La «specialità» della Giustizia  Amministrativa

ed il nuovo Codice del processo

di

Pietro Quinto

Avvocato

Pubblicato sul sito il 7 dicembre 2010

 

La specialità del Giudice Amministrativo

Il riferimento alla «specialità» del Giudice Amministrativo non ha un intento provocatorio rispetto al generale rifiuto e/o superamento di tale definizione, ma ha una dignità sua propria, che sarebbe grave errore  smarrire per strada.

Subito un punto fermo. Non v’è contrasto, e non può esservi, nell’affermazione del superamento dell’antica concezione dell’interesse legittimo quale mera situazione processuale e nel suo riconoscimento come situazione giuridica sostanziale, meritevole di tutela al pari del diritto soggettivo. Non v’è contrasto, né può esservi, sul riconoscimento della pari dignità del Giudice Amministrativo e del Giudice Ordinario e nella sostanziale unità delle giurisdizioni. Non v’è contrasto, né può esservi, nella considerazione che nel giudizio amministrativo, al pari del giudizio civile e penale, la stella polare sia rappresentata dalla regola del giusto processo e, quindi, della parità delle parti e della terzietà  del Giudice. Infine, non v’è contrasto, né vi può essere, sulla definizione del G.A. come il Giudice della funzione pubblica, o, se si vuole, delle molteplici e mutevoli forme dell’esercizio del potere.

Ciò detto. Vi sono però peculiarità proprie del giudizio amministrativo nel contesto ordinamentale delle istituzioni del Paese, in relazione proprio alle trasformazioni ed alle modalità di esercizio del potere pubblico e delle sue manifestazioni, che suggeriscono alcune riflessioni, anche per comprendere se il nuovo Codice del processo ne abbia tenuto conto o se invece sia stato «costruito» secondo una visione dommatica di tipo tradizionale.

Una prima riflessione, che non è in contraddizione con la premessa: nel giudizio civile si confrontano diritti dei singoli (persone fisiche o persone giuridiche) aventi eguale definizione e spessore, salvo particolari e circoscritte eccezioni (soprattutto in tema di diritto di proprietà e nel diritto societario). Nel giudizio amministrativo, l’interesse legittimo della parte ricorrente si confronta e si scontra con il concreto esercizio o il mancato esercizio del potere pubblico, che ha come finalizzazione l’interesse generale.

Il Giudice è indubbiamente terzo, le parti nel rito processuale sono in posizione paritaria. E’ il quadro normativo di riferimento che è diverso e che trae linfa e ispirazione nei principi della Carta Costituzionale. Nei rapporti tra pretesa individuale ed esercizio della funzione pubblica non viene in considerazione soltanto o esclusivamente il rispetto dei diritti inviolabili dei singoli, bensì il rispetto «dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

La qual cosa sta a significare che le leggi applicabili nelle singole fattispecie di diritto pubblico si fanno carico (o dovrebbero farsi carico) del contemperamento di siffatti principi. Con l’ulteriore sottolineatura che in una visione di rete degli ordinamenti giuridici nazionali, l’ordinamento giuridico italiano deve conformarsi alle norme ed ai principi di diritto internazionale riconosciuti. E’ in questo contesto che anche diritti soggettivi assoluti, (i «beni principali» li chiama Rawls), costituzionalmente irrinunciabili, possono trovarsi in conflitto tra loro ed abbisognano di una mediazione legislativa e di un intervento giurisdizionale non del Giudice dei diritti, bensì del Giudice Amministrativo; anche sub specie di giurisdizione esclusiva, con la sua peculiare capacità e sensibilità per cogliere e giudicare, accanto al rispetto delle regole formali e procedimentali, la suscettibilità di un condizionamento anche di tali diritti attraverso l’intervento dell’amministrazione.

Si pensi ai problemi attuali del confronto e dei conflitti tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre, alla tutela del lavoro, alla salvaguardia del bene paesaggio, ma altresì ai diritti dell’economia in termini di localizzazione di impianti produttivi e di smaltimento dei rifiuti. Si consideri il tema dell’energia, alla vigilia di quella che si annuncia la nuova grande battaglia sulla localizzazione delle centrali nucleari, o a quella attuale degli impianti di energia alternativa (pale eoliche e fotovoltaico), le cui procedure di localizzazione, oltre a coprire fisicamente il territorio nazionale, stanno occupando le aule dei tribunali amministrativi regionali in un difficile confronto sulla applicazione delle molteplici leggi. Leggi di produzione statale e regionale che dovrebbero riuscire a contemperare le esigenze del paesaggio (inteso come identità culturale di un luogo), i bisogni di un settore primario dell’economia, come l’agricoltura, ma altresì il perseguimento dell’autosufficienza di fonti energetiche alternative, indispensabili per uno sviluppo a misura d’uomo.

Rimane sullo sfondo, ma torna prepotentemente in primo piano, l’enunciato dell’art. 41 della Costituzione, secondo cui l’economia privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità della persona. Il legislatore è chiamato a «determinare i programmi ed i controlli perché l’attività pubblica e privata sia indirizzata e coordinata ai fini sociali». Ma è il Giudice della funzione pubblica e del concreto esercizio del potere a decidere se, ed in quale misura, queste leggi siano rispettate. Conflitti di non semplice soluzione, se, a fronte del primato della libera concorrenza, si avverte l’insufficienza di una legislazione nazionale e si auspica, da qualcuno, una Autorità sovranazionale mondiale, con la intrinseca contraddizione di un deficit di democrazia decisionale.  Idea non nuova. E’ il laico sogno kantiano di uno ius cosmopoliticum, ma altresì la conseguenza delle analisi di John Maynard Keynes.

V’è poi il tema della sacralità del diritto di proprietà e della sua funzione sociale, e del problema delle forme, delle modalità  e dei limiti dell’espropriazione per pubblica utilità, in cui il Giudice Amministrativo – e non solo – deve sopperire alle incertezze delle leggi, sottoposte alla verifica di coerenza con l’ordinamento sovranazionale, ed alla inefficienza della pubblica amministrazione, ossia al non corretto esercizio del potere. Per non dimenticare un’altra tipicità del regime proprietario nel nostro Paese, che, da un lato contempla lo ius aedificandi tra le facoltà inerenti il diritto dominicale, e, dall’altro, attribuisce al potere pubblico modi, forme e tempi per rimuovere i limiti - funzionali all’interesse generale - per il concreto esercizio di detta facoltà. Giudice esclusivo degli interessi del singolo, in relazione all’esercizio in concreto della potestà pianificatoria e provvedimentale della P.A., nella cornice dell’attività legislativa ai vari livelli e nella concorrenza di ulteriori molteplici interessi, è per l’appunto il Giudice Amministrativo.

In questo complesso scenario, non sempre facilmente leggibile nelle oscillazioni del diritto positivo, dominano, nel contenzioso innanzi al Giudice Amministrativo, per un verso, l’esatta individuazione dei limiti di compatibilità dei diritti e dei doveri pubblici, definiti dal legislatore, secondo l’ispirazione di quella visione solidaristica, che fa della Carta Costituzionale del nostro Paese un unicum nel panorama europeo (le premesse di un rivoluzione futura, secondo il giudizio ingeneroso di Calamandrei); per altro verso, la verifica, sempre da parte del Giudice Amministrativo, del rispetto delle regole formali e procedimentali nell’esercizio della funzione, secondo i principi del buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione.

Il discorso potrebbe ulteriormente continuare attraverso molteplici esemplificazioni per tutti i settori della vita comunitaria di ogni giorno avuto riguardo ad una realtà fenomenica che coinvolge la idea stessa della democrazia liberale, e che sembra contraddire i canoni tradizionali della concezione liberista. Non si realizza il principio di reciprocità, che è l’anima della libertà, nelle sue molteplici espressioni individuali e collettive, senza divieti e comandi, e cioè senza quel «gioco delle regole» che richiedono però una buona amministrazione ed un Giudice capace di verificarne la corretta applicazione.

Ecco quindi che nel processo amministrativo non vale il semplice accertamento di ciò che è mio e di ciò che è tuo, bensì la verifica che l’interesse o il diritto del singolo, giuridicamente riconosciuto dall’ordinamento nei limiti di una compatibilità con l’interesse della comunità, sia stato rispettato o illegittimamente violato dal titolare del potere pubblico, cui è demandato il perseguimento dell’interesse generale.

Non è cosa da poco conto, tant’è che v’è unanime convergenza nella definizione del Giudice Amministrativo come il Giudice della complessità. Ma è proprio per questo che deve essere rivendicata la «specialità» del Giudice Amministrativo. E’ indiscutibile che il Codice del processo, la legge sul procedimento amministrativo, la legge sulla funzione di regolazione delle Autorità indipendenti, molte regole del diritto urbanistico hanno un unico antecedente: la giurisprudenza pretoria del Giudice Amministrativo che «ha migliorato intensità e qualità della tutela giurisdizionale … ha elaborato tecniche giuridiche di tutela più raffinate», e in una parola, «ha dato prova di tensione ideale» (S. Baccarini).

 

I conflitti dei pubblici poteri

Una seconda riflessione attiene alla trasformazione del Giudice Amministrativo da Giudice del potere a Giudice «dei pubblici poteri» (secondo la definizione di Pasquale de Lise, nel discorso di insediamento alla presidenza del Consiglio di Stato) o – se si vuole – della funzione pubblica. La giustizia amministrativa è nata, con l’affermarsi dello Stato di diritto, come strumento di tutela delle posizioni soggettive dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Sino alla istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato, l’unico rimedio giurisdizionale avverso gli «atti di imperio», come ricordano Bachelet e Cannada Bartoli, era il ricorso straordinario, normato dapprima con la legge del Regno di Sardegna n. 3707 del 1859 e, quindi, con la legge n. 2248 del 1865, all. D, che ebbe grande importanza tra il 1865 ed il 1889.

La successiva evoluzione della giustizia amministrativa, con la piena operatività ed affermazione del Consiglio di Stato, e, quindi, con l’avvento della Costituzione repubblicana, consacrò i principi fondamentali della moderna giurisdizione amministrativa, proclamando la generalità della tutela degli interessi legittimi nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, senza distinzione o limitazione.

Nella travagliata, ma esaltante diffusione della giustizia amministrativa, non era immaginabile che quel Giudice, nato per difendere il cittadino contro il potere, e le sue prevaricazioni, dovesse assumere il ruolo di un «arbitro» per dirimere le controversie all’interno dell’ordinamento, nei conflitti tra i pubblici poteri. Ruolo che imporrebbe comunque una rivisitazione ed un coordinamento con la funzione tradizionale della Corte Costituzionale sui conflitti di attribuzione tra poteri.

E’ questa la ulteriore dimostrazione della duttilità di un Giudice davvero speciale, che sa ben interpretare il proprio ruolo e la propria funzione in relazione alle trasformazioni del potere pubblico, delle sue manifestazioni e del suo collegamento con la realtà sociale.

Accade così che, di fronte alla evoluzione di uno Stato accentrato come ordinamento e con un’anima dirigista in economia, in termini autonomistici e con la liberalizzazione del mercato secondo le regole comunitarie della libera concorrenza, i nuovi conflitti abbiano assunto una diversa connotazione.

Protagonisti nelle aule della giustizia amministrativa sono sempre più i soggetti pubblici, nel mentre il cittadino come singolo e come espressione della comunità di appartenenza rimane sullo sfondo.

Il nuovo contenzioso è all’interno della res publica tra Stato, Regioni, Province, Comuni o nei riguardi degli altri Enti pubblici, titolari di una qualche funzione pubblica, e, persino, con la partecipazione di quelle Autorità indipendenti, inventate ed invocate per prevenire o evitare i conflitti. Alla base di tali controversie v’è la rivendicazione della reciproca autonomia istituzionale, ma altresì l’incidenza delle competenze e della capacità decisionale, sulla base del principio di rappresentanza, nelle scelte dello sviluppo economico sociale del Paese. E’ l’emersione di un nuovo pluralismo, in funzione di un più equilibrato assetto degli interessi, che dovrebbe essere al servizio delle utilità del cittadino. In realtà, spesso, il cittadino rimane spettatore e guarda attonito ad una diffusa conflittualità, non si riconosce in essa,  e non si spiega perché l’ordinamento non riesca a ritrovare la sua unitarietà, legittimandosi soprattutto nella conflittualità e nella rivendicazione. Per molti, l’esperienza che vive la moderna giurisdizione amministrativa è la diretta conseguenza di una riforma affrettata ed incompleta della Costituzione, il cui segno distintivo si rinviene nella definizione dell’ordinamento nazionale attraverso una forma di governo - la Repubblica - quale contenitore di realtà istituzionali, ciascuna delle quali si muove secondo una sua propria sfera d’autonomia costituzionalmente protetta.

Al Giudice dei poteri è quindi affidata la soluzione di siffatti conflitti.

Compito arduo e di grande spessore, sol che si consideri che l’intera prima parte della Costituzione nei suoi principi fondamentali affida alla “Repubblica” compiti di promozione e di garanzia, secondo quella visione solidaristica in precedenza richiamata. Ma se la Repubblica è in conflitto in se stessa, sia come apparato che come ordinamento, viene meno la possibilità di adempiere ai propri compiti.

Ed è singolare che lo “Stato” finisca per essere una componente all’interno di quel contenitore, in un ordine che lo vede in posizione ultima rispetto ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane ed alle Regioni.

E’ ovvio come non fosse sufficiente rimettere in un certo ordine le varie autonomie per riformare in senso pluralista o federale lo Stato. Occorreva un disegno riformatore organico e funzionale alla esaltazione ed alla salvaguardia dell’unità dell’ordinamento statuale.

Ecco allora il nuovo e difficile compito affidato al Giudice Amministrativo della modernità, arbitrare i conflitti tra i protagonisti della Repubblica, ma garantire, al contempo, il pluralismo dei poteri decisionali.

Molteplici i conflitti giurisdizionali tra Regioni e Stato, tra Comuni e Province, tra Province, Comuni, Regioni e Stato, senza la partecipazione del cittadino.

Il tema  più attuale è, ad esempio, quello della realizzazione delle infrastrutture, degli impianti di interesse generale, degli insediamenti produttivi. Cioè di tutta quella ossatura che dovrebbe tonificare e modernizzare il Paese.

Occorre riconoscere che la legislazione in materia ha previsto rimedi di risoluzione delle controversie e delle rivendicazioni tra i vari livelli delle autonomie territoriali. Si pensi, ad esempio, alle opere strategiche di interesse nazionale, per le quali la composizione dei conflitti è disciplinata all’interno dell’ordinamento. E, tuttavia, il ricorso alla giustizia amministrativa appare quasi come un rimedio ineluttabile. Sicchè, anche e soprattutto in questa difficile composizione, il Giudice Amministrativo è chiamato, come recita la disposizione che investe la sua competenza, «a tener conto di tutti gli interessi che possono essere lesi», nonché «del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera».

Ancora una volta viene in soccorso la «specialità» del Giudice Amministrativo.

 

La «moviola» nel processo amministrativo

Nel giudizio amministrativo non esiste la moviola. Non esiste cioè la possibilità, come accade sovente nel giudizio civile e penale, di un riscontro obiettivo a posteriori della congruità di una decisione.

Questa impossibilità deriva in larga misura dai contenuti delle norme e degli istituti che regolano i rapporti di diritto pubblico, molto diversi dalla staticità e stratificazione delle norme civili e penali. Si tratta, molto spesso, di disposizioni a maglie larghe, che si fanno norma con l’applicazione e l’adattamento giurisprudenziale e che traggono origine da uno sforzo del legislatore di mediazione e di compromesso, poiché ineriscono sempre al contemperamento dei pluralismi interni, tra loro sovente confliggenti, ed al soddisfacimento di esigenze inderogabili, tra le quali quelle di natura economico finanziaria. Ed è condivisibile l’affermazione che il diritto giurisprudenziale non è più complementare, ma assume quella funzione ordinatrice che il legislatore non è più capace di svolgere, con un arretramento, quindi, del diritto legislativo ed un avanzamento del diritto giurisprudenziale (L. Torchia). Per altro verso, a rendere difficilmente applicabile il ricorso ad una ipotetica moviola, v’è la natura stessa della interpretazione giurisprudenziale di tipo pretorio, che il sistema attribuisce e riconosce al Giudice Amministrativo.

Significativa  la valutazione sull’eccesso di potere, che può cambiare da collegio a collegio, specie in relazione al principio di proporzionalità.

Si pensi al ruolo della tutela cautelare ed ai poteri che il codice affida al Giudice Amministrativo  nella scelta dei rimedi da adottare. Si tratta di un ruolo centrale nel processo amministrativo, «che spesso risolve proprio in quest’ultima la propria essenza». Questo ruolo, definito come il «centro di gravità» dell’azione processuale (S. Raimondi), è destinato ad aumentare in relazione all’espressa rilevanza riconosciuta dall’art. 30 del Codice al comportamento della parte lesa ai fini del risarcimento del danno, tale per cui il giudice «esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti» (M. A. Sandulli).

La centralità della tutela cautelare fa sì che essa possa addirittura definire la controversia senza che si pervenga necessariamente ad una decisione di merito, o, per altro verso, che si instauri nella fase cautelare quel dialogo con l’Amministrazione, tale da indurre la stessa a orientare l’attività discrezionale nella direzione indicata in un provvedimento cautelare atipico. Ed in questa direzione può assumere un rilievo particolare la tutela cautelare ante causam, con la possibilità quindi di un autonomo adeguamento conformativo dell’Amministrazione, senza, quindi, il successivo riscontro in termini di giudizio di merito.

Ma al di là di questo aspetto peculiare del giudizio amministrativo, vi sono i poteri ed i criteri di giudizio affidati al Giudice, le cui valutazioni, in termini di adeguatezza di motivazione del provvedimento, di corretto  esercizio della discrezionalità amministrativa, di proporzionalità dei rimedi e delle soluzioni nei conflitti intersoggettivi, della valutazione del requisito dell’urgenza, e così via, non facilmente soggiacciono ad un riscontro di conformità a parametri differenti da quelli adottati nel caso deciso.

A tutto ciò v’è da aggiungere i nuovi poteri che i riti speciali hanno conferito, in un quadro di compatibilità comunitaria, al Giudice del potere pubblico. In particolare, alle determinazioni tipicamente amministrative che il codice ha attribuito al Giudice per dichiarare in tutto o in parte l’inefficacia dei contratti nelle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, attraverso una valutazione di merito degli interessi economici da salvaguardare, in conformità con la pretesa della parte ricorrente. Poteri ancor più pregnanti nelle controversie relative alle infrastrutture strategiche, per le quali l’art. 125 del Codice esclude la caducazione del contratto già stipulato, ed impone al Giudice, in sede di pronuncia del provvedimento cautelare, di tener conto «delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi». Formulazione che obbliga il Giudice dei poteri pubblici a farsi carico di un onere motivazionale, ma che, come si può riscontrare nella più recente giurisprudenza, attribuisce a quel Giudice ampia potestà discrezionale, non suscettibile di verifica di congruità.

Anche per questo viene ad essere esaltata la «specialità» del Giudice Amministrativo, che si coniuga con la particolare responsabilità del Giudice dei poteri pubblici e con la sua sensibilità giuridica. Egli è chiamato a sciogliere i nodi intricati di una giustizia distributiva, effettiva e  non formale, finalizzata a ripristinare la legalità sostanziale dell’agire amministrativo, per garantire quella «buona amministrazione», che rappresenta la massima aspirazione del cittadino, e che, prima di essere codificato come un principio di diritto comunitario, è il postulato naturale dell’art. 97 della Carta Costituzionale.

Conclusivamente, se un rilievo può farsi al pur egregio, e per molti aspetti storico, lavoro svolto nella redazione del Codice del processo, è quello di aver coltivato la preoccupazione di un definitivo superamento della collocazione e qualificazione in termini riduttivi del giudice amministrativo come un giudice speciale, ai margini dell’ordinamento giurisdizionale. Sarebbe stato più producente ribaltare la questione, rivendicando e difendendo la «specialità» della giustizia amministrativa, nel senso illustrato della sua centralità, e secondo la definizione della Corte Costituzionale, come «Giudice naturale della funzione pubblica».

Si sarebbe forse superata la maliziosa obiezione dei processualcivilisti, secondo cui, il rinvio, ancorchè «esterno» alle norme del Codice di procedura civile implicherebbe «il riconoscimento della prevalenza della elaborazione teorica processualcivilistica» (G. Costantino). E l’ulteriore rilievo di una incapacità di adattamento del Codice del processo amministrativo. Rilievo al quale è agevole replicare, che, proprio per la sua «specialità» e la molteplicità dei suoi riti, il C.P.A. non è «un testo chiuso e compiuto», ma è l’espressione della modernità di un sistema, nel quale la codificazione è insieme ordine normativo e «punto di partenza» per futuri approdi giurisprudenziali (P. de Lise), funzionali all’effettività della tutela secondo le regole di appartenenza alla comunità, e per la convivenza civile.