LE «MACCHINE PIGRE»
ED UN CODICE BEN TEMPERATO ([1])
di
Pier Luigi Portaluri
(Ordinario di diritto amministrativo – Università del Salento)
Pubblicato sul
sito il 22 novembre 2010
1.- Eco afferma che qualunque
testo è «una macchina pigra che esige dal lettore un fiero lavoro
cooperativo per riempire spazi di non-detto o di già-detto rimasti per così
dire in bianco» ([2]):
un testo è sempre in qualche modo reticente, è pieno di presupposizioni referenziali,
semantiche e pragmatiche.
Un testo – continua Eco – è complesso proprio perché ricco di «non-detto»,
cioè di non manifestato a livello dell'espressione e che il lettore deve
attualizzare a livello del contenuto attraverso movimenti cooperativi. Le
competenze e i codici del mittente e del destinatario
non sono necessariamente gli stessi e, quindi, sono necessarie strategie
testuali per evitare decodifiche aberranti.
Un testo, insomma, è per Eco «un prodotto la cui sorte interpretativa deve
far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa
attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui, come d’altra
parte in ogni strategia» ([3]).
Dobbiamo applicare al Codice questa tecnica, soprattutto dopo l’intervento
del misterioso – ma molto meno tenero dell’originale … – Edward Scissorhands
governativo.
2.- Si è osservato ([4]) che «nel Codice sono rimasti i germi per garantire l’esercizio di una
pluralità di azioni; cosa che la dottrina invocava da decenni»: restano nel Codice, dunque, i nuclei dei principi che,
previsti dalla legge delega, erano stati poi inverati nella bozza elaborata
dalla Commissione.
Non chiediamoci quindi quanto più avanzate potevano essere le linee di
frontiera della codificazione nell’attuare i principi della legge delega:
sarebbe una vieta forma di crepuscolarismo giuridico. Chiediamoci invece – appunto
nella logica del Codice “macchina pigra” – quali possano essere le linee di
avanzamento del sistema attuale.
3.- C’è una questione di fondo: tutto il quadro normativo (legge delega – Codice)
ruota intorno ad un principio-obiettivo, la pienezza
della tutela. Si tratta, certo, di un traguardo fondamentale, ma che deve
tener conto della particolarità della situazione soggettiva tutelata, cioè
l’interesse legittimo: figura la cui doppia
anima ([5])
di protezione dell’interesse sia privato che pubblico non deve mai essere
dimenticata.
In altri termini, le strategie testuali per vincere la pigrizia della
macchina-Codice m’appaiono essere due, in rapporto di complementarietà. In
primo luogo, ovviamente, la pienezza della tutela della situazione soggettiva;
in secondo (ma non per importanza …) luogo, la tutela dell’interesse pubblico.
4.- Se si accetta questo criterio di lettura, la domanda che si deve
formulare non è più cosa il Codice poteva essere e non è stato, ma quali sono
le frontiere che restano comunque irraggiungibili: si avverte qui l’utilità del
saggio monito di de Lise, secondo cui il Codice deve essere punto di partenza e
non di arrivo ([6]).
In sintesi, l’unica vera preoccupazione non deve consistere nell’elegia gozzaniana
delle cose che il Codice poteva dire e non ha detto, poiché a colmare questo
tratto può essere ben sufficiente il lavoro dell’interprete La preoccupazione
deve risiedere, invece, nell’eventuale presenza di ostacoli testuali insormontabili
per raggiungere: ma non ne vedo molti, e su entrambi i fronti (cioè della
tutela sia dell’interesse privato che di quello pubblico).
5.- Quanto alla pienezza
della tutela, già
Secondo Cerulli Irelli ([7]), infatti, «il testo
costituzionale contempla principi innovativi dell’antico sistema […].
Anzitutto, […] quello che possiamo denominare il principio della pienezza della
tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, principio
che emerge dall’art. 24, laddove la tutela giurisdizionale degli interessi
legittimi è equiparata a quella dei diritti, come tutela piena, capace di utilizzare
tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento; e nell’art. 113, 2° co., laddove
si stabilisce che questa tutela non possa essere esclusa a fronte di
determinati atti o limitata a particolari mezzi di impugnazione, secondo
quanto, viceversa, veniva praticato nell’anteriore legislazione. A fronte
dell’esercizio del potere pubblico, tutte le situazioni protette (rappresentate
dal distico “diritti e interessi legittimi” dell’art. 24), a prescindere dalla
loro intima natura, sono allo stesso modo tutelate. Principio questo, dal quale
possiamo trarre importanti conseguenze anche sul piano sostanziale, oltre che
in ordine alla tutela giurisdizionale; in un ordinamento nel quale ormai
prevale l’idea di un potere pubblico che si esprime in rapporti giuridici nei
quali i soggetti si scontrano in posizione sostanzialmente paritaria, essendo
ciascuno (pubblico o privato) portatore di situazioni protette, in differente
modo, dalla legge, e operanti nello spazio a ciascuno riservato dalla legge».
Affatto convincente sul
piano della tutela giurisdizionale, la tesi mi persuade meno circa la
ricostruzione dei rapporti sostanziali privato/p.A. in termini paritari: l’interesse pubblico – checché
ne dicano «discutibili mode privatistiche di questi ultimi lustri» ([8]), di cui un riflesso è
nell’art. 1, comma 1-bis, l. n.
241/’90 – esprime sempre un plusvalore
mayeriano rispetto a quello privato.
6.- Se si muove dal presupposto dell’esistenza di una
solida base costituzionale, la soppressione – nella stesura definitiva del Codice
– delle azioni di accertamento e di adempimento risulta priva di conseguenze
irreparabili: non si tratta, cioè, di ostacoli insormontabili se affrontati con
una ben munita strategia testuale.
L’azione di accertamento, infatti, è sempre stata travestita
da azione di annullamento fino alla nota svolta giurisprudenziale: nella consapevolezza
che in ordine all’ammissibilità innanzi al Giudice amministrativo di un’azione siffatta
sono stati prospettati numerosi dubbi, si è ritenuto che la mancanza di una norma
espressa che la preveda non costituisce un ostacolo, poiché anche nel processo
civile – dove pure manca un esplicito riconoscimento codicistico – essa è
pacificamente ammessa. L’ammissibilità di una tale azione discende infatti di
per sé dall’esistenza della giurisdizione, che implica appunto lo ius
dicere.
Se poi il timore del nostro grifagno Edward fosse stato
quello di un grave intralcio al fluire ordinato dell’azione amministrativa che
potrebbe derivare dalle cc.dd. azioni di iattanza, mi paiono più che
sufficienti le osservazioni di Verde ([9]),
secondo cui le azioni di accertamento in prevenzione, in quanto necessariamente
«sussidiate da un interesse rilevante e attuale (ex art. 100 c.p.c.)»,
richiedono al più «un accorto controllo» ([10]) del
Giudice circa l’esistenza di un intento meramente emulativo.
Quanto poi all’azione
di adempimento, essa è stata da Merusi ([11]) considerata
come già immanente rispetto al diritto vivente: «per quanto riguarda l'azione di adempimento (cioè il
soddisfacimento della pretesa del cittadino ad ottenere un determinato
provvedimento amministrativo), l’anonimo potatore non si è accorto che esiste
già, o forse lo sapeva benissimo, ma ha evitato un ulteriore taglio per non
toccare una corrente elettrica ad alta tensione, quella della Corte di
Giustizia della Comunità europea. L'azione di adempimento è prevista, sia pur
con espressioni un po' contorte, nel TUB (Testo Unico Bancario) in attuazione
di una direttiva comunitaria a proposito delle autorizzazioni a presupposto vincolato, come sono ormai tutte le
autorizzazioni disciplinate da direttive comunitarie. L'azione di adempimento è
pertanto estensibile a casi similari in cui esistono tutti i presupposti per
emanare un provvedimento che l'amministrazione non ha voluto emanare, non solo
in base alla analogia con la previsione del TUB, ma in applicazione di un principio generale comunitario, un principio
che, come tutti i principi generali comunitari, penetra obbligatoriamente nel
nostro ordinamento in base all'art. 1 della legge sul procedimento
amministrativo. In altre parole basta fare un po' di pressing sui
giudici amministrativi, magari con l'ausilio della Corte di Giustizia Europea,
e alla azione di adempimento ci si arriva lo stesso anche se l'emanando codice
non ne parlasse».
7.- L’ordinamento
quindi registra solide basi normative per addivenire a livelli accettabili di
tutela del privato. Questo significa
che la componente privatistica
dell’interesse legittimo riesce ad attingere, per via diretta o indiretta,
buone soglie di tutela.
Ma ciò comporta anche
che il Codice ha per ciò solo scelto un modello – beninteso all’interno del
sistema generale di giurisdizione subiettiva – che si disinteressa della
componente pubblicistica
dell’interesse legittimo?
In altre parole, ferma
la scelta per il modello di giurisdizione soggettiva, fino a che punto si
spinge il Codice nell’enfatizzare l’«anima» privata e, di contro, a dequotare o
comunque trascurare quella pubblica dell’interesse legittimo? O, invece, è
possibile ravvisare nel diritto processuale vivente – seguendo proprio lo
stesso criterio utilizzato dai primi commentatori per ”ristabilire” i livelli
di tutela del privato decurtati dal mutilatore, cioè l’utilizzo congiunto delle
norme e dei formanti legale e giurisprudenziale
– un modello che non ha mai allontanato o scolorito nell’interesse
legittimo il risvolto pubblicistico?
8.- Per rispondere a
questi interrogativi d’apice ritengo opportuno analizzare un primo profilo:
quello costituito dal rapporto fra le parti (private e pubbliche) e il loro Rechtschutzbedurfnis – cioè il «bisogno di tutela giurisdizionale» – volto ad ottenere la decisione su chi
ha ragione e chi ha torto. Invero, la costruzione di un modello processuale che
appresti strumenti particolarmente
efficaci per superare le secche delle questioni di rito allo scopo di «iudicare de meo et tuo», se applicato ad
affari involgenti interessi pubblici (e il processo amministrativo se ne occupa
per definizione), si traduce nello stesso
tempo in una penetrante tecnica di verifica della legittimità dell’azione
amministrativa.
Ora, come tutti
sanno,
Significa
ciò che quella tendenza deve considerarsi interrotta, con le conseguenti
ricadute negative sulla tutela non solo del privato, ma anche (se non
soprattutto …) della legittimità amministrativa?
La
risposta sembra essere fortunatamente negativa, e per un duplice ordine di
considerazioni.
Anzitutto,
il formante giurisprudenziale già da tempo spingeva con forza per la previsione
di un contraddittorio da instaurare d’ufficio allo scopo di superare le questioni
che avrebbero potuto portare alla declaratoria d’inammissibilità di un’istanza
processuale, e dunque ad impedire al Giudice – in tutto o in parte – la cognizione
meritale della causa: secondo A.p. n.
1/’00 (Est. Baccarini), «in un sistema processuale come quello vigente fondato sul principio del
contraddittorio, infatti, la rilevabilità d’ufficio di una questione da parte
del giudice non significa che, per ciò stesso, tale questione possa essere
decisa d’ufficio senza esser sottoposta al contraddittorio delle parti. In
questa prospettiva, “rilevare d’ufficio” sta per “indicare d’ufficio alle
parti” (arg. ex art. 183, 3° comma, c.p.c., secondo cui il giudice richiede
alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le
questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, ed ex
art. 184, 3° comma, c.p.c., secondo cui nel caso in cui vengano disposti
d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine
perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in
relazione ai primi)».
In
secondo luogo, il Codice all’art. 73, comma 3 stabilisce che «Se ritiene di porre a fondamento della sua
decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice la indica in udienza
dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione,
il giudice riserva quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine
non superiore a trenta giorni per il deposito delle memorie».
Evidente
mi sembra la concretizzazione del principio previsto dall’art. 5 del progetto
del Codice: si noti, in proposito, che – con ovvietà solo apparente – sia
l’art. 5 cit. sia l’art. 73 del Codice attribuiscono alle «parti» rispettivamente il diritto alla decisione di merito o agli
adempimenti processuali posti a carico del Giudice.
Al di
là dell’ovvio richiamo al principio di parità delle armi, l’uso del plurale (le
parti) può facilmente assumere un
preciso effetto di senso (sempre nella virtuosa logica della macchina pigra da «sveltire»):
garantire non solo al ricorrente (il più esposto alle declaratorie di
inammissibilità), ma anche alle altre parti (ivi incluse quella pubbliche), la possibilità di superare in
contraddittorio le questioni che potrebbero impedire l’ingresso in lite di
elementi di fatto o di diritto utili o indispensabili per la cognitio plena; cioè, ancora una volta,
che potrebbero precludere l’accertamento della legittimità dell’azione amministrativa.
Peraltro,
rinviando a dopo ulteriori precisazioni sul punto (cfr. art. 84, comma 3,
c.p.a. in tema di necessità dell’adesione alla rinuncia al ricorso delle «parti
che hanno interesse alla prosecuzione»), mi permetto di avere non pochi dubbi circa
l’impossibilità che in concreto l’Amministrazione vanti un proprio specifico
interesse alla prosecuzione del giudizio fino alla decisione di merito:
interesse che potrebbe indurla, con paradosso solo apparente, ad instare
insieme col ricorrente al solo fine di superare questioni processuali che
porterebbero ad una sentenza d’inammissibilità «pura» del ricorso!
9.- Si
è appena ricordato l’art. 84 c.p.a., il quale stabilisce che «1. La parte può rinunciare al ricorso in ogni
stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa
stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale e depositata presso la
segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo
verbale. 2. Il rinunciante deve
pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto
riguardo ad ogni circostanza, ritenga di compensarle. 3. La rinuncia deve essere notificata alle
altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno
interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue. 4. Anche in assenza delle formalità di cui ai
commi precedenti il giudice può desumere dall’intervento di fatti univoci dopo
la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti
di prova della sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa».
Il
secondo periodo del terzo comma rende evidente la novità rispetto all’assetto
previgente, in cui non era necessaria l’adesione delle altre parti ([12]).
L’art. 84 c.p.a. dimostra la configurabilità di un interesse anche delle
altre parti (inclusa la p.A.) alla
prosecuzione del giudizio e quindi all’accertamento della legittimità
dell’azione amministrativa.
In sostanza,
il Codice – pur conservando la fisionomia del processo come processo di parti –
parrebbe aver sottratto al ricorrente l’esclusiva disponibilità dell’azione: la
quale, una volta esercitata, potrebbe essere proseguita anche contro la sua
volontà.
Anche
qui mi sembra chiara la tendenza del processo verso una forma di giurisdizione sì
subiettiva, ma bachianamente «ben temperata» dall’esigenza – meno equabile e
più mesotonica, dunque «sottilmente ineguale» … ([13]) – di
accertare comunque la legittimità
dell’azione amministrativa.
10.-
Altro «punto notevole» i nostri fini è quello dibattutissimo di cui all’art. 30
c.p.a. in tema di azione di condanna e risarcitoria ([14]).
La
previsione di un termine di 120 giorni per esperire l’azione risarcitoria ha un
dies a quo ben diverso a seconda che
sia proposta in via autonoma (3° comma) oppure congiuntamente all’azione
costitutiva di annullamento (5° comma). Nel primo caso il dies a quo è quello del fatto dannoso o della conoscenza del
provvedimento; nel secondo caso, è un ben più comodo termine decorrente dal
passaggio in giudicato della sentenza con cui viene disposto l’annullamento
dell’atto.
La norma
– che scaturisce dalla volontà di mediare tra la posizione della Suprema Corte
(la quale, come noto, ritiene che l’azione risarcitoria sia ammissibile anche
se non è stato impugnato l’atto viziato) e quella del Consiglio di Stato (il
quale, invece, ha sempre affermato la necessità di tale impugnativa) – dimostra
chiaramente il favor ([15]) del
Codice verso le soluzioni che mirano all’espunzione dell’atto illegittimo dal
sistema e, dunque, conferma l’impressione che il Codice spinga verso una tutela
che resta sì ancorata al modello di tipo soggettivo, ma che presenta rilevanti
profili di giurisdizione oggettiva.
È pur
vero che la dottrina ([16]) ha
sollevato pesanti dubbi sulla correttezza (fors’anche sulla legittimità
costituzionale) di un termine così breve; ma è anche vero – come pure è
stato notato ([17])
– che semmai l’appunto di cui la scelta del dies
a quo e del termine in esame è passibile non è quello di collidere con il
sistema di tutela di questi diritti fondamentali, bensì – un po’ più
modestamente – quello di non aver l’ordinamento disegnato un sistema speciale della responsabilità
amministrativa: che, concernendo un soggetto portatore di plusvalore, e dunque
meritevole di statutarietà, può e deve aspirare ad un assetto aquiliano differenziato (ma non per questo meno
garantistico e pienamente satisfattivo per il privato) rispetto alla clausola
generale dell’art. 2043 ss. c.c..
Se si
aderisce – come a me sembra preferibile – a quest’ultima impostazione,
troverebbe conferma anche per altra via (cioè non solo quella della irrisolta
tensione dialettica fra concezione soggettiva ed oggettiva della giurisdizione,
ma pure quella concernente la disciplina della responsabilità amministrativa)
la permanenza di una specialità amministrativa che continua a opporre una
apprezzabile resistenza nei confronti di eccessive fughe nel diritto privato.
11.- In
conclusione, concordo con chi ([18]) ha
affermato che la costituzionalizzazione del Giudice amministrativo comporta a
mio avviso anche la costituzionalizzazione del suo diritto, cioè della specialità amministrativa: ribadendo la
propria contrarietà a taluni pericolosi eccessi devolutivi insiti già nella l.
n. 205/’00,
Un
disegno istituzionale che – come a tutti noto – è stato energicamente
valorizzato da de Lise, secondo cui «grazie anche al conforto della
giurisprudenza costituzionale, si è ormai chiarito che il giudice
amministrativo non è un giudice speciale, ma è il giudice ordinario del potere
pubblico, in una visione di unità funzionale – non organica – della
giurisdizione, che si fonda sull’art. 24 della Costituzione. Il che vuol dire
che noi siamo i Giudici che devono tutelare i cittadini e le imprese a fronte
del non corretto esercizio del potere, ed assicurare, dinanzi ad esso, la piena
realizzazione dei loro diritti. Ma che siamo anche i Giudici che – quando i
ricorsi si rivelino privi di fondamento – devono consentire il rapido e sicuro
raggiungimento dell’interesse pubblico che attraverso il potere viene perseguito»
([19]).
Né ad
incrinare la lettura che a me appare preferibile varrebbe l’obiezione secondo
cui il Giudice amministrativo è oggi chiamato a dirimere anche controversie in
cui la tradizione contrapposizione fra interesse privato e interesse pubblico è
sostituita da quella che vede fronteggiarsi soltanto interessi pubblici.
Nei processi di sole parti pubbliche, infatti, le
superiori considerazioni – lungi dall’uscirne infirmate – trovano a mio avviso
un’ulteriore, «raddoppiata» conferma: il Giudice naturale del potere pubblico
trova qui, infatti, un cimento ancor più bisognoso e degno di specialità,
dovendosi addirittura misurare con visioni opposte o comunque inconciliabili
del bene comune ([20])!
12.- Sveltita
in questo modo, la pigra macchina-Codice, quale che sia stata – si torna ad Eco
– l’intentio auctoris, rivela una
modernità possibile che sospinge ad
abbandonare i languorosi crepuscolarismi giuridici di cui dicevo in apertura:
non era forse Giannini – il Maestro diretto o indiretto di tanti di noi – a
chiudere la prefazione alla seconda edizione del Diritto amministrativo avvertendo invece che la condanna dei
giuristi è quella di pensare sempre a nuove albe?
([1]) Relazione al
Convegno svoltosi presso il TAR di Lecce il 12-13 novembre 2010 su «Il Codice
del processo amministrativo».
([2]) U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, 1979,
p. 24 s..
([4]) R. Chieppa, Il codice del processo
amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it.
([5]) Così O. M. Calsolaro, Per la pregiudiziale amministrativa: la «doppia anima» dell’interesse legittimo», in Foro amm. - TAR, n. 7-8/2006, p. 2641
ss., il quale riprende una puntuale osservazione di A. Cavallari, La “pregiudiziale amministrativa”: le
ragioni di una soluzione, in www.giustizia-amministrativa.it: «Se l’interesse legittimo è sintesi di interesse pubblico e interesse
privato, i mezzi di tutela apprestati dall’ordinamento a questa situazione
giuridica devono, nel loro insieme, soddisfare e l’interesse pubblico e
l’interesse privato. Così è per l’azione impugnatoria, che, se accolta,
comporta la caducazione dell’atto illegittimo e quindi la soddisfazione
dell’interesse pubblico alla legittima esplicazione dell’attività
amministrativa, cioè l’eliminazione dalla realtà giuridica dell’atto
amministrativo che ha violato le regole dettate al fine di assicurare l’assetto
degli interessi della collettività ritenuto preferibile dal formante».
Secondo E. Mele, Pregiudiziale amministrativa e Diritto
amministrativo, in G. De Giorgi Cezzi - P.L. Portaluri - V. Tondi della
Mura - F. Vetrò (a cura di), I poteri e i
diritti: incontri sulla frontiera, ESI (in corso di pubblicazione), «il diritto
amministrativo, così come venuto alla luce e così come successivamente
affermatosi nell’ambito dell’ordinamento giuridico dei paesi dell’Europa
continentale, non poteva fare a meno della cosiddetta pregiudiziale
amministrativa».
([6]) P. de Lise, Discorso di insediamento del Presidente del
Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it:
«L’auspicio che formulo per il futuro è quello di sfruttare tutta la peculiare
potenzialità di questo testo, affinché esso funga non solo da “punto di arrivo”
di oltre un secolo di conquiste giuridiche, ma soprattutto da “punto di
partenza” per l’evoluzione successiva».
La
tentazione di considerare i codici come sistemi in qualche modo chiusi è
illustrata e confutata da M. Torsello, Profili generali del Codice dei
beni culturali e del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it: «Ecco quindi la necessità di
procedere alla predisposizione di una vera e propria codificazione. Anzi, in
questo senso abbiamo anticipato un fenomeno che si è successivamente diffuso ed
è stato recentemente analizzato a fondo dal Consiglio di Stato in alcuni pareri
dell’Adunanza generale. Qualche commentatore (Cammelli) ha definito la scelta
del Codice una scelta un po’ “curiosa” perché non vi sarebbero le
caratteristiche dell’esaustività e stabilità tipiche della legislazione
codicistica. In realtà, in questi anni – come dice il Consiglio di Stato – è
cambiata proprio l’idea di codificazione: essa si accompagna al raggiungimento
di equilibri forse provvisori, ma di
particolare significato perché orientati a raccogliere le numerose leggi
speciali di settore, in modo tale da conferire alla raccolta una portata
sistematica, orientandola ad idee regolative capaci di garantire l’unità e la
coerenza complessiva della disciplina».
([8]) M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del
Diritto amministrativo e del suo Giudice naturale, in Dir. proc. amm., 1/2010, p. 143 ss., spec. p. 144.
([9]) G. Verde, Sguardo panoramico al libro primo e in
particolare alle tutele e ai poteri del Giudice, in Dir. proc. amm., n. 3/2010, p. 795 ss., spec. p. 800.
([12]) Come è noto, l’art. 46, r.d. 17 agosto 1907, n. 642
stabilisce: «1. In qualunque stadio della
controversia si può rinunciare al ricorso mediante dichiarazione sottoscritta
dalla parte o dall'avvocato, munito di mandato speciale e depositato nella
segreteria, o mediante dichiarazione verbale, di cui è steso processo. 2. Il rinunziante
deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti. 3. La rinunzia
dev'essere notificata alla controparte, eccetto il caso in cui sia fatta
oralmente all'udienza».
Secondo la
giurisprudenza ante codicem «la rinuncia al ricorso
formulata dal difensore, munito di procura comprensiva della facoltà di
rinunciare, produce tutti gli effetti di cui all'art. 46 del r.d. n. 642 del
1907, anche ove non notificata a controinteressati non costituiti in giudizio, atteso che la rinuncia al ricorso non
soggiace all'accettazione delle parti resistenti e non richiede pertanto,
quale condizione di efficacia, la costituzione integrale del contraddittorio»
(TAR Lazio, 20 aprile 2006, n. 2872). A riprova della eccessiva «facilità» con
cui il processo previgente interrompeva il proprio cammino verso la naturale
sua destinazione meritale, sia sufficiente ricordare l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui «l'inoltro, a mezzo fax, dell'atto di rinuncia al
ricorso – se non può valere agli effetti della declaratoria di rinuncia, per la
quale è necessario il deposito nella segreteria del Tribunale adito dell'atto ex art. 46, r.d. 17 agosto 1907, n. 642 –
assume valore di inequivoca attestazione in ordine al venir meno dell'interesse
ad una decisione di merito, con conseguente
improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse» (TAR
Basilicata, 23 gennaio 2006, n. 11).
([13]) Su
questi temi «esterni» segnalo gli avvincenti, ma molto discussi, saggi di G.
Interbartolo - P. Venturino - G. Bof, Bach
1722 - Il temperamento di Dio. Le scoperte e i significati del
wohltemperirte Clavier, Bolla, 2007 (da cui è tratta la citazione nel testo) e di B. Lehman, Bach’s extraordinary temperament: our
Rosetta Stone, in Early music, vol.
33, n. 1, 2/2005, Oxford University Press; nonché, in generale,
S. Isacoff, Temperamento. Storia di un
enigma musicale, EDT, 2005.
([14]) Si
riporta per comodità di lettura il testo della norma in esame. «1. L'azione di condanna può
essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di
giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente
articolo, anche in via autonoma. 2. Può essere chiesta la condanna al
risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio
dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.
Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento
del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti
dall'articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del
danno in forma specifica. 3. La domanda di risarcimento per lesione di
interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi
giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla
conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel
determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e
il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche
attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti. 4. Per il
risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in
conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura
l'inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo
un anno dalla scadenza del termine per provvedere. 5. Nel caso in cui sia stata
proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata
nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in
giudicato della relativa sentenza. 6. Di ogni domanda di condanna al
risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di
giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il
giudice amministrativo».
([15]) Cfr. G. Verde, op.
cit., p. 802, il quale parla di
un «notevole beneficio» di cui «gode» la parte che propone anche l’azione di annullamento.
([16]) F. Merusi, op.
cit.: «Ma i diritti, e certamente il diritto al risarcimento del danno è un
diritto garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell'uomo,
sono sottoposti a termini di prescrizione. La prescrizione può essere ridotta,
la c.d. praescriptio brevis, ma non eliminata a favore della decadenza».
Cfr. sul punto le
efficaci osservazioni – ancorché in un quadro complessivo più orientato verso
il profilo della tutela del privato – di A. Pajno, La giustizia amministrativa all’appuntamento con la codificazione,
in Dir. proc. amm., 1/2010, p. 119
ss., spec. p. 138 s., secondo cui «la giurisprudenza costituzionale sembra,
così, segnare una sorta di percorso del giudice amministrativo nel segno della
fuoriuscita dalla sua originaria specialità. Grazie a questa giurisprudenza il
ruolo del giudice amministrativo acquista un connotato progressivamente
diverso, passando da una configurazione che fa di esso un organo di
giurisdizione speciale, sottratto alla revisione costituzionale, ad un’altra
che fa di esso il giudice ordinario per la tutela delle situazioni soggettive
al medesimo affidate dalla Costituzione».
([20]) Cfr. ancora P.
De Lise, op. cit.: «Siamo
inoltre i giudici che, di fronte alla trasformazione dello Stato da accentrato
ad articolato in diverse autonomie, sono chiamati a risolvere sempre più spesso
controversie tra enti pubblici, nonché, per effetto della prorompente emersione
di interessi di dimensione plurisoggettiva, controversie tra pubblica
amministrazione ed organismi di diversa natura e consistenza, in un quadro
caratterizzato in modo crescente dai princípi di sussidiarietà verticale ed
orizzontale. In tale ruolo il giudice amministrativo diventa uno degli arbitri
della costante dialettica tra autorità e libertà e, in qualche modo, anche un
garante del pluralismo istituzionale, specie oggi che le dinamiche
pubblicistiche si sviluppano alla ricerca di un equilibrio plurale tra potere
pubblico, poteri privati, autonomia, sussidiarietà, concorrenza, mercato».