo Patroni Griffi
Presidente di Sezione del Consiglio
di Stato
Pubblicato sul sito il 14 dicembre
2010[i]
INTRODUZIONE
Come nasce la tutela dinanzi al giudice amministrativo
Il sistema delle tutele, nella sua evoluzione, rappresenta il
livello di responsabilità dei poteri pubblici che l’ordinamento è disposto a
riconoscere e denota la capacità dello Stato di diritto di mettersi in gioco,
riconoscendo a un’articolazione autonoma di sé il potere di giudicare la
legittimità del suo operare su richiesta di quegli stessi cittadini, come
individui, nel cui interesse, come collettività, è svolta l’attività
amministrativa.
Un richiamo, pertanto, a come nasce in Italia la tutela
avverso gli atti dei pubblici poteri può fornire la chiave di lettura di un
sistema che si caratterizza proprio per un’evoluzione storica contrassegnata da
una progressiva emersione di situazioni tutelate, di legittimati, di tecniche
di tutela.
Noi sappiamo che la legge del 1865 abolitiva del contenzioso
amministrativo, nel deferire al giudice ordinario i diritti soggettivi
(“diritto civile o politico”), pone una regola fondamentale di “riparto”, ovviamente
“rivolta” al solo giudice ordinario (che in realtà si poneva come unico giudice)
nei suoi rapporti con l’amministrazione, consistente essenzialmente nel divieto
per il giudice ordinario di pronunciarsi in via principale sulla legittimità del
provvedimento e di rimuoverlo. Tale regola, in modo più articolato, comportava:
a) il divieto per il giudice ordinario
di emettere sentenze costitutive (art. 4; oggi, in un’ottica diversa, si pone
la norma di cui all’articolo 113 Cost.);
b) la possibilità per il giudice di
“disapplicare” il provvedimento amministrativo illegittimo;
c) l’obbligo per la pubblica
amministrazione di conformarsi al giudicato, anche rimuovendo l’atto di cui, in sede di disapplicazione, era stata
riconosciuta in via incidentale l’illegittimità.
La dottrina tradizionale evidenzia una duplice lacuna del
sistema, e precisamente una lacuna di ordine “sostanziale” e l’altra di ordine
“processuale”:
a) la sottrazione di ogni tutela nelle
ipotesi in cui non sia leso un diritto soggettivo;
b) la mancanza di un rimedio per
assicurare l’ottemperanza al giudicato.
Ma il vero problema
sorge in conseguenza della riconosciuta e preservata autoritatività degli atti
dei pubblici poteri: il provvedimento iure
imperii, mediante l’equiparazione tra atto valido e atto invalido fino alla
pronuncia di illegittimità, di fatto comportava la “degradazione” del diritto a
fronte di un sistema che non consentiva al giudice civile la pronuncia costitutiva
nei confronti dell’amministrazione. Si trattava, in altri termini, pur sempre
di una questione di tutela di diritti,
che non trovavano tutela per una ragione di ordine apparentemente processuale
(il divieto delle sentenze costitutive); sicché a tale problema andava posto
rimedio sul piano sì delle tecniche di tutela, ma senza stravolgere i cardini
di quel “riparto” tra giudice civile e pubblica amministrazione. Probabilmente
su questo punto il sistema a giurisdizione unica si incartò, lasciandoci, con la
teoria della degradazione, una costruzione, che dopo decenni di onorato
servizio, finisce oggi per rivelarsi una damnosa
hereditas[1]).
Nasce in questo contesto
I mutamenti intervenuti nel sistema della giustizia
amministrativa e l’idea del Codice
a) la collocazione del giudice amministrativo nel
sistema delle tutele: si passa dal Consiglio di Stato giudice speciale
sopravvissuto al divieto di giurisdizioni speciali al giudice amministrativo
–come ebbe a dire Nigro- giudice ordinario degli interessi legittimi[5], che porta alla
configurazione della giustizia amministrativa come “sistema generale di
giustizia, con riferimento all’esercizio del potere pubblico”[6];
b) la progressiva e tendenziale perdita
di centralità del provvedimento amministrativo (sul piano sostanziale) e del
carattere impugnatorio del processo;
c) la trasformazione, anch’essa
progressiva e tendenziale, dell’interesse legittimo in posizione “piena”
attraverso la quale si rende visibile il bene della vita.
Nel
delineato contesto istituzionale, la giustizia amministrativa si pone come un
sistema generale riferito all’esercizio del potere pubblico e alla tutela del
cittadino, donde l’esigenza di uno strumento generale che ordini princìpi e
norme del processo. Alla base della recente codificazione del processo
amministrativo vi è dunque l’esigenza formale di unificazione e coordinamento
delle norme stratificatesi nel tempo e sparse in più testi normativi e
l’esigenza sostanziale di “codificare” quella tutela “piena ed effettiva”; ma
soprattutto vi è la finalità di dare compiuta attuazione al quadro
costituzionale della giustizia amministrativa come espressione dell’assetto
istituzionale e costituzionale dei rapporti tra cittadino e pubblici poteri[7].
IL SISTEMA DELLE AZIONI
Nella giustizia
amministrativa è sempre stata latente l’idea che le azioni - nella tradizione
storica ma anche nella riflessione recente (C. cost. 204/2004)- più che come
diritti delle parti (o come astratto “diritto di azione”, avente esso stesso
natura di diritto soggettivo, tesi prevalente nella dottrina
processualcivilistica), possano essere riguardate come strumenti di tutela
pratica volti a reintegrare al meglio la sfera giuridica del cittadino che sia
stata lesa, sfera che si compone di
posizioni soggettive.
Il
collegamento, più che tra diritto e azione, andrebbe fatto tra azione e sfera
giuridica lesa: l’azione ha finalità reintegratoria di un “patrimonio”
attaccato contra ius dal potere
pubblico.
L’impostazione
mi sembra abbia un illustre precedente nella tradizione romanistica, nella
quale, per dirla schematicamente, il riconoscimento pretorio di un’actio rende giuridico il vincolo e
“pone” le correlate posizioni soggettive; e ha assonanza con l’esperienza
anglosassone, dove l’assenza di codici sostanziali ha storicamente dato, quanto
meno a partire dal 1600, maggiore spazio alle Corti nell’individuazione e nella
protezione degli interessi giuridici.
In realtà
–secondo la suggestiva ricostruzione storica di Orestano[8]-la scienza giuridica ha
sempre oscillato tra concezione soggettiva e oggettiva dell’azione, in una
disputa tra chi identificava obbligazione e azione e chi considerava
l’obbligazione mater actionis, mentre
già in Donello[9](1583)
si parlava di azioni in termini di remedia.
Ma quello
che preme rilevare è che questa impostazione si pone in linea di continuità col
nostro sistema, perpetuandosi quella “inversione logica” tra azione e posizioni
soggettive di cui si è detto.
Nel
processo amministrativo è stata infatti da tempo colta l’interazione tra sostanza
e processo nel sistema di tutela[10], nel duplice senso che:
a)
è
il giudice che contribuisce, attraverso il processo, a realizzare quel fenomeno
–storicamente, oltre che positivamente determinato- di progressiva emersione
degli interessi legittimi dalla massa di interessi di fatto[11];
b)
la
processualizzazione dei mezzi di tutela (cioè, delle azioni) consente di rendere
gli stessi strumenti efficaci di garanzia delle posizioni soggettive dei
cittadini, per di più in assenza di una codificazione sostanziale.
Se è vero
che, nel momento in cui l’ordinamento riconosce un diritto, ibi est actio, è anche vero che il
riconoscimento di un’azione, anche in via giurisprudenziale, è “riconoscimento
del diritto”, o, in altre parole, emersione di un interesse dal sociale al giuridico.
In realtà, perché ci sia tutela, è poco interessante sapere se (già) c’è un
diritto o un interesse legittimo, perché –parafrasando Adolfo di Majo-
l’interesse legittimo non è un interesse materiale ontologicamente diverso, ma
solo una diversa forma di rilevanza e quindi di tutela attribuita a un
interesse materiale ove questo si trovi a coesistere con l’interesse pubblico:
“dietro il rimedio di tutela vi è sempre una posizione di diritto sostanziale
che fa capolino”.
La diversa
impostazione può condurre a diverse scuole di pensiero, ma anche a un diverso approccio
a problematiche rilevanti pure sul piano pratico. Due per tutte:
a) il risarcimento del danno può essere
riguardato come diritto soggettivo in sé[12] oppure come uno degli strumenti per reintegrare la
sfera giuridica lesa;
b) la scarsa considerazione dell’approccio
rimediale, unita a un eccesso di categorizzazione
degli stessi diritti e forse a un eccesso di dogmatismo, può portare a quegli
orientamenti recenti, per ora non tradottisi in sentenze della Suprema Corte e
anzi osteggiati dal giudice costituzionale, secondo cui esisterebbero diritti
“forti” che darebbero luogo a una sorta di riserva, che definirei per l’appunto
dogmatica, di giurisdizione per il giudice ordinario[13] (una versione rinnovata
dei diritti non degradabili, figli di quella damnosa hereditas della teoria dell’affievolimento cui ormai
dottrina e giurisprudenza amministrativa non credono più) anzi che, più
pragmaticamente, a una miscela di rimedi
che ne consentano la tutela più efficace.
Le chiavi di lettura del sistema
delle tutele in un’ottica (prevalentemente) rimediale:
a) il rapporto tra tipologia delle
azioni e contenuti della sentenza
Se tutto
questo è vero, emerge una chiave di lettura del sistema delle azioni incentrata sul rapporto tra azioni e pronunce
del giudice, chiave di lettura che impone una lettura unitaria delle relative
norme del c.p.a.[14].
Questa
chiave di lettura, in realtà, è già presente nella legge del 1889, che
disciplina i poteri del giudice, e segnatamente il potere del giudice
amministrativo di pronunciare l’annullamento del provvedimento, più che le
azioni proponibili. Il c.p.a. sovverte la logica[15]; nondimeno sembra che permanga
la necessità, anche sul piano ermeneutico, di leggere in combinato disposto tra
loro disciplina delle azioni (artt. 29 ss.) e contenuti delle pronunce (artt.
34 e 35).
Come
osservato in dottrina[16], “in altre e più chiare
parole, se è vero che ad ogni pronuncia di merito deve corrispondere un diritto
di azione, è dunque necessario verificare – ed in questo, in definitiva,
consiste il compito dell’interprete dell’art. 34, posto che i limiti e i
contenuti delle azioni in quanto tali sono analizzati in punto di esame delle
norme che le prevedono e le disciplinano – se tale allineamento sia completo
ovvero se non vi siano margini di emersione dinamica di tutele non
espressamente enunciate sul piano statico”.
b) il rapporto tra cognizione e
ottemperanza[17]
La
disciplina delle azioni cognitorie pone il tema dei rapporti di queste con il
giudizio di ottemperanza, cui è tradizionalmente affidato nel nostro sistema il completamento della tutela. In realtà è
la combinazione di strumenti cognitori e fase dell’ottemperanza che dà la
pienezza di tutela. Per la verità, è sempre stato così, solo che fino a oggi
l’ottemperanza ha funzionato, ed egregiamente, come momento di chiusura del
sistema, nel senso che là dove non arrivava il giudizio cognitorio arrivava
invece il giudizio di ottemperanza, passando attraverso l’effetto ordinatorio e
quello conformativo della decisione –teorizzati da Nigro- e la natura non
meramente esecutiva, ma “mista” del giudizio di ottemperanza. Il codice
significativamente parla ancora di ottemperanza e non di esecuzione, ma è
indubbio che il baricentro tenda a spostarsi verso la fase cognitoria, spettando
per converso all’ottemperanza la collocazione residuale, di chiusura del
sistema.
L’impostazione
data dal codice ai rapporti tra cognizione e ottemperanza si rinviene in varie
disposizioni, e in particolare: nell’art. 34 co. 1 lett. E) , che anticipa alla
fase cognitoria momenti sin qui tipici dell’ottemperanza, fino alla stessa
nomina del commissario; e nell’art. 112 co. 3 [18], secondo cui in fase di ottemperanza
può esser proposta (e decisa) l’azione di condanna al pagamento di interessi e
rivalutazione maturati dopo il giudicato e, soprattutto, l’azione risarcitoria
per i danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione ed elusione del
giudicato. Mentre è rimasto non disciplinato dal codice il tema del danno da
impossibilità o difficile esecuzione del giudicato[19].
c)
Una scelta di fondo: la permanente centralità dell’azione di
annullamento?
Vi è una
sostanziale differenza nell’ottica di fondo con la quale viene riguardata la
centralità di un’azione nel sistema delle tutele avverso gli atti dei pubblici
poteri.
Secondo
l’ottica prevalente della Cassazione[20], la tutela risarcitoria
costituisce “la misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse” e,
nel caso di concorso di possibili azioni, spetta al ricorrente scegliere la
forma di tutela.
Il
prevalente orientamento del Consiglio di Stato è sempre stato nel senso della
centralità dell’azione di annullamento, come forma di tutela specifica, cui si
possono accompagnare altre forme di tutela[21].
Il c.p.a.
accoglie il principio della pluralità delle azioni, conforma di conseguenza la
disciplina del giudizio a partire dagli atti processuali, ma indubbiamente
permane una preferenza per l’azione di annullamento quando oggetto del giudizio
sia un provvedimento amministrativo.
Mi sembra
opportuna una riflessione preliminare di metodo, che deriva direttamente
dall’impostazione rimediale dianzi esposta.
Quello che
è, e deve essere, centrale nel
giudizio amministrativo è l’accertamento
dell’illegittimo uso del potere[22].
Una volta accertata l’illegittimità dell’azione amministrativa, l’ordinamento
offre una serie di rimedi
(reintegratori, costitutivi, dichiarativi), in teoria tra loro intercambiabili,
ma rispetto ai quali l’ordinamento mantiene una preferenza per l’annullamento,
come forma di tutela specifica:
1) perché “al carattere imperativo del
provvedimento corrisponde di necessità il carattere (preferibilmente: ndr)
costitutivo della sentenza del giudice”[23];
2) perché la sentenza costitutiva meglio
garantisce, per cittadino e amministrazione, quelle esigenze di certezza di
rapporti anche de futuro e al di là
della cerchia dei contendenti, tra cittadino e pubblico potere.
L’AZIONE DI ACCERTAMENTO
La mancata
previsione di un’azione generale di accertamento è stata una delle questioni
più dibattute nel codice. Il testo predisposto dalla Commissione Speciale
istituita presso il Consiglio di Stato, infatti, la prevedeva. Ed è stata
eliminata in sede governativa.
Dal quadro
generale che si delinea, e anche dagli orientamenti dottrinari che si vanno
formando, credo però che possa sostenersi che l’azione di accertamento sia
esperibile, pur nel silenzio del codice, anche per gli interessi legittimi[24].
E’ innanzi
tutto pacifico che l’azione, pur nel silenzio del codice e, prima del codice,
della legge, sia esperibile in materia di diritti soggettivi. In realtà,
l’azione di mero accertamento è sempre stata ammessa, pur in mancanza di una
norma, nel codice di procedura civile, come riflesso dell’interesse ad agire,
che può consistere nel mero accertamento di un rapporto o di una situazione
soggettiva.
In secondo
luogo, e continuando nel ragionamento, se le azioni sono forme di tutela, esse
sono modellabili su qualsiasi situazione soggettiva, specie ove si riconoscano
–come ha chiarito anche C.cost. 204/2004- i caratteri di generalità e pienezza
alla tutela e parità alle situazioni soggettive.
In altre
parole, diritto soggettivo e interesse legittimo vanno tutelati –quando serve
(cioè quando lo strumento è adatto,
idoneo ad assicurare tutela)- con lo stesso strumento; e poi non si vede perché
l’accertamento di un diritto soggettivo sia ammissibile senza norma ad hoc e l’accertamento dell’interesse
legittimo abbisogni di una esplicita previsione; senza considerare che le
posizioni soggettive vivono nella realtà in un unico rapporto.
Non
dimentichiamoci –e siamo al terzo, connesso, ordine di considerazioni- che, nel
giudizio amministrativo, la nascita dell’azione di accertamento è avvenuta in
via giurisprudenziale. Ci si riferisce alla decisione n. 10 del 1978 dell’Adunanza
plenaria che, in tema di silenzio, afferma la sussistenza di “un obbligo di
provvedere con proiezione di condanna dell’amministrazione a concludere il
procedimento con un provvedimento espresso tenendo conto dell’accertamento
degli elementi vincolati della fattispecie eventualmente operato dal giudice”[25]. E che il codice,
comunque, disciplina una serie di azioni di accertamento. In realtà da nessuna
parte si ricava nel codice un elenco esaustivo e tassativo delle azioni o delle
pronunce di accertamento del giudice e, anzi, la disciplina espressa di azioni
di accertamento che presentano peculiarità denota la compatibilità di sistema dell’azione di accertamento
pura (rectius: di mero accertamento),
come riflesso del generale interesse ad agire e della pienezza di tutela
accordata anche all’interesse legittimo.
E’ vero piuttosto
che, oltre ai limiti derivanti dalla natura dell’interesse ad agire in mero
accertamento, questa azione (al pari di quella di condanna a un facere, di cui si dirà) incontra un
limite generale nell’art. 34, co. 2 (limite che nel testo licenziato dal Consiglio
di Stato era riferito alla sola azione di accertamento): l’azione non è
esperibile prima che il procedimento sia concluso o sia scaduto il termine per
provvedere[26].
Quali sono
queste azioni di accertamento? Eccole:
a) art. 31, co.
b) art. 31, co.
c) art. 34, co. 3, pronuncia di
illegittimità di un provvedimento a soli fini risarcitori;
d) art. 34, co.
e) art. 114, co.
f)
artt. 121 e
L’AZIONE DI ANNULLAMENTO
Si è già
detto della perdurante centralità dell’azione di annullamento. Da essa, però,
non consegue più un modello rigidamente cassatorio delle pronunce. Questo
perché la fase della cognizione, in generale, si arricchisce di una pluralità
di contenuti, oltre che di azioni, ivi compresi molti di quelli
tradizionalmente ascritti alla fase dell’ottemperanza. E’ ovvio quindi che
l’azione di annullamento, o meglio la sentenza che accoglie il ricorso in
annullamento, si arricchisce di potenzialità, che derivano, in parte, da una
sorta di formalizzazione al suo interno degli
effetti ordinatori, ripristinatori e conformativi, o di parte di essi,
dall’altra, da una anticipazione alla fase cognitoria di contenuti
tradizionalmente ascritti alla fase dell’ottemperanza.
E’ comunque
significativo che il codice non riproduca più la disposizione sulla salvezza
degli ulteriori provvedimenti amministrativi; con il che si entra nel cuore di
uno dei problemi dell’effettività della giustizia amministrativa, che va oggi
visto sulla base dello stretto collegamento che viene a crearsi, in certe
situazioni, tra azione di annullamento e AZIONE
DI CONDANNA: il problema cd. della riedizione del potere amministrativo a
seguito di una sentenza di annullamento[29].
Il collegamento
tra azione di annullamento e azione di condanna è testuale nel codice:
-
Art.
30, co. 1 e 5, che prevede la contestualità dell’azione di condanna con altre
azioni (co.1) e la proposizione dell’azione di condanna nel corso del giudizio
di annullamento o successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di
annullamento (norma che conferma la preferenza per l’azione di annullamento nel
sistema);
-
Art.
34, co. 1, lett c) ed e). Della lettera e), che anticipa alla cognizione
strumenti ed effetti dell’ottemperanza, si è detto. Di particolare rilevanza è
la lett. c), che consente la condanna “alle misure idonee a tutelare la
situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”: si prevede, cioè, la
condanna a un facere.
La
condanna a un facere[30]
In forza
della richiamata disposizione si è parlato di un’azione di condanna atipica.
E’ un
rimedio che va nettamente distinto dal risarcimento del danno in forma
specifica, in quanto la pronuncia –e la correlativa azione- non mira
all’eliminazione del danno per il tramite di una prestazione diversa, ancorché
equivalente, rispetto a quella originaria, ma mira a dare diretta soddisfazione
alla pretesa del ricorrente, integrando così una forma di “tutela specifica”.
Nell’ambito
di tale tutela è possibile sicuramente:
a) emettere
pronunce ripristinatorie (già nella fase di cognizione, nel qual caso il
successivo eventuale giudizio di ottemperanza avrà natura meramente esecutiva);
b) emettere
pronunce che attribuiscano al privato beni o prestazioni che derivano da un
provvedimento ampliativo (sussidi, consegna di un bene demaniale concesso).
Dibattuto,
invece, è se il rimedio possa costituire un succedaneo dell’azione di
adempimento, prevista nel testo licenziato dalla Commissione speciale del
Consiglio di Stato, ma non contenuta nel testo del codice[31].
Più in
particolare, si è sostenuto da più parti, invocando anche il principio di
atipicità delle azioni[32], che, con riferimento ai
dinieghi di provvedimenti ampliativi, tale disposizione legittimi la condanna
dell’amministrazione a un provvedimento amministrativo, quanto meno in sede di
impugnazione di provvedimento negativo.
Si ritiene
che al quesito possa essere data una risposta positiva.
Vediamo la
situazione.
A fronte di
un’istanza di un privato, volta a ottenere un provvedimento ampliativo, la pubblica
amministrazione può tenere uno dei seguenti due comportamenti a lui
sfavorevoli:
-
rimanere
inerte: in tal caso, il privato può azionare il giudizio sul silenzio,
correttamente qualificato come azione a contenuto di accertamento dell’obbligo
di provvedere ma con una proiezione ordinatoria, e, ricorrendone i presupposti,
ottenere una pronuncia del giudice sulla fondatezza della pretesa.
-
emettere
un provvedimento negativo, un diniego: in tal caso, il privato avrebbe solo
un’azione di annullamento cui seguirebbe: o una “riedizione del potere
amministrativo” (salvi i limiti sin qui individuati dalla giurisprudenza) o un
giudizio di ottemperanza sulla base dell’eventuale contenuto conformativo ed
ordinatorio della sentenza.
Teoricamente,
in entrambi i casi si perviene probabilmente al risultato finale. Ma in via
tortuosa. E ancor più tortuosa è la via se, argomentando dalla mancata
previsione di un’azione di adempimento, si arriva all’asimmetria per cui
l’accertamento della pretesa sostanziale si può avere se la pubblica amministrazione
resti inerte ma non se emani un diniego di provvedimento[33].
Probabilmente
non ci sono ostacoli ad ammettere l’esperibilità di un’azione di adempimento,
in caso di diniego di provvedimento, sulla base della lett.c, ma anche sulla
base dell’art. 41, co. 2, che impone la notifica del ricorso, in caso di azione
di condanna, ai beneficiari dell’atto illegittimo.
Gli unici
limiti posti dal codice, per ogni tipo di azione, sono: il divieto che il
giudice si sostituisca, nella fase cognitoria almeno, a valutazioni
discrezionali della pubblica amministrazione; il divieto che il giudice si
pronunci in relazione a poterti non ancora esercitati.
Ma forse il
problema è diverso: se il giudice, e prima ancora la parte, abbia o meno gli elementi
sufficienti per valutare la pretesa sostanziale e condannare l’amministrazione
all’emanazione del provvedimento. Nella fase cognitoria del giudizio di
legittimità, infatti, resta il limite per cui il giudice non può sostituirsi
all’amministrazione; sicché, per il silenzio come per l’impugnazione del
diniego, il giudizio di ottemperanza, essendo una sede di giurisdizione di
merito, potrebbe essere lo strumento più efficace per il soddisfacimento reale
ed effettivo della pretesa sostanziale. Occorre, in altri termini, anche sotto
tale profilo, creare un più stretto collegamento tra procedimento e processo,
al fine di portare la vicenda sostanziale e procedimentale all’interno del
processo; e ciò può avvenire solo attraverso un’attenta valutazione del fatto (che non è il merito) nel processo e tendendo, ove possibile, a una sentenza –e
quindi a un giudicato- che copra dedotto e deducibile.
Se questo è
il tema, la soluzione va cercata nel costringere l’amministrazione, nella fase
del procedimento, a una disamina completa dell’istanza del privato, sì da
esaurire one shot i margini di
valutazione discrezionale e consentire una disamina completa della questione in
sede giurisdizionale.
Sotto
questo profilo è interessante la tesi di chi[34] suggerisce di valorizzare
il disposto dell’art. 10bis l.241/90, sul preavviso di rigetto, per imporre
alla pubblica amministrazione di esaminare funditus
l’istanza del privato; se non lo fa, la questione è portata tutta davanti al
giudice: il privato potrà chiedere il provvedimento e la pubblica amministrazione
potrà opporre alla richiesta anche i motivi non esposti nel diniego o nel
preavviso di rigetto[35]. In altri termini,
l’azione di condanna all’emanazione del provvedimento diventa una sorta di
braccio armato della disposizione di cui all’art. 10bis e –per dirla con una
dottrina[36]-
“si impone all’amministrazione di consumare la sua discrezionalità rispetto al
caso concreto”. E ciò nonostante la mancata riproduzione del codice di quella
disposizione, sull’azione di adempimento, contenuta nel testo licenziato dalla
Commissione speciale del Consiglio di Stato che imponeva alla pubblica amministrazione
di portare in giudizio “tutti gli elementi utili ai fini della fondatezza della
pretesa”.
LE OBIEZIONI ALLA VIGENZA DELLE
AZIONI DI ACCERTAMENTO E DI ADEMPIMENTO NEL SILENZIO DEL CODICE: UNA CONFERMA
DELLA TESI DELLA LETTURA UNIFICATA DI AZIONI E POTERI DEL GIUDICE - CONCLUSIONI
Al di là
della controvertibilità delle opinioni espresse, una critica radicale, perché
di sistema, alla configurabilità di azioni di accertamento o di adempimento è
espressa da chi[37]
sostiene che, dopo la costituzionalizzazione del giusto processo “regolato per legge” (art. 111 Cost.), nel diritto
processuale, e segnatamente nella individuazione delle azioni esperibili, non
vi sia più spazio per interventi integrativi e pretori dell’interprete e del
giudice. Il codice avrebbe accolto un principio di tipicità “moderata” delle
azioni, in forza del quale, pur in assenza di un elenco delle azioni, chiaro e
tassativo, le azioni sono comunque solo quelle chiaramente individuate. E,
quanto all’azione di adempimento, l’Autore sottolinea come ai medesimi
risultati si possa pervenire in sede di ottemperanza[38].
Non vi è
dubbio che ciò che conta sono i risultati sul piano della tutela. Ma, sul piano
teorico, non può non richiamarsi una tesi opposta[39], secondo cui la mancata
tipizzazione delle azioni e l’ampiezza delle clausole generali relative alle
pronunce –il criterio della idoneità nella lett.c- lasciano propendere per
l’accoglimento del principio, direi altrettanto “moderato”, della atipicità
delle azioni[40],
o, quanto meno direi, della non nominatività delle stesse: è noto infatti che,
sul piano della teoria generale, si ritiene che il principio di tipicità sia
rispettato se l’azione è desumibile dal sistema positivo, ancorché non
specificamente nominata.
E’ vero che
le azioni di accertamento e di adempimento, contenute nel testo della Commissione
speciale del Consiglio di Stato, sono state espunte in sede di approvazione del
codice. E si è detto[41] che ciò sarebbe avvenuto
per ragioni di spesa pubblica[42] (per la verità
incomprensibili e comunque poco pertinenti, in quanto mai potrebbe condividersi
un’impostazione, miope e in contrasto con non pochi princìpi, secondo cui ragioni
di spesa pubblica potrebbero impedire la piena tutela contro l’illegittimo uso
del potere pubblico, così consentendo di scaricare sul sistema produttivo e sui
singoli vere e proprie diseconomie esterne di produzione da parte dell’amministrazione).
Ma così non
è. La relazione governativa al codice chiarisce che le modifiche apportate al
testo della Commissione sono dovute alla considerazione che il sistema delle
azioni delineato dal codice è tale da assicurare una tutela piena ed effettiva.
E ciò può portare a individuare nei princìpi e nelle singole disposizioni anche
azioni non contemplate in un elenco (che per giunta non c’è e comunque non è
allineato con l’elenco delle pronunce). Io penso che per escludere le suddette
azioni, se mi si consente il paradosso, bisognerebbe vietarle espressamente,
cosa peraltro di dubbia compatibilità costituzionale.
Per
concludere, credo che l’approccio proposto al sistema delle azioni nel c.p.a.
sia coerente con una lettura del sistema delle tutele che accentui il carattere
rimediale delle stesse e che consenta alla giurisprudenza amministrativa,
supportata da dottrina e Foro, di continuare, pur con le spalle coperte dal
codice, in quell’opera cd. pretoria che consente l’adattamento quotidiano degli
strumenti di tutela alla salvaguardia della sfera giuridica del cittadino
contro gli abusi del potere (naturalmente, quando vi sono).
Forse –come
osserva un acuto processualcivilista[43] in un recente saggio- il
codice del processo amministrativo è opera utile e meritoria, ma, sul piano
sistematico, è ben poca cosa rispetto ai codici tradizionali e, in particolare,
al Verwaltungsgerichtsordnung tedesco
del 1960, legato alla teorica e alla preminenza di sistema dei diritti
fondamentali dell’individuo.
E ciò è indubbiamente
vero, anche se va ricordato, peraltro senza possibilità di approfondimento
nella presente sede, che le grandi codificazioni ottocentesche operano in un
contesto storico-istituzionale non rinvenibile nei tempi attuali, e non solo in
Italia; e che il codice del processo amministrativo nemmeno potrebbe definirsi
un codice di settore, nel senso in cui il termine viene adoperato dalla
legislazione più recente e dalla giurisprudenza consultiva del Consiglio di
Stato[44]. Quanto, poi, al
parallelo con il recente codice tedesco di rito, a tacere della valenza quasi
costituzionale di quel testo, a fronte di una disciplina direttamente nel testo
della Costituzione dei profili costituzionali del sistema di giustizia
amministrativa, mi sembra sia rilevante considerare che ci si trova dinanzi a
due modelli troppo diversi tra loro sul piano sostanziale[45]: l’uno, quello tedesco,
in cui i diritti fungono da limite, ma da limite esterno, al potere pubblico; l’altro, quello italiano,
caratterizzato da una conformazione dall’interno del potere pubblico alla
valutazione legale degli interessi in conflitto.
Ed è
inevitabile che il sistema delle tutele risenta della diversità di approccio
sostanziale; ed è anzi indispensabile, perché il sistema delle tutele, per
essere pieno ed effettivo, va reso coerente con il modello sostanziale.
[1] Sugli equivoci insiti nella teoria dell’affievolimento, v. già. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna 2000, 117 ss. (ma già nella prima edizione del 1976); ivi richiami
[2] Clarich, Azione di annullamento, Commento all’art. 29 c.p.a., in Commentario al c.p.a. (a cura di Quaranta e Lopilato), Milano 2010, rinvenibile su www.giustizia-amministrativa.it
[3] Bachelet, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, Milano 1966
[4] Cfr. Pajno, La giustizia amministrativa all’appuntamento con la codificazione, in Dir.proc.amm. 2010, 119 ss.
[5] Su cui v. ora Corte cost. sent. n. 204 del 2004
[6]
Pajno, op. cit., 126
[7] Pajno, Il codice del processo amministrativo tra “cambio del paradigma” e paura della tutela, in Giorn.dir.amm. 2010, 885
[8] R. Orestano, Azione, storia del problema, in Azione.Diritti soggettivi.Persone giuridiche, Bologna 1978
[9] Donellus, Comm.de actionibus (1583 – ed.
[10] Nigro, Giustizia amministrativa, cit., passim
[11] Ancora Nigro, op. cit., p.116
[12] O più precisamente –come osservato da Villata in un recente convegno- come obbligazione da illecito
[13] Quando non a un terzo grado di giurisdizione della Cassazione sulle sentenze del giudice amministrativo
[14] Come rileva Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, (Relazione al 56° Convegno di Varenna 2010, in www.giustizia-amministrativa.it), ”la pronuncia è, infatti, il momento in cui le domande delle parti, i fatti oggetto della controversia e i poteri del giudice si incontrano”
[15] Pajno, Il c.p.a. ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in Commentario al c.p.a., a cura di Quaranta e Lopilato. L’Autore si muove su di un piano diverso da quello qui esposto, sottolineando la convergenza tra sistema di tutela processualcivilistica e sistema della giustizia amministrativa. Va tuttavia senz’altro condivisa l’accentuazione del profilo della pretesa sostanziale della parte vittoriosa come oggetto e fine della tutela.
[16] Protto, sub art. 34 Sentenze di merito, in Caringella e Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Dike giuridica Roma 2010
[17] Sul tema cfr. l’ampio e ben ragionato saggio di LIPARI, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, (relazione al Convegno di Varenna 2010), in www.federalismi.it n. 18/2010.
[18] Ma anche co. 4, che prevede la possibilità di proporre in sede di ottemperanza l’azione risarcitoria che, ai sensi dell’art. 30, co.5, non sia stata proposta contestualmente all’azione di annullamento; nel qual caso, però, il giudizio, che pur resta espressamente qualificato “di ottemperanza” si svolgerà nelle forme, nei termini e nei modi del giudizio ordinario
[19] Nella pratica la giurisprudenza ha utilizzato in passato lo strumento risarcitorio, in sede di ottemperanza, per far fronte a ipotesi di (pratica) impossibilità di esecuzione della decisione: es. annullamento di aggiudicazione con contratto integralmente eseguito; impossibilità di restituzione di bene. Talvolta anche di esecuzione particolarmente onerosa (art. 2098 c.c.). Nel codice c’è una disposizione in tema di contratti (art. 122), ma manca una norma generale.
Nel silenzio, sembrano prospettabili due ipotesi: a) far rientrare l’impossibilità o l’eccessiva onerosità nella mancata esecuzione; b) far rientrare la fattispecie nel combinato disposto del 112, co. 4 e 30, co.5, ma in tal caso il giudizio prosegue nelle forme ordinarie; si apre, cioè, sostanzialmente una fase di cognizione
[20]
Cass.
[21] In realtà, il problema reale non è quale azione prevalga, ma a chi spetti scegliere la forma di tutela. Il principio dispositivo imporrebbe di rispondere senz’altro che la scelta spetti al ricorrente, la cd.imperatività del provvedimento amministrativo rende più complessa e problematica la questione
[22] Non si vuole né si può entrare nel dibattito dottrinario sull’oggetto del giudizio amministrativo, anche perché, tutto sommato, non rilevante né pertinente ai nostri fini. Per una ricostruzione sintetica e completa, anche di richiami dottrinari, v. Police, Pluralità delle pretese, unicità dell’azione e oggetto del giudizio amministrativo, in Zito e De Carolis (a cura di) Giudice amministrativo e tutele in forma specifica, Milano 2003
[23] Clarich, cit., in www.giustizia-amministrativa.it, p.8
[24] Prima del codice, in tema di attività edilizia, cfr. Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2009 n. 717
[25] Clarich, op.cit.
[26] Gisondi, L’azione di condanna, in www.giustizia-amministrativa.it
[27] Gisondi, op. cit.
[28] Chieppa Ro., Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it
[29] Su cui, v., per richiami, Patroni Griffi, Giudicato amministrativo e ottemperanza, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano 2010, spec. 1002, ss.; ma già, Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano 2005, 1225 ss.
[30] Nel sistema attuale –come rileva Protto (in Caringella e Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, cit., sub art.30, Azione di condanna- “la soddisfazione del bene della vita sotteso all’interesse legittimo rimaneva così fuori dall’orizzonte del giudizio di cognizione ed era rimandata al giudizio di ottemperanza nel quale il giudice amministrativo, essendo investito di poteri di merito, riteneva di potersi addentrare nella definizione del rapporto tra cittadino e p.a.”; ciò, peraltro, con tutti i limiti che derivano dalla cd. riedizione del potere, che limitano la portata della stessa sentenza di annullamento quanto ai suoi effetti ordinatori e conformativi, e tenuto conto che il Consiglio di Stato ha escluso che lo strumento del risarcimento in forma specifica potesse andare al di là dell’effetto ripristinatorio e consentire l’ottenimento del provvedimento richiesto: es. VI, 21 maggio n. 2008 n. 2622).
[31] Sulla questione v. da ultimo, anche per richiami, Caponigro, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it
[32] Clarich, op.cit.; sostanzialmente anche Torchia, op.cit.; contra, come si vedrà, Travi
[33] In realtà l’azione di adempimento avrebbe dato una configurazione sistematica alle due fattispecie, inerzia e diniego di provvedimento, disciplinando unitariamente le stesse e consentendo in entrambi i casi, già in sede cognitoria, di pervenire al soddisfacimento della pretesa sostanziale, pur nei limiti del rispetto delle valutazioni discrezionali rimesse alla pubblica amministrazione
[34] Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it
[35] E la sentenza, in questo caso, a differenza di quella di annullamento, coprirà il dedotto e il deducibile
[36] Torchia, op.cit.
[37] Travi, Relazione Varenna 2010, dattiloscritto
[38] Ed è significativo che un Autore (Picozza, Il processo amministrativo, Milano 2009, 203 ss) ipotizzi di configurare l’ottemperanza quale forma di esercizio dell’azione di adempimento.
[39] Torchia, op.cit.
[40]
in tal senso già Clarich, op.cit.
[41] In tal senso il comunicato reso al termine del CdM in cui è stato approvato il codice.
[42] Sull’esigenza di destinare al processo amministrativo maggiori risorse, da ultimo, con riferimento all’entrata in vigore del codice, cfr. Travi, Il codice del processo amministrativo. Presentazione, in Foro. It. 2010, V, 240
[43] Caponi, La riforma del processo amministrativo: primi appunti per una riflessione, in Foro it. 2010
[44] Patroni Griffi, La “nuova codificazione”: qualche spunto di riflessione, in Sandulli (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Milano 2005
[45] E’ noto, infatti, che, nel contesto europeo, l’esperienza austriaca e tedesca del processo e dello stesso diritto amministrativo sostanziale sono storicamente distanti dall’esperienza italiana, decisamente più vicina a quella francese che, semmai, presenta alcuni profili in comune con il modello inglese del judicial review, specie quanto a tecnica di sindacato dell’azione dei pubblici poteri per clausole generali.
[i] Il presente scritto costituisce la relazione tenuta in occasione del Premio Sandulli 2010, presso l’Avvocatura generale dello Stato, in data 2 dicembre 2010.