Il contenzioso in materia di appalti: dal recepimento della Direttiva ricorsi al Codice del processo amministrativo (*)

 

di Roberto POLITI

Consigliere del TAR Lazio

 

Pubblicato sul Sito l’11 ottobre 2010

 

 

SOMMARIO

1.         Osservazioni introduttive

2.         I termini

3.         La fase cautelare

4.         La fissazione dell’udienza di merito

5.         Controversie suscettibili di definizione con rito abbreviato ai sensi del Titolo V del D.Lgs. 104/2010

6.         La pubblicazione del dispositivo

7.         La declaratoria di inefficacia del contratto

8.         L’applicazione delle sanzioni alternative

9.         La disciplina dell’accesso

10.       Tutela in forma specifica e per equivalente

11.       Le infrastrutture strategiche

12.       Conclusioni

 

 

 

1. Osservazioni introduttive

La direttiva 11 dicembre 2007 n. 66 (in G.U. del 14 febbraio 2008) ha, come è noto, apportato significativi interventi modificativi rispetto alle direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE, riguardanti le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, rispettivamente nei settori ordinari e nei settori speciali.

La data di scadenza del termine comunitario di recepimento, indicata all’art. 44 della legge 88/2009, al 20 dicembre 2009, è stata prorogata al 20 marzo 2010.

Il recepimento è intervenuto con Decreto Legislativo 20 marzo 2010 n. 53, pubblicato in G.U. del 12 aprile 2010 ed entrato in vigore, nel rispetto dell’ordinario termine di vacatio, il successivo 27 aprile.

Il 24 giugno 2010 – meno di due mesi dopo – è stato quindi approvato dal Consiglio dei Ministri, in via definitiva, il codice del processo amministrativo[1], con fissazione della relativa data di entrata in vigore al 16 settembre 2010.

Come osservato in sede di prima interpretazione al testo normativo da ultimo indicato[2], il Codice ha introdotto “alcune significative innovazioni anche alla disciplina di diritto interno riguardante il recepimento della “direttiva ricorsi” n. 66/2007” determinando, a far tempo dal 16 settembre 2010, una immutazione del regime giuridico del contenzioso.

Lo stesso commento sopra citato esclude che siffatta “ennesima alterazione del processo, per quanto possa giudicarsi nel complesso migliorativa” rappresenti, per gli operatori, “una buona notizia”; e rimette le rivenienti problematiche riguardanti i nuovi istituti e le “inevitabili” questioni di diritto intertemporale al “buon senso della giurisprudenza amministrativa”, nell’auspicio che possa mettersi “ordine in un regime transitorio diventato piuttosto complicato e stratificato, in carenza di indicazioni legislative espresse”.

L’accelerata stratificazione di testi normativi in materia processuale – senza che il sistema sia stato in grado di “metabolizzare” gli interventi modificativi assai sensibili introdotti dal Decreto di recepimento della Direttiva ricorsi – che accede alla sorprendente scelta di proporre in un arco temporale infrasemestrale un così radicale mutamento dell’assetto normativo previgente (consolidatosi in una vigenza largamente pluriennale) sia di carattere sostanziale, che – per quanto qui di interesse – processuale, propone, come è intuibile, l’esigenza di condurre una prima lettura (necessariamente indicativa), suscettibile di evidenziare opportunità e criticità operative che potranno orientare l’attività applicativa nella prima fase di vigenza della nuova disciplina.

Va senz’altro osservato, con valenza necessariamente prodromica rispetto alla ricognizione di taluni profili problematici indotti (dall’interpretazione prima che) dall’applicazione della nuova disciplina, come non tutte le disposizioni introdotte nel Codice appalti per effetto della Direttiva ricorsi siano refluite nel codice del processo amministrativo.

Se è vero che le ragioni di tale non pedissequa traslazione vanno, con ogni evidenza, individuate nella valenza sostanziale di talune delle modificazioni introdotte dal D.Lgs. 53/2010, è stato tuttavia osservato come “la forte interazione tra la disciplina sostanziale e la regolamentazione processuale evidenzia la difficoltà di individuare esattamente le norme destinate a confluire nel codice del processo amministrativo”[3].

Nel codice dei contratti sono infatti rimaste – oltre che le previsioni in materia di arbitrato (artt. 241 e seguenti), ancorché singolarmente, attesa l’alternativa rilevanza di tale strumento, rispetto al ricorso al procedimento giurisdizionale, al fine della risoluzione delle controversie (prova ne sia che la normativa sull’arbitrato è notoriamente contenuta nel codice di rito) – anche le norme concernenti:

-      l’informativa (preventiva) in ordine all'intento di proporre ricorso giurisdizionale (art. 243-bis);

-      la disciplina dell'accesso agli atti del procedimento in cui siano adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi dell’art. 79 del Codice appalti (comma 5-quater dello stesso art. 79);

-      le previsioni che collegano la sospensione del termine per la stipulazione del contratto (non soltanto al decorso di un termine dilatorio – standstill – decorrente dalla intervenuta comunicazione dell’aggiudicazione, ai sensi del comma 10 dell’art. 11 del Codice appalti, ma anche) alla proposizione di un ricorso avverso l'aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, (giusta quanto stabilito dal comma 10-ter dello stesso art. 11), sì che il contratto non può essere stipulato dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante fino al decorso del termine (o all’intervento della pronunzia) dalla previsione stessa indicati.

Non si ha modo di convenire circa la coerenza sistemica delle indicate ipotesi di esclusione dalla traslazione nel Codice processuale delle previsioni innestate nel Codice appalti dalla Direttiva ricorsi, in ragione dell’affermata “portata prevalentemente sostanziale delle disposizioni considerate”[4].

Se è vero “le scelte riguardanti la collocazione formale di talune norme di incerta portata possano in qualche misura condizionarne l’interpretazione”, è avviso dello scrivente che i riflessi sul regime della tutela indotti dalle previsioni normative da ultimo illustrate rimangano inalveati in un ambito meramente processuale.

Se tale considerazioni riceve diretta – e non controvertibile – conferma per quanto riguarda la previsione – sopra illustrata – del comma 10-ter dell’art. 11 del Codice appalti (trattandosi di disposizione che, quantunque impingente sulla stipulabilità del contratto, non può non trovare collocazione logico-funzionale nella disciplina della fase cautelare del procedimento giurisdizionale), a diverse considerazioni potrebbe, in ipotesi, pervenirsi relativamente alla regolamentazione del particolare “accesso” agli atti di gara (impregiudicata l’alternatività/convivenza con l’accesso “ordinario, in ordine alla quale si rinvia alle osservazioni che saranno infra rassegnate), nonché alla preventiva informativa in ordine alla futura sollecitazione del sindacato giurisdizionale.

È stato, infatti, osservato che “l’opzione di non trasportare nel codice del processo amministrativo l’istituto della comunicazione preventiva dell’intento di proporre ricorso risulta teoricamente corretta” in quanto “l’informativa deve precedere la proposizione del ricorso”, pur accentuandosi “quel collegamento con l’autotutela sostanziale, indicato già dalla legge delega n. 88/2009, … che, a ben vedere, non è affatto così evidente nella impostazione della direttiva n. 66/2007”[5].

Va tuttavia considerato come il pur rilevabile intreccio fra disposizioni di carattere sostanziale/procedimentale e di natura (invece) eminentemente processuale, offerto dalla lettura dell’art. 243-bis avrebbe, probabilmente, meritato una più accurata sistemazione.

Almeno la disposizione di cui al comma 6 dell’art. 243-bis Codice appalti (“Il provvedimento con cui si dispone il non luogo a provvedere, anche ai sensi dell'ultimo periodo del comma 4, non è impugnabile autonomamente e può essere contestato congiuntamente all'atto cui si riferisce o con motivi aggiunti al ricorso avverso quest'ultimo, da proporsi nel termine di quindici giorni”) rivela chiaro contenuto processuale: e, ad avviso dello scrivente, avrebbe meritato una più appropriata collocazione topografica all’interno del codice di rito, eventualmente mediante indicazione dei rimedi a fronte del diniego di esercizio dell’autotutela e rinvio, per la disciplina sostanziale dell’istituto (peraltro, non può omettere di osservarsi, di dubbia utilità pratica e probabilmente non omogeneo alle esigenze acceleratorie che appaiono pervadere la tempistica procedimentale), alle rimanenti disposizioni dello stesso art. 243-bis.

Per quanto concerne, poi, l’accesso agli atti di gara, risulta davvero incomprensibile – a fronte della trasmigrazione operata dalle previgenti disposizioni ex lege 241/1990 nell’art. 116 del Codice di rito – la persistente presenza nel Codice appalti del singolare istituto disciplinato dall’art. 79, comma 5-quater, del Codice appalti: e, impregiudicata la rilevanza ipoteticamente assunta da mere “dimenticanze” e/o sciatterie del Legislatore delegato, è auspicabile che una più corretta e coerente collocazione della previsione in discorso possa formare oggetto di implementazione, in parte qua, del Codice di rito.

La rilevanza (anche) processuale dell’istituto, segnatamente con riferimento alla problematica “convivenza” con l’accesso “ordinario”, impone tuttavia di dedicare talune riflessioni all’argomento, che troveranno compiuta esposizione infra, sub 9.

Se le brevi considerazioni precedentemente esposte univocamente depongono, nel quadro delle accennate asperità ermeneutiche ed applicative che assisteranno il concreto “decollo” del Codice processuale, per una necessaria sinotticità di lettura e per una complementare integrazione operativa dei due testi relativamente alla disciplina sostanziale/processuale in materia di pubbliche gare, va da sé che le osservazioni infra esposte non recano – né potrebbero, in alcun modo recare – pretese di esaustività espositiva e/o interpretativa, piuttosto collocandosi, nella ancora “fresca” lettura del D.Lgs. 104, in una pionieristica lettura commentativa, alla quale necessariamente accedono omissioni e/o imprecisioni delle quali l’estensore delle presenti riflessioni intende fin da ora scusarsi, confidando nella paziente – quanto indulgente – attenzione dei lettori.

Nell’escludere come al presente intervento possa accedere carattere di completezza e sistematicità, si intende – piuttosto – sollecitare l’attenzione su taluni profili di problematicità – talora trasmodanti in vera e propria “criticità” – la cui trattazione verrà separatamente considerata.

 

 

2. I termini

La disciplina dei termini processuali relativamente alle controversie originate dalle procedure di selezione è stata organicamente introdotta nel Codice appalti attraverso la riformulazione dell’art. 245 ad opera del D.Lgs. 53/2010.

2.1 Nell’osservare come l’attuale testo della citata disposizione contenga (come per le successive previsioni di legge concernenti la disciplina del contenzioso) un mero riferimento “dinamico” alle indicazioni all’uopo dettate dal (sopravvenuto) Codice di rito, va in primo luogo rilevato come il comma 2 dell’art. 245 recasse identico contenuto dispositivo rispetto al vigente dettato del comma 2 dell’art. 120 del D.Lgs. 104/2010; e disciplini l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la sollecitazione del sindacato giurisdizionale nel caso in cui sia mancata la pubblicazione del bando, assumendo in tal caso rilevanza la pubblicazione dell’avviso di aggiudicazione definitiva.

Tale evenienza – alla quale accede, per la parte interessata, l’inconoscibilità dell’intento dell’Amministrazione di procedere all’individuazione del privato contraente (e, con esso, l’avvio del complesso di atti a tal fine preordinati) – viene presidiata mediante individuazione di una duplicità di termini, in rapporto di necessaria subordinazione, atteso che:

-      o ha trovato pubblicazione l’avviso di aggiudicazione definitiva: ed allora l’impugnazione giurisdizionale andrà proposta nei trenta giorni successivi, a condizione, però, che tale avviso rechi la motivazione dell'atto con cui la stazione appaltante ha deciso di affidare il contratto senza previa pubblicazione del bando;

-      ovvero, nel caso in cui l’avviso di cui al precedente alinea sia stato omesso, ovvero non contenga la suindicata motivazione, o, ancora, le relative indicazioni non siano conformi alle prescrizioni contenute nello stesso comma 2, allora il Legislatore ha individuato un più comodo termine semestrale per l’attivazione del contenzioso in sede giurisdizionale, decorrente dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto[6].

Evidente è la finalità della norma di esercitare, nei confronti della Stazione appaltante, una sollecitazione compulsiva nel senso di indurre, nei confronti di quest’ultima, l’esatta (e tempestiva) osservanza degli adempimenti notiziali prescritti dagli artt. 65[7] e 225[8] del Codice appalti: pena, altrimenti, la “precarietà” degli esiti di gara in un arco temporale (semestrale) invero generosamente commisurato rispetto agli ordinari termini decadenziali che presidiano la sollecitazione del sindacato.

Risulta difficilmente comprensibile, peraltro, come possa essere individuata, in difetto della esplicitazione normativa della relativa conoscibilità, la decorrenza del termine di impugnazione nel caso in cui – essendo mancato l’avviso dell’aggiudicazione, ovvero essendo stato esso “irregolarmente” predisposto – l’impugnazione (come previsto dal riportato art. 120, comma 2) vada proposta dalla data di stipula del contratto.

È ben vero che l’art. 79, comma 5, del Codice appalti disciplina una serie di comunicazioni – che la Stazione appaltante deve effettuare d’ufficio – fra le quali è compresa anche la comunicazione dell’avvenuta stipulazione dello strumento negoziale[9].

Ma è altrettanto vero che le comunicazioni ex art. 79 hanno come destinatari soggetti (l'aggiudicatario; il concorrente che lo segua nella graduatoria, i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara; i soggetti la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni; i soggetti che hanno impugnato il bando o la lettera di invito) i quali, necessariamente, sono a conoscenza dell’esistenza di una procedura selettiva indetta dall’Amministrazione; e che, comunque, sono stati (avrebbero dovuto essere) informati anche dell’aggiudicazione necessariamente precedente la stipula.

Ed allora, nel caso in cui venga in considerazione la presenza di parti che versino in stato di ignoranza rispetto alla stessa indizione (ed al conseguenziale svolgimento) della procedura (per la quale, come previsto dal comma 2 dell’art. 120, sia mancata la pubblicità del bando), in assenza di alcuna modalità di partecipazione notiziale erga omnes in ordine all’avvenuta stipula del contratto, la decorrenza del termine semestrale soffre di una problematica individuabilità: ponendosi derivativamente a carico della parte interessata l’acquisizione di elementi conoscitivi in ordine al perfezionamento dell’atto negoziale.

Se tale sistematica, invero, non pone in linea di principio particolari profili di criticità – il termine semestrale de quo ponendosi, con ogni evidenza, quale elemento di “chiusura” del sistema (e della connessa tempistica) di sollecitazione del sindacato giurisdizionale, allora – probabilmente – sarebbe stata più corretta (ai fini di garantire pienezza di tutela ai soggetti pretermessi dal novero di quelli destinatari delle comunicazioni previste dalla legge) una soluzione che avesse ancorato la decorrenza del termine semestrale in discorso:

-      non già al momento di stipulazione del contratto (difficilmente conoscibile per chi sia rimasto affatto “estraneo” alla procedura e non abbia di essa ricevuto alcuna notizia);

-      ma al momento in cui la parte stessa avesse acquisito, comunque, “conoscenza” della stipulazione medesima (ponendosi, necessariamente, a carico del soggetto interessato l’onere di dimostrare non soltanto siffatta acquisita cognizione, ma anche le circostanze che ad essa abbiano dato luogo).

Quanto sopra posto, risulta in ogni caso logicamente problematico coniugare – tenuto presente che, alla stregua del tenore della norma, l’interesse per la proposizione del ricorso fa capo ad un soggetto che non abbia avuto conoscenza dell’indizione della gara e, conseguentemente, dei relativi esiti – la configurazione di un termine (per proporre ricorso) pari a trenta giorni e decorrente dalla pubblicazione dell’aggiudicazione, ovvero commisurato a sei mesi e decorrente (nel caso in cui quest’ultima sia mancata o non sia stata correttamente eseguita) dalla stipula del contratto[10].

Gli effetti di “precarizzazione” della stabilità del rapporto – incidenti, oltre che sulla posizione dell’Amministrazione, anche (se non soprattutto) sulla posizione giuridica facente capo all’aggiudicatario/contraente – avrebbero potuto suggerire di conferire omogenee modalità conoscitive sia alla determinazione di aggiudicazione che al successivo perfezionamento dello strumento negoziale; e, conseguentemente, di individuare in un arco temporale parimenti commisurato a trenta giorni la reclamabilità dinanzi alla competente Autorità giudiziaria, stabilendone la relativa decorrenza dal perfezionamento degli adempimenti comunicativi prescritti dalle previsioni in precedenza indicate.

È quindi auspicio che possa, in sede di interventi “correttivi” sul testo del D.Lgs. 104, pervenirsi ad una rimeditazione in ordine all’opportunità della previsione di un così ampio termine di ricorso, la cui configurazione rivela elementi di insuperabile dissonanza rispetto alla complessiva architettura del sistema: che, individuando una tempistica particolarmente “contratta” non soltanto per la sollecitazione del sindacato giurisdizionale, ma anche per la definizione del contenzioso, è evidentemente ispirata alla finalità di conferire necessaria (quanto sollecita) “stabilità” a(gli esiti de)lle gare in un orizzonte temporale particolarmente “contenuto”.

2.2 Viene poi in considerazione, all’interno della individuazione normativa della scansione dei termini processuali, la problematica transizione dalle disposizioni introdotte nel Codice appalti per effetto delle modificazioni ad esso apportate dal D.Lgs. 53/2010 nel Codice di rito successivamente entrato in vigore.

Una più agevole comprensione della problematica impone di rilevare, preliminarmente, come l’art. 245 del D.Lgs. 163/2006:

-      premesso il rinvio, per le parti non disciplinate dall’articolo stesso, alle disposizioni di cui all’art. 23-bis della legge 1034/1971 (comma 2-bis; che trova elementi di corrispondenza nella previsione di cui al comma 3 dell’art. 120 del D.Lgs. 104/2010, il cui omogeneo rinvio è alle prescrizioni dettate dal precedente art. 119);

-      recasse un’articolata individuazione dei termini processuali, compiutamente declinata dal comma 2-quinqiues[11].

Nella traslazione della disposizione nel Codice di rito, qualche elemento è stato, purtroppo, smarrito per strada.

L’art. 120, comma 5[12], infatti, nel ribadire la sussistenza di un ordinario termine di 30 giorni per l’impugnazione e per i motivi aggiunti, ha omesso di disciplinare analogamente la tempistica per la proposizione del ricorso incidentale.

Tale strumento di tutela, quindi, si trova in atto assoggettato al più lungo termine di sessanta giorni, in quanto proprio il rinvio come sopra operato alle disposizioni dell’art. 119 impone di dare atto dell’applicabilità della previsione dettata al comma 2 dell’articolo da ultimo citato, alla stregua della quale “tutti i termini processuali ordinari sono dimezzati salvo, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti, nonché quelli di cui all’articolo 62, comma 1, e quelli espressamente disciplinati nel presente articolo”.

Viene, quindi, ad evidenziarsi una irragionevole discrasia nella tempistica preordinata alla sollecitazione della tutela giurisdizionale, atteso che:

-      mentre il ricorrente principale avrà a disposizione, sia per il ricorso introduttivo del giudizio, che per i motivi aggiunti successivamente proposti, un termine di giorni trenta;

-      diversamente, il ricorrente incidentale potrà avvalersi del più comodo termine di sessanta giorni;

nulla precisandosi con riferimento al termine per la proposizione di motivi aggiunti ad opera dello stesso ricorrente incidentale, per il quale potrebbe valere:

-      o lo stesso termine di sessanta giorni, per esigenze di coerenza logica con l’arco temporale previsto per la proposizione del ricorso incidentale, alla stregua della divisata necessaria operatività del comma 2 dell’art. 119;

-      ovvero, un termine di trenta giorni, atteso che la formulazione del comma 2 dell’art. 120, laddove assoggetta ad un termine di giorni trenta la proponibilità dei motivi aggiunti, non reca alcuna specificazione in ordine al soggetto che si sia inteso avvalere di tale strumento di tutela (potendo riferirsi esso sia al ricorrente principale, che a quello incidentale).

È evidente – ed in tal senso depongono anche i primi commenti al Codice di rito[13] – che l’anomalia sopra evidenziata necessiti di un sollecito intervento correttivo.

2.3 Quanto ai motivi aggiunti, la traslazione operata dall’originaria disposizione di cui all’art. 245 Codice appalti al combinato disposto degli artt. 119 e 120 del Codice di rito, ha determinato la soppressione del termine (invero breve) di quindici giorni stabilito dal D.Lgs. 53/2010 per la proposizione di nuovi argomenti di censura avverso gli atti già oggetto di impugnazione in via principale.

Come precedentemente osservato, l’art. 245:

-      se prevedeva un termine di giorni trenta “per la notificazione del ricorso e per la proposizione di motivi aggiunti avverso atti diversi da quelli già impugnati”

-      fissava, invece, in quindici giorni il termine “per la proposizione dei motivi aggiunti avverso gli atti già impugnati”.

Tale distinzione è adesso sparita, di tal guisa che la formulazione dell’art. 120 del Codice del processo prevede che “per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni”: dovendosi, con ogni evidenza, intendere che il termine in questione trovi applicazione sia per le censure rivolte avverso determinazioni già gravate in via principale, che per quelle proposte nei confronti di atto per la prima volta sottoposti a sindacato.

L’omogeneità del termine (abbreviato nei giudizi in materia di appalti) disciplinante sia la proposizione del ricorso principale che dei motivi aggiunti trova elementi di significativa corrispondenza nei contenuti della decisione assunta il 15 aprile 2010 dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 2155), laddove si enunciava (sia pure con riferimento al previgente quadro normativo) che “alla notifica dei motivi aggiunti, sia se proposti avverso atti nuovi che avverso lo stesso provvedimento censurato con l'atto introduttivo del giudizio, non si applica la dimidiazione dei termini prevista dall'art. 23-bis, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, ravvisandosi anche in queste ipotesi la necessità di garantire il pieno esercizio del diritto costituzionalmente garantito di difesa, che sarebbe eccessivamente compresso per effetto dell'abbreviazione anche del termine de quo, e a nulla rilevando che il ricorrente ha già conferito il mandato a un difensore”.

La stessa ratio, in un’ottica di estensione applicativa degli enunciati principi, impone di restituire omogeneità alla disciplina dei termini per la proposizione di tutti i previsti mezzi di tutela: confermando, quindi, la rappresentata esigenza di emendare la “dimenticanza” sostanziata dalla mancata previsione del dimidiamento del termine per la formulazione del ricorso incidentale e di precisare, ove possibile, che i motivi aggiunti dalla norma contemplati (ed assoggettati, condivisibilmente, ad un termine di trenta giorni) concerne anche l’esercizio di tale forma di tutela ad opera del ricorrente incidentale.

Va inoltre doverosamente segnalato come l’individuazione dei motivi aggiunti quale strumento elettivamente deputato ad assolvere la funzione di agevolare l’unitaria concentrazione in un’unica sede processuale di tutte contestazioni suscettibili di essere portate all’attenzione dell’organo di giustizia – espressamente sancita dal comma 7 dell’art. 120[14] – trovi elementi di conferma nella previsione dettata dal comma 6 dell’art. 243-bis del Codice appalti, laddove viene espressamente enunciato che, a fronte dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale, “il provvedimento con cui si dispone il non luogo a provvedere, anche ai sensi dell'ultimo periodo del comma 4, non è impugnabile autonomamente e può essere contestato congiuntamente all'atto cui si riferisce o con motivi aggiunti al ricorso avverso quest'ultimo, da proporsi nel termine di quindici giorni”.

Nondimeno, l’evidente favor legis per la concentrazione delle censure (comunque afferenti ad una medesima procedura di gara) in un medesimo contesto processuale non può essere intesa quale preclusione alla proposizione di distinti mezzi di tutela; e, men che meno, quale elemento determinante inammissibilità per quelle doglianze non veicolate dai motivi aggiunti[15].

 

 

3. La fase cautelare

Nell’affrontare le problematiche connesse allo svolgimento della fase cautelare, non può pretermettersi la necessaria considerazione per gli effetti rivenienti dalla proposizione della domanda di sospensione dell’esecuzione degli atti per i quali sia sollecitata la tutela giurisdizionale sul perfezionamento dell’iter procedimentale; e, segnatamente, sulla stipulazione del contratto accessivo all’intervenuta aggiudicazione.

Se pure la disciplina sostanziale del cd. “stand-still” esorbita dall’ambito di interesse della presente trattazione, impingendo esso sulla crono-attuazione dell’iter preordinato all’affidamento contrattuale, deve in argomento rinviarsi alle disposizioni dettate ai commi da 10 a 10-ter dell’art. 11 del Codice dei contratti (che sostituiscono l’originario comma 10 ai sensi di quanto disposto dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 20 marzo 2010, n. 53).

In particolare – e per quanto di interesse nella presente sede – va rilevato come il comma 10-ter (modificato dalla lettera a) del comma 19 dell’art. 3 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, a decorrere dal 16 settembre 2010, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2 dello stesso provvedimento) preveda che “se è proposto ricorso avverso l'aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L'effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell'articolo 14, comma 4, del codice del processo amministrativo, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l'esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare”.

Dalla lettura della disposizione da ultimo riportata è agevole desumere che, per effetto della proposizione del ricorso avverso l’aggiudicazione, alla quale acceda la formulazione di istanza cautelare, “automaticamente” consegue un effetto sospensivo in ordine alla possibilità di stipulare il contratto[16].

Se, come osservato, siffatto “effetto sospensivo automatico” rende “sostanzialmente inutile, per il ricorrente, la tutela cautelare ante causam e quella con decreto presidenziale”[17], la perdurante rilevanza di tale istituto potrebbe venire in considerazione nelle seguenti ipotesi:

-      impugnazione di atti diversi dall’aggiudicazione definitiva, con riveniente inoperatività della suindicata sospensione ex lege;

-      esecuzione d’urgenza in difetto di preventiva stipulazione del contratto;

-      deroghe allo “stand-still” delle quali si sia avvalsa la Stazione appaltante ai sensi del comma 10-bis dell’art. 11 del Codice dei contratti[18].

Ciò osservato, la disciplina temporale della sospensione ex lege della stipulabità del contratto contempla che gli effetti “paralizzanti” coprano un arco temporale commisurato a giorni venti, decorrente dalla notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante[19] “a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva”.

La cessazione dell’effetto “sospensivo ex lege” – e quindi, la reviviscenza della quiescente potestà di addivenire alla stipula dello strumento negoziale – coincide:

-      con la declaratoria di incompetenza, resa dall’adito organo di giustizia in sede di esame della domanda cautelare, ai sensi dell'articolo 14, comma 4, del Codice processuale;

-      con la fissazione, con ordinanza, della data di discussione del merito senza che vengano, interinalmente, concesse misure cautelari;

-      con il rinvio al merito dell'esame della domanda cautelare, previo assenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare”;

oltre che, ovviamente – quantunque in assenza di specifica indicazione legislativa, peraltro superflua – a seguito della reiezione della domanda di sospensione degli effetti dell’aggiudicazione.

Sotto altro profilo, merita attenzione la previsione di cui al comma 8 dell’art. 120, secondo la quale è fatto obbligo di rendere la pronunzia sull’istanza cautelare, anche laddove vengano disposti incombenti istruttori, ovvero vengano concessi termini a difesa (eventualmente, sollecitati da una delle parti anche a fini di studio della documentazione depositata dalla controparte, ovvero per la predisposizione di scritti difensivi, ovvero, ancora, per la proposizione di motivi aggiunti).

Se è vero che il comma 8 si limita a precisare la necessità per il giudice di decidere comunque sull’istanza cautelare, pur nell’ipotesi in cui disponga adempimenti istruttori o rilevi la pendenza di incidenti processuali, è stato in proposito osservato che “tale generica disciplina pone il problema – di non facile soluzione - del rinvio generale e residuale all’articolo 119 oltre che alle regole generali di cui all’articolo 55; mentre, “per un altro verso tale disposto ha il pregio di superare quel complesso meccanismo di termini dettati dal primo e dal secondo periodo del comma 2-duodecies dell’articolo 8 del Dlgs 53/2010”[20].

La disposizione è stata ritenuta di “dubbia utilità … perché, in sede cautelare, il giudice ha sempre l’obbligo di assicurare la tutela alla parte istante, se ravvisa sufficienti elementi di fumus o di periculum”[21].

L’interrogativo che è lecito porsi, a fronte dell’illustrato disposto del comma 8, è se residuino perduranti spazi di operatività per le pronunzie cautelari implicite (ovviamente, di segno negativo).

Ad onta del tenore letterale della norma (“Il giudice decide interinalmente sulla domanda cautelare, anche se ordina adempimenti istruttori, se concede termini a difesa, o se solleva o vengono proposti incidenti processuali”) ben potrebbe ritenersi che l’eventuale decisione interlocutoria, quand’anche non rechi un’espressa determinazione in ordine alla (pur) sollecitata cautela, nondimeno non si ponga in contrasto con la previsione di legge in rassegna, atteso che l’omessa pronunzia trova univoca chiave interpretativa nel diniego di cautela.

E, come condivisibilmente osservato dal predetto Autore, “la decisione interlocutoria “pura” si sostanzia, in ultima analisi, in un provvedimento negativo, come tale censurabile dalla parte che non ha ancora ottenuto l’invocata misura cautelare”: non rilevando, “in questo ambito, il principio della non impugnabilità delle decisioni meramente ordinatorie” in presenza della immanente “criticabilità del diniego, implicito, di tutela cautelare”.

Non ci si può esimere dall’osservare come un ruolo significativo verrà inevitabilmente rimesso alla prassi applicativa, il cui concreto atteggiarsi non potrà prescindere dall’atteggiamento processuale delle parti e, con esso, dalle determinazioni che sarà chiamato ad assumere l’organo di giustizia.

Ferma l’impugnabilità della pronunzia (meramente interlocutoria e/o ordinatoria litis) che non rechi statuizione alcuna in ordine alla sollecitata adozione di misure cautelari, nel caso in cui l’accessivo rinvio dell’ulteriore trattazione della controversia si collochi al termine di un arco temporale significativamente espanso, potrà infatti venire in considerazione l’opportunità che il giudice si pronunci – comunque e sempre – sull’istanza, anche attraverso l’adozione di sospensive tecniche o a termine (laddove, ovviamente, non intervengano “accordi” fra le parti in ordine alla interinale inesecuzione del provvedimento gravato: ipotesi questa, che l’esperienza dimostra di non sempre agevole praticabilità e la cui osservanza, in difetto di garanzie a presidio, può dar luogo a diversificate vicissitudini).

 

 

4. La fissazione dell’udienza di merito

Nell’osservare come il comma 3 dell’art. 120 preveda che “salvo quanto previsto dal presente articolo e dai successivi, si applica l'articolo 119”, va in primo luogo rilevato che il comma 3 della disposizione da ultimo citata stabilisce che “il tribunale amministrativo regionale chiamato a pronunciare sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero disposta l'integrazione dello stesso, se ritiene, a un primo sommario esame, la sussistenza di profili di fondatezza del ricorso e di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza”.

Diversamente, il previgente testo dell’art. 23-bis legge 1034/1971 prevedeva che la fissazione del merito fosse veicolata dalla valutazione, ad un primo esame, volta ad evidenziare l'illegittimità dell'atto impugnato.

La difformità lessicale emergente dal raffronto sinottico delle disposizioni sopra riportate non dovrebbe dar luogo a particolari problemi ermeneutici, ove il pur diverso approccio sintattico del Legislatore delegato venga inteso in chiave affatto omogenea rispetto alla previgente versione dell’art. 23-bis.

Tuttavia, il riscontro della “sussistenza di profili di fondatezza del ricorso” potrebbe diversamente atteggiarsi rispetto al riscontro della “illegittimità dell’atto impugnato”, laddove si consideri che:

-      mentre nel primo caso il giudizio prognostico dovrebbe necessariamente orientarsi sull’accoglibilità del gravame, sì da imporre la percorrenza dell’iter contrassegnato dalla fissazione entro trenta giorni del merito;

-      altrimenti, alla riscontrabile illegittimità dell’atto impugnato non sempre (e necessariamente) accede l’accoglimento del ricorso, nel caso in cui – ad esempio – venga proposta impugnativa incidentale, parimenti fondata, sì che anche la fondatezza del ricorso principale non consentirebbe alla parte che l’abbia proposto di conseguire la realizzazione dell’interesse sostanziale del quale è portatrice.

In ogni caso, appare preferibile – nel chiaro tenore letterale della norma (ora) applicabile – ritenere che la fissazione dell’udienza a trenta giorni rivesta carattere di obbligatorietà in tutti i casi in cui la valutazione prognostica in sede cautelare consenta l’apprezzamento della fondatezza del gravame: con l’accortezza che, nel caso in cui vengano incidentalmente proposti ulteriori mezzi di tutela, siffatta valutazione si estenda anche alla disamina delle ragioni di (eventuale) fondatezza di questi ultimi, onde scongiurare una fissazione “a breve” la cui pratica “inutilità” potrebbe essere rivelata dall’accoglimento di un’impugnativa incidentale già conosciuta (o conoscibile) dal giudice al momento della delibazione dell’istanza cautelare.

La stessa fissazione a trenta giorni riveste omogeneo carattere di obbligatorietà nel caso in cui la pronunzia cautelare di rigetto venga riformata in appello, con decorrenza del termine de quo dalla data di ricevimento della relativa ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale, in capo alla quale il comma 3, ultima parte, dell’art. 119, pone l’obbligo di darne avviso alle parti.

Il medesimo comma 3 ha poi soggiunto, innovando le precedenti disposizioni in materia ex art. 23-bis, che nel caso di fissazione dell’udienza di merito, come sopra preceduta dalla delibazione in ordine alla sussistenza di profili di fondatezza del mezzo di tutela, va disposto “il deposito dei documenti necessari e l'acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti”.

Disposizione, questa, evidentemente acceleratoria, al fine di scongiurare che l’eventuale incompletezza del quadro probatorio determini, all’atto della celebrazione dell’udienza di merito come sopra fissata, un ulteriore differimento della trattazione della controversia.

Nel caso di inosservanza dell’obbligo di disporre incombenti con la medesima ordinanza con la quale sia stata fissata l’udienza a trenta giorni, così come nel caso in cui sopravvengano esigenze istruttorie evidenziate medio tempore dalle parti del giudizio, ben potrà procedersi – sia pure nella ristrettezza dell’arco temporale mensile intercorrente fino alla discussione del merito – a mezzo di provvedimento presidenziale, ai sensi del comma 1 dell’art. 64 del Codice di rito[22].

Va inoltre sottolineato come la fissazione a trenta giorni ai sensi del comma 3 dell’art. 119 non postuli necessariamente la contestuale adozione di provvedimento cautelare.

In tal senso, il comma 5 dello stesso art. 119 stabilisce che “con l'ordinanza di cui al comma 3, in caso di estrema gravità ed urgenza, il tribunale amministrativo regionale o il Consiglio di Stato possono disporre le opportune misure cautelari. Al procedimento cautelare si applicano le disposizioni del Titolo II del Libro II, in quanto non derogate dal presente articolo”.

Ferma la “qualificazione” della gravità ed urgenza del provvedere nel senso indicato dal Legislatore delegato (il carattere “estremo” del pregiudizio connotando la relativa esigenza in maniera evidentemente più accentuata rispetto all’ordinaria preordinazione finalistica del provvedimento cautelare, sì da far ritenere che l’omissione della sospensione dell’esecuzione dell’atto possa condurre ad una non reversibile perdita della conseguibilità dell’utilità giuridica la cui realizzazione consente il pieno soddisfacimento dell’interesse fatto valere in giudizio), la norma – pur disciplinando l’adozione della misura cautelare nello stesso atto con il quale viene fissato il merito – non appare precludere una successiva adottabilità della misura stessa, laddove i presupposti come sopra indicati insorgano medio tempore fra l’adozione del provvedimento recante l’indicazione della data di fissazione dell’udienza di merito e quest’ultima.

Evenienza, questa, niente affatto improbabile ove si tenga presente che l’esigenza cautelare – si ribadisce, connotata da carattere di “estrema” gravità – ben potrebbe manifestarsi nelle more della trattazione del merito: sì da consentire, previa (ovviamente) la sollecitazione della parte interessata:

-      l’adozione del provvedimento cautelare nella opportuna sede collegiale, ove la fissazione di un’udienza camerale sia temporalmente collocata in maniera “opportuna”, sì da scongiurare il manifestarsi di un pregiudizio altrimenti irreversibile;

-      ovvero, la somministrazione della misura cautelare stessa con provvedimento monocratico inaudita altera parte, ai sensi dell’art. 56 del Codice[23].

Nel caso in cui il comma 3 dell’art. 119 non trovi applicazione in ragione della carenza degli illustrati presupposti funzionali alla fissazione del merito nei tempi ivi indicati, possono venirsi a delineare due distinte evenienze:

-      la prima, che il giudizio venga immediatamente definito ai sensi del precedente art. 60[24];

-      la seconda, che, in base a quanto disposto dal comma 6 dell’art. 120 – operante nella subordinata ipotesi in cui il giudizio non sia immediatamente definibile ai sensi dell'articolo 60 – “l'udienza di merito, ove non indicata dal collegio ai sensi dell'articolo 119, comma 3” venga “immediatamente fissata d'ufficio con assoluta priorità”.

Un ipotizzabile gerarchia fra le suindicate modalità di definizione nel merito del ricorso consente dunque di individuare, in ordine decrescente di priorità applicativa, i seguenti percorsi processuali:

-      in primo luogo, immediata definizione della controversia in sede di trattazione dell’istanza cautelare, ai sensi dell’art. 60 del Codice (al ricorrere, ovviamente, delle circostanze e/o dei presupposti da tale disposizione indicati);

-      subordinatamente, fissazione del merito a trenta giorni, ai sensi del comma 3 dell’art. 119, purchè – nel rispetto delle indicazioni dettate dalla disposizione – il ricorso evidenzi la sussistenza di profili di fondatezza e manifesti, altresì, la presenza di un pregiudizio grave e irreparabile;

-      da ultimo fissazione d’ufficio “con assoluta priorità” ai sensi del comma 6 dell’art. 120.

L’“assoluta priorità” di cui sopra viene ad attenuare, significativamente, la rigidità del termine introdotta dal D.Lgs. 53/2010 nel testo del Codice dei contratti[25].

Pur nel dare atto della ritenuta “ordinatorietà” del previgente termine di sessanta giorni[26], deve convenirsi in ordine alla significativa attenuazione introdotta dal Codice processuale rispetto alla “super-accelerazione” del rito dei contratti pubblici, voluta dal Decreto 53/2010.

Nel rimarcare le problematiche indotte dalla delicata applicazione intertemporale dei due diversi testi normativi (si pensi ai ricorsi fissati nei sessanta giorni ai sensi dell’art. 245 ed alle impugnative la cui trattazione, sotto il vigore del sopravvenuto codice di rito, dovrà essere inevitabilmente postergata, in ragione del “riempimento” dei ruoli d’udienza determinatosi per effetto della necessaria applicazione di una disposizione che, in esito ad una operatività quadrimensile, non è più in vigore), può senz’altro convenirsi con l’opinione del Lipari circa l’esigenza che, sia pure in difetto di “sanzioni espresse”, sia comunque necessario “dare certezza immediata della calendarizzazione dell’udienza di merito”.

Così come la coniugazione dell’obbligatorietà di tale adempimento con le pure operanti previsioni in ordine al “carico” suscettibile di essere portato in trattazione nell’udienza di merito imporrà di valutare sì “la necessaria preferenza che andrà accordata alla trattazione di tali giudizi, ma sempre nei limiti delle disponibilità dei ruoli di udienza”[27].

Un’ipotizzabile linea operativa volta a determinare auspicabili margini di compatibilità fra l’esigenza di “assoluta priorità” della fissazione dei ricorsi in materia di contratti della P.A. e fissazione del rimanente contenzioso, ferma l’opportunità di “un esplicito richiamo alle controverse previste dall’articolo 120” da inserire nel testo dell’art. 8 sopra citato (come pure suggerito dallo stesso Autore) potrebbe essere individuata nell’introduzione di una separata evidenza – eventualmente da affidare al sistema informatico – per le categorie di controversie ex art. 120, volta a consentire un aggiornato “monitoraggio” delle cause suscettibili di fruire della agevolata corsia di fissazione e, con esso, un documentato supporto preordinato alla formazione dei ruoli d’udienza.

 

 

5. Controversie suscettibili di definizione con rito abbreviato ai sensi del Titolo V del D.Lgs. 104/2010

Il comma 3 dell’art. 120 stabilisce che “Salvo quanto previsto dal presente articolo e dai successivi, si applica l’articolo 119”.

La formulazione utilizzata dall’articolo 120 è omogenea a quanto stabilito dal previgente art. 245, comma 2-bis, del Codice dei contratti, laddove si prevedeva che “Salvo quanto previsto dal presente articolo e dagli articoli seguenti si applica l'articolo 23-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034”.

È saltato il riferimento, contenuto nel comma 1 dell’art. 245, alla delimitazione degli atti oggetto di impugnativa ed assoggettati al regime di tutela che, già disciplinato dallo stesso art. 245, è (ora) refluito nell’art. 120 del Codice processuale.

Infatti, il testo del comma 1 dell’art. 245 stabiliva che “Gli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a lavori, servizi o forniture, di cui all'articolo 244, nonché i connessi provvedimenti dell'Autorità, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente”.

Diversamente, il comma 1 dell’art. 120 non reca alcun riferimento all’art. 244 del Codice dei contratti, limitandosi a prevedere che “Gli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i connessi provvedimenti dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente”.

Nel rammentare come l’articolo 244, comma 1, del Codice dei contratti:

-      demandi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale”

-      ed ulteriormente stabilisca che “La giurisdizione esclusiva si estende alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione e alle sanzioni alternative”

va osservato come tale apparato enunciativo – abbandonando l’originaria collocazione nell’ambito delle norme riguardanti il “rito abbreviato” – sia invece transitato nella disposizione del Codice di rito riguardante l’estensione della giurisdizione esclusiva rimessa al giudice amministrativo.

L’art. 133, comma 1, lettera e), numero 1), del codice del processo, infatti, devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge, le controversie:

1)      relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi[28], forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative;

2)      relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nonché quelle relative ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’articolo 133, commi 3 e 4, dello stesso decreto.

Come condivisibilmente osservato da Lipari, il mancato richiamo, da parte dell’art. 120 del Codice di rito, alle disposizione del successivo art. 133, comma 1, lett. e), n. 1 (diversamente dal richiamo che l’art. 245, comma 1, del Codice appalti aveva operato al precedente art. 244) propone “un raggio di azione diverso da quello dell’articolo 245 del codice dei contratti:

a)      più ampio, nella parte in cui fa riferimento alle procedure contrattuali, senza enunciare il nesso con la normativa di evidenza pubblica;

b)      più ristretto, nella parte in cui non contempla il riferimento alle controversie riguardanti la scelta del socio[29];

c)      più ristretto, nella parte in cui non considera espressamente le controversie risarcitorie, nonché quelle riguardanti l’inefficacia del contratto e l’applicazione delle sanzioni alternative;”

ulteriormente venendo in considerazione, in ragione del mancato rinvio all’art. 133 stesso, la questione concernente la giurisdizione esclusiva relativamente alle controversie relative alle procedure svolte dai soggetti non aventi veste formale di “Amministrazioni pubbliche”, ma nondimeno tenuti all’applicazione della normativa pubblicistica.

Appare opportuno sottolineare l’opportunità (esigenza?) che, nel quadro degli interventi “correttivi” che seguiranno la “prima” emanazione del Codice di rito, il rinvio all’enunciata disposizione dell’art. 133 del Codice stesso trovi compiuta esplicitazione.

Se diverse sono le ipotesi che possono formularsi con riferimento ad una così singolare dislocazione delle disposizioni sulla giurisdizione (enucleate dalla disciplina riguardante il rito abbreviato di cui al Titolo V del Libro IV “Ottemperanza e riti speciali” e contenute, senza alcun rinvio, nella normativa di carattere generale del Libro V “Norme finali”)[30], nel mettere un minimo di ordine in un quadro normativo – quale quello proposto dalla vigente disposizione codicistica di rito – va innanzi tutto escluso che la mancata indicazione delle procedure di evidenza pubblica si rivela, nel quadro del mancato coordinamento conseguente all’omissione di alcun rinvio dall’art. 120 all’art. 133, di rilevante tenuità ed offre i minori problemi interpretativi: atteso che, laddove difetti una disciplina di scelta e/o selezione del contraente di carattere pubblicistico, viene meno, in nuce, la stessa giurisdizione amministrativa, risolvendosi la relativa attività in un quadro interamente civilistico insensibile a problematiche di ripartizione giurisdizionale.

Se è, quindi, logicamente inipotizzabile che l’art. 120 possa rivelare un’ampliata latitudine applicativa, in parte qua, rispetto a quella rinvenibile nell’art. 245 del Codice dei contratti, più alte asperità ermeneutiche sono, invece, proposte, dalla mancanza di un esplicito rinvio, nel quadro delle controversie suscettibili di essere definite con rito abbreviato, al contenzioso riguardante:

-      il risarcimento del danno;

-      l’inefficacia del contratto

-      le sanzioni alternative.

Secondo Lipari, “la scelta dell’esclusione delle controversie riguardanti … la domanda di risarcimento del danno (per equivalente) potrebbe essere ragionevole, perché in tali controversie non emergerebbe l’esigenza di accelerazione tipica dei giudizi impugnatori”[31] [32].

Per lo stesso Autore, comunque, si rivela “difficilmente giustificabile “la scelta codicistica di escludere il riferimento alle controversie in materia di inefficacia del contratto”.

E se dalla lettura degli artt. 121 e 122 è desumibile la conclusione secondo cui la domanda di inefficacia del contratto è suscettibile di delibazione all’interno del giudizio avente come oggetto principale l’impugnazione dell’aggiudicazione[33], potrebbe allora venire in considerazione l’applicazione della “regola” dettata dall’art. 32, comma 1, del Codice di rito, secondo la quale “se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dai Capi I e II del Titolo V del Libro IV”: con conseguente attrazione (anche) delle controversie riguardanti l’inefficacia del contratto nell’ambito applicativo del rito “speciale” di cui all’art. 120 in rassegna, atteso che il rinvio compiuto dall’art. 32 riguarda “l’intera disciplina processuale degli articoli 119-126, considerata nella sua integrità”.

Anche le disposizioni relative all’inefficacia del contratto vanno, dunque, riferite al (e vengono, conseguentemente, “attratte” dal) rito “speciale”, in quanto tale suscettibile di definizione accelerata.

Se tale conclusione, sulla quale si concentra anche l’opinione di Lipari[34], appare obbligata e, tutto sommato, logicamente sostenibile in ragione dell’esigenza di unitaria trattazione delle controversie che, pur avendo quale oggetto “principale” l’annullamento dell’aggiudicazione, ex lege “attraggono” anche le questioni inerenti la sorte (inefficacia) del contratto, più attenuati – se non sfuggenti – profili di coerenza logica e di funzionalità processuale assistono l’omogenea sussumibilità nel rito speciale – mercè il già illustrato rinvio operato dall’art. 32 del Codice – delle controversie afferenti l’applicazione di misure sanzionatorie da parte del Giudice amministrativo, giusta la previsione di cui all’art. 123[35].

Se è infatti vero che, alla stregua di quanto previsto al comma 2 dello stesso articolo da ultimo citato, “Il giudice amministrativo applica le sanzioni assicurando il rispetto del principio del contraddittorio”, proprio tale esigenza potrebbe rivelarsi incompatibile con l’accelerata tempistica del rito “breve” disciplinato dagli artt. 119 e seguenti del Codice.

Con riserva di una più approfondita disamina relativamente al potere sanzionatorio dalla disposizione di cui sopra conferito al Giudice amministrativo, può fin da ora osservarsi come riveli ardui profili applicativi la coniugazione del carattere di celerità che connota il rito in questione con le esigenze di difesa che il pur sintetico riferimento al principio del contraddittorio inevitabilmente postula.

Ancor più ove l’applicazione delle sanzioni alternative di cui al ripetuto art. 123 non intervenga necessariamente con la pronunzia che definisce il giudizio “principale” (ovvero, quello di carattere fondamentalmente impugnatorio volto alla contestazione della legittimità degli atti di gara), in esito al quale – laddove non venga pronunciata l’inefficacia del contratto, ovvero l’inefficacia sia “temporalmente limitata”, ai sensi del comma 4 dell’art. 121 – il richiamo contenuto nel comma 1 dell’art. 123 rende, appunto, esercitabile il potere sanzionatorio de quo.

Tale conclusione – necessaria unicità del giudizio impugnatorio e/o risarcitorio rispetto al giudizio che culmina con l’irrogazione delle sanzioni alternative – se non incontra letterali elementi di riscontro nella formulazione dell’art. 123, pone non facilmente risolvibili problemi applicativi.

È intuibile che il giudicato formatosi nel giudizio che per brevità può definirsi “principale” abbia diretta rilevanza ai fini dell’applicazione delle misure sanzionatorie: di talché la concentrazione in un unico contesto processuale delle pur diverse vicende (impugnatorio/risarcitoria e di condanna sanzionatoria) viene a rilevare manifesti profili di preferibilità al fine di scongiurare parcellizzate attuazioni di un medesimo percorso giudiziario, che potrebbero incontrare elementi di ardua realizzazione per effetto di impugnazioni medio tempore interposte avverso la pronunzia “principale”.

Ma è altrettanto intuibile che la “strada maestra” dell’unicità del giudizio, ove governato dalle disposizioni sul rito abbreviato di cui agli artt. 119 e seguenti, potrebbe – proprio in ragione della compiuta attuazione delle prerogative di difesa che il pur “scarno” rinvio alla garanzia del contraddittorio intende, con ogni evidenza, postulare – rivelare ricadute disomogenee rispetto alla finalità evidentemente acceleratoria che il rito speciale intende promuovere per la definizione delle controversie da esso contemplate.

 

 

6. La pubblicazione del dispositivo

Mentre la pubblicazione del dispositivo, per le controversie relative alle materie di cui all’art. 119 avviene (comma 5) soltanto su espressa richiesta di parte, decorrente dalla data di decisione della causa, diversamente, l’art. 120 comma 9 prevede che il dispositivo del provvedimento con cui il tribunale amministrativo regionale definisce il giudizio è pubblicato entro sette giorni dalla data della sua deliberazione.

Una prima questione, evidenziata dal testo delle norme come sopra raffrontate, concerne il diverso impiego, nell’ambito degli articoli in rassegna, delle locuzioni “decisione della causa” e “definizione” [del giudizio].

È dato interrogarsi se l’evidenziata differenza abbia innocuo carattere terminologico (e debba, conseguentemente, ancora una volta annettersi ad una disinvoltura lessicale del Legislatore), ovvero se quest’ultimo abbia inteso prendere in considerazioni fattispecie diverse.

È opinione dello scrivente che si tratti di una mera (per quanto deprecabile, in quanto agevolmente scongiurabile) discrasia terminologica, atteso che non è dato individuare, laddove (invece) i termini impiegati dovessero intendersi preordinati ad indicare due inassimilabili elementi, a cosa possa essersi riferito l’estensore delle disposizioni di che trattasi.

Va peraltro osservato – ancorché con minore apprezzabilità ermeneutica – come la “decisione della causa” potrebbe riferirsi ad una pronunzia non (completamente) definitoria del giudizio, ovvero ad una determinazione con la quale l’adito organo di giustizia si pronunzi su questioni (pregiudiziali e/o incidentali, o addirittura ordinatoriae litis) senza, con la pronunzia stessa, “chiudere” il giudizio con la sentenza che ne definisca l’intero petitum.

In tal senso, il Legislatore potrebbe essersi “premurato” di precisare che il dispositivo di ogni statuizione giudiziale, ancorché “non definitoria” del giudizio come sopra inteso, debba necessariamente formare oggetto di pubblicazione nei termini e nelle forme di legge.

Tale evenienza, che una lettura – sebbene un po’ “forzata” – dell’art. 119 potrebbe indurre a ritenere astrattamente praticabile, confligge tuttavia avverso il carattere non indiscriminatamente “obbligatorio” che connota la pubblicazione del dispositivo nelle controversie di cui all’art. 119: di talché proporrebbe seri problemi di congruità logica l’aver previsto che tale adempimento intervenga (solo) su richiesta di una delle parti e, al tempo stesso, imporne l’attuazione non soltanto per la pronunzia “definitoria” del giudizio, ma anche per quelle decisioni (parziali e/o interlocutorie) che, definendo singoli capi della domanda, ovvero delibando su questioni pregiudiziali e/o incidentali, non contengano statuizioni atte a “chiudere” definitivamente il giudizio.

Se, alla stregua di quanto precedentemente osservato, l’ambiguità terminologica della quale si è dato conto appare suscettibile di essere superata optando per una sostanziale identità interpretativa delle pur difformi locuzioni impiegate dal Legislatore, in ogni, caso, il (solo) dispositivo per le sole controversie di cui all’art. 120 deve essere pubblicato indipendentemente dalla richiesta di parte, quindi d’ufficio.

La difformità di regime fra controversie ex art. 119 (per le quali la pubblicazione deve essere sollecitata dalla richiesta di parte, da inserire al verbale dell’udienza di trattazione della controversia) ed i giudizi di cui all’art. 120 è, invero, difficilmente comprensibile; e meno ancora giustificabile.

Omogenea opinione è stata rassegnata, nello scritto più volte citato, dal Lipari, laddove si dà conto come, “per ragioni poco decifrabili, nel rito dei contratti, l’istanza di parte non è occorrente, perché la pubblicazione anticipata del dispositivo è sempre necessaria”: argomentandosi che la “più persuasiva spiegazione possa essere individuata nell’esigenza “che la certezza dell’esito della lite si considera sempre di interesse pubblico ed è indisponibile dalle parti, anche tenendo conto dei possibili riflessi sul termine dilatorio per la stipulazione del contratto”.

Lo stesso Autore, tuttavia, non può fare a meno di rilevare che “tutte le materie contemplate dall’articolo 119 hanno, per definizione, una rilevanza particolare e privilegiata”, sì che “la regola specialissima prevista per le sole controversie in materia di contratti appare davvero poco giustificata”.

Esigenze di omogeneità – oltre che opportunità di carattere logico-sistematico – potrebbero indurre ad eliminare il carattere di “facoltatività” (rectius: la sollecitabilità su richiesta di parte) della pubblicazione del dispositivo per le controversie di cui all’art. 119, offrendo così:

-      non soltanto un’auspicabile assimilazione del regime di pubblicazione fra le due norme (artt. 119 e 120 del Codice di rito);

-      ma anche un carattere di sostanziale continuità con il previgente regime di cui all’art. 23-bis, comma 6, della legge 1034/1971, nell’ambito del quale (omogeneamente esteso a tutte le controversie ora parcellizzate fra l’art. 119 e l’art. 120) la pubblicazione del dispositivo aveva indiscriminato carattere di obbligatorietà[36].

Un’altra singolarità presentata dal testo dell’art. 120 è rappresentata dall’assenza di indicazione alcuna in ordine all’obbligatorietà della pubblicazione del dispositivo nei giudizi d’appello.

Il comma 11 dell’art. 120 prevede, infatti, che “Le disposizioni dei commi 3, 6, 8 e 10 si applicano anche nel giudizio di appello innanzi al Consiglio di Stato, proposto avverso la sentenza o avverso l'ordinanza cautelare, e nei giudizi di revocazione o opposizione di terzo. La parte può proporre appello avverso il dispositivo, al fine di ottenerne la sospensione prima della pubblicazione della sentenza”.

L’esclusa evocazione, nel novero delle previsioni suscettibili di operatività nei giudizi d’appello, del comma 9 impone di ritenere che il Legislatore delegato abbia volutamente escluso il carattere obbligatorio della pubblicazione del dispositivo nei giudizi dinanzi al Consiglio di Stato[37].

Se tale conclusione è autorizzata dalla omessa ricomprensione, nel quadro della previsione del comma 11 dell’art. 120, (anche) della norma di cui al precedente comma 9, insuperabili argomenti letterali corroborano la conclusione alla quale si ritiene di pervenire, laddove si consideri che la previsione di legge da ultimo citata espressamente prevede che “il dispositivo del provvedimento con cui il tribunale amministrativo regionale definisce il giudizio è pubblicato entro sette giorni dalla data della sua deliberazione”.

Ecco dunque, sulla base delle perplesse indicazioni codicistiche, il quadro delle evenienze che possono accompagnare la pubblicazione del dispositivo con riferimento alle ipotizzabili categorie di controversie:

1.                        per tutte le controversie non contemplate dagli artt. 119 e 120 la pubblicazione del dispositivo non è mai obbligatoria;

2.                        per le controversie indicate all’art. 119, la pubblicazione del dispositivo avviene previa domanda di una delle parti, sia nel giudizio dinanzi al T.A.R. che nell’appello dinanzi al Consiglio di Stato;

3.                        per le controversie di cui all’art. 120, la pubblicazione del dispositivo è sempre obbligatoria, anche in difetto di domanda di parte, esclusivamente però nel giudizio di primo grado;

4.                        in appello e nei giudizi di impugnazione, nelle materie dell’articolo 120, la pubblicazione del dispositivo può avvenire esclusivamente su istanza di parte, in ragione del generalizzato richiamo operato dallo stesso art. 120 al precedente art. 119[38].

Va poi segnalato come, sia per le controversie di cui all’art. 119, che per i ricorsi nelle materie contemplate al successivo art. 120, la decorrenza del termine per la pubblicazione del dispositivo non coincida più con “la data dell'udienza”, come già stabilito dal comma 6 dell’art. 23-bis della legge 1034/1971.

Piuttosto, il comma 9 dell’art. 120 impiega una diversa locuzione rispetto al comma 5 dell’art. 119, atteso che viene ivi previsto che il dies a quo per la pubblicazione di che trattasi decorra “dalla data della … deliberazione” del dispositivo stesso, mentre la disposizione da ultimo richiamata stabilisce che il dispositivo è pubblicato mediante deposito in segreteria, non oltre sette giorni dalla decisione della causa.

La discontinuità terminologica (ancora una volta) evidenziata dal Legislatore delegato impone di individuare con esattezza la data di decorrenza del termine in discorso, atteso che dalla pubblicazione del dispositivo decorre il termine per la relativa impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato, come stabilito dal comma 6 dell’art. 119 (ricorsi “ex 23-bis”) e dal comma 11 dell’art. 120 (ricorsi in materia di pubbliche gare).

È da ritenersi che le locuzioni “deliberazione del dispositivo” e “decisione della causa” rivelino carattere sinonimico: osservandosi come il momento di definizione della controversia (e, quindi, di “decisione della causa” con accessiva “deliberazione del dispositivo”) non necessariamente deve coincidere con la data della pubblica udienza alla quale la controversia è stata chiamata per la decisione (ovvero, della Camera di Consiglio nella quale il ricorso, originariamente fissato per la delibazione dell’istanza cautelare, sia stato trattenuto per la decisione nel merito, al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 60 del Codice, al quale rinviano il comma 3 dell’art. 119 ed il comma 6 dell’art. 120), diversamente dal previgente regime dell’art. 23-bis della legge 1034/1971, che fissava per la pubblicazione del dispositivo l’omogeneo termine di sette giorni, individuandone tuttavia la decorrenza “dalla data dell'udienza”.

Va poi osservato come l’articolo 120 impieghi l’espressione “provvedimento con cui il tribunale amministrativo regionale definisce il giudizio”, anziché l’espressione “sentenza”, prevista dall’articolo 119.

Se, convenendo con la tesi al riguardo sostenuta da Lipari, “è ragionevole pensare che, anche in questo caso, si tratti di un mero difetto di coordinamento linguistico, dovuto alla fretta”[39], è invece opportuno interrogarsi in ordine all’ulteriore considerazione espressa dal predetto Autore, secondo cui ”diversamente, si dovrebbe pervenire alla inaccettabile conclusione secondo cui la pubblicazione del dispositivo non sarebbe necessaria nel caso di sentenze parziali”.

Nel richiamare quanto sopra osservato relativamente alla pubblicazione de quo nel caso di sentenze non definitive, se è vero che l’art. 33, comma 1, lettera a) del codice stabilisce che “il giudice pronuncia sentenza quando “definisce in tutto o in parte il giudizio”, non può non convenirsi con Lipari sulla prospettata esigenza di emendare, ancorché (per ora soltanto) in sede interpretativa (e nell’auspicio che si intervenga sul testo normativo in sede di correttivi), “l’imprecisa formulazione legislativa, affermando che, in ogni caso, l’obbligo di pubblicazione anticipata del dispositivo sussiste in tutti i casi in cui il giudice pronuncia sentenza”.

 

 

7. La declaratoria di inefficacia del contratto

È noto – e l’illustrazione del relativo, travagliato percorso giurisprudenziale esula, con ogni evidenza, dalla presente trattazione – come le opzioni interpretative in ordine alla sorte del contratto di seguito (o in conseguenza) dell’annullamento dell’aggiudicazione abbiano vissuto vicende profondamente diversificate.

Gli orientamenti che, di volta in volta e con oscillazioni protrattesi lungo un arco temporale estremamente ampio, hanno posto l’accento ora sulla nullità assoluta ed ora sulla nullità relativa del titolo negoziale, oppure hanno manifestato preferenza per la tesi dell’annullabilità, salvo poi individuare nella inefficacia automatica lo strumento di “trasmissione” della valenza inficiante dell’atto al negozio, sono infatti talmente conosciuti agli operatori che una pur succinta illustrazione delle (spesso tortuose) traiettorie giurisprudenziali sarebbe, inevitabilmente, ridondante.

E lo sarebbe vieppiù ove si consideri che, con valenza tranchant sulla poliformità e creatività giurisprudenziale, è ora la norma a stabilire – sia pure nel quadro di una non sempre perspicua individuazione dei sottesi presupposti – se all’annullamento dell’aggiudicazione acceda – o meno – una conseguenza che, tecnicamente, definiremo “sterilizzante” per gli effetti promananti dall’accessivo (e conseguenziale) negozio giuridico.

È opportuno muovere, nella relativa indagine, dalle prescrizioni dettate dalla Direttiva comunitaria (11 dicembre 2007 n. 66) il cui recepimento ad opera del D.Lgs. 53/2010 ha poi informato, nella essenziale struttura normativa, le disposizioni di cui agli artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo, che si pongono in diretta linea di continuità con le prescrizioni già dettate agli artt. 245-bis e 245-ter dello stesso decreto 53/2010.

Nell’osservare come la categorizzazione fra sanzioni “gravi” e “meno gravi” (il cui recepimento, ad opera del Legislatore nazionale, formerà oggetto di successiva attenzione) trovi diretto fondamento nel testo della Direttiva in questione[40], va fin da ora posto in evidenza come l’intervento normativo realizzato dapprima con il D.Lgs. 53/2010 e, quindi, con la traslazione della relativa disciplina nel nuovo Codice di rito, si ponga quale primo intervento positivo per la disciplina della sorte dell’appalto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione.

L’articolazione proposta dalla nuova disciplina impone, a fini chiarificativi, una schematizzazione delle ipotesi contemplate dal Legislatore delegato: non senza trascurare di soggiungere, preliminarmente, che gli artt. 121 e 122 del Codice di rito presentano identità testuale rispetto alle previsioni di cui agli artt. 245-bis e 245-ter del Codice dei contratti, come inseriti dal Decreto di recepimento della Direttiva ricorsi.

7.1 In primo luogo, viene in considerazione l’individuazione dell’estensione dell’ambito di cognizione giurisdizionale.

Il previgente testo dell’art. 244, comma 1, del Codice degli appalti (come modificato dall’art. 7 del D.Lgs. 53/2010) prevedeva che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale. La giurisdizione esclusiva si estende alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione e alle sanzioni alternative”.

A seguito dell’approvazione del D.Lgs. 104/2010, l’articolo sopra citato è stato modificato mediante esplicitazione di un rinvio dinamico alle previsioni dettate in materia di giurisdizione dal Codice del processo[41].

Le disposizioni in tema di giurisdizione sono ora comprese nell’ambito dell’art. 133 del Codice di rito, il cui comma 1, lett. e), n. 1 stabilisce che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge … le controversie relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione ed alle sanzioni alternative”.

La norma, come sopra posto in evidenza, presenta ambito dispositivo affatto omogeneo rispetto al previgente art. 244: e, con esso, ribadisce l’esplicita ricomprensione in un medesimo alveo di cognizione esclusiva delle questioni:

-      aventi ad oggetto l’annullamento degli atti della procedura (aventi contenuto impugnatorio/demolitorio)

-      concernenti la declaratoria di inefficacia del contratto (a valenza dichiarativa/costitutiva)

-      riguardanti la pretesa al ristoro del pregiudizio patrimoniale (di condanna)

-      e, da ultimo, relative all’applicazione delle sanzioni “alternative” ex art. 123.

Sotto quest’ultimo profilo, va piuttosto osservato che l’alveo di estensione della cognizione giurisdizionale appare, più propriamente, estendersi anche al merito.

La relativa previsione, dettata dall’art. 134 del Codice di rito[42], non annovera peraltro in tale ampliato ambito cognitivo (il giudizio relativo all’applicazione del)le sanzioni alternative: limitandosi a ricomprendere in esso le sole controversie concernenti l’irrogazione di misure repressive di carattere pecuniario la cui conoscenza è riservata all’Autorità giurisdizionale amministrativa.

La qualità e la sostanza dell’apprezzamento giudiziale riguardante:

-      l’irrogazione delle sanzioni alternative di cui sopra;

-      la scelta se dichiarare – o meno – l’inefficacia del contratto al ricorrere di fattispecie inficianti la determinazione aggiudicatoria;

-      la valutazione – ulteriore rispetto a quanto indicato al precedente alinea – se l’inefficacia dello strumento negoziale si estenda anche agli effetti da esso già prodotti (operando ex tunc), ovvero concerna esclusivamente quella parte del rapporto ancora inattuata;

implica, ancorché nella disomogeneità dei relativi presupposti ed a fronte della incisività della ponderazione che l’organo di giustizia è chiamato ad effettuare, un diretto, quanto ineludibile, “attingimento” al merito dell’azione amministrativa, di talché appare inverosimile postulare che la potestà determinativa del giudice amministrativa non si estenda anche al “merito”[43].

Del resto, ove intendesse pervenirsi a dissonanti conclusioni, verrebbe a delinearsi – in maniera difficilmente comprensibile ed ancor più arduamente giustificabile – una sorta di paradosso, nel senso che, per quanto concerne l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie:

-      laddove esse vengano applicate ad opera di un’Autorità indipendente, allora il relativo giudizio dinanzi al Giudice amministrativo si estende anche al merito, alla stregua di quanto in tal senso esplicitato dalla lett. c) del comma 1 dell’art. 134 del Codice di rito;

-      mentre, nel caso in cui il medesimo apparato sanzionatorio viene “amministrato” e “somministrato” direttamente dall’organo di giustizia, allora la cognizione esercitabile – pur non potendo non estendersi al complesso di situazioni giuridiche potenzialmente coinvolte; e, quindi, rivelando inevitabile sostanza di giurisdizione “esclusiva” – nondimeno non è caratterizzata dalla più ampia latitudine propria degli apprezzamenti di “merito”[44].

7.2 Va poi osservato che il comma 1 dell’art. 121 – facendo “giustizia” della varie categorie “inficianti” elaborate in giurisprudenza per “qualificare” gli effetti indotti dalla illegittimità dell’aggiudicazione sul contratto – espressamente parla di “inefficacia” del negozio giuridico[45]: e, ulteriormente, qualifica quale conseguenza automatica della tipologia inficiante il provvedimento conclusivo della gara, tanto che rimette al giudice – senza che, al riguardo, venga esplicitato il carattere “obbligatorio” all’uopo assunto dall’espressa richiesta di parte – la relativa valutazione.

Valutazione, peraltro, che, in una qualche misura, viene comunque a dimostrarsi “dipendente” dalla domanda di parte, atteso che il comma 1 dell’art. 121 prevede che, ferma la rimessione al giudice della valutazione in ordine alla inefficacia derivata del contratto, lo stesso organo di giustizia amministrativa è chiamato a valutare “se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva” in funzione non solo “della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto”, ma anche “delle deduzioni delle parti”.

Si può argomentare quindi che:

-      se la “scelta” in ordine all’inefficacia del contratto quale conseguenza dell’invalidità dell’aggiudicazione – fermo restando quanto infra al riguardo precisato – è rimessa al giudice, che a tal fine valuta la sussistenza dei relativi presupposti e condizioni, anche in difetto di espressa domanda e/o di deduzione di parte;

-      diversamente, l’estensione temporale della declaratoria di inefficacia (retroattiva; e, quindi idonea a travolgere ex tunc la vigenza dello strumento negoziale; ovvero, limitata alle sole prestazioni non ancora eseguite; e, quindi, operante ex nunc[46]) viene determinata dall’organo di giustizia tenendo presenti, unitamente alla “qualità” della condotta della Stazione appaltante e, naturalmente alla situazione di fatto (ad esempio, durata residua del rapporto negoziale), anche “le deduzioni di parte”.

In ogni caso, la configurazione assunta dalla disposizione di cui al comma 1 dell’art. 121 sembra consentire di escludere che la declaratoria di inefficacia del contratto consegua obbligatoriamente all’iniziativa di parte: per l’effetto dovendosi escludere che la relativa pronunzia acceda – e corrisponda – all’esercizio di una vera e propria “domanda” in tal senso[47].

Nel sottolineare come lo stesso testo dell’art. 121 (“Il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva dichiara l'inefficacia del contratto”) congiunga, con un nesso di necessaria derivazione e consecuzione logica, la pronunzia caducatoria con la declaratoria avente ad oggetto lo strumento negoziale, appare riduttiva una lettura della disposizione anzidetta in un’ottica meramente processualistica[48].

La tesi anzidetta rivela insuperabili profili di perplessità ove si consideri che lo stesso Autore, nell’ipotesi in cui – ferma la sostenuta sollecitabilità ad esclusiva iniziativa di parte della declaratoria di inefficacia del contratto – tale azione non risulti proposta, evidenzia come tale omissione sia “suscettibile di penalizzazione, ex art. 1127 c.c., sul piano della riduzione o esclusione del risarcimento, così venendosi incontro all’interesse della p.a. ad evitare un sacrificio eccessivo”[49].

Se pure è condivisibile – in quanto ancorata ad un incontroverso dato normativo – l’osservazione circa l’applicabilità dell’art. 124 del Codice (con le conseguenze da tale disposizione ricongiunte alla mancata proposizione della domanda di conseguire l’aggiudicazione e/o il contratto), una completa lettura della previsione da ultimo citata avrebbe potuto consentire di rilevare che:

-      se il comma 2 dello stesso art. 124 consente la valutabilità, ex art. 1227 c.c., della condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non abbia proposto la domanda di cui al comma 1

-      il comma 1 non soltanto precisa che la “domanda” (alla quale rinvia il comma 2) concerne la pretesa di conseguire “l'aggiudicazione e il contratto”, ma che l’accoglimento della stessa “è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122”;

declaratoria che, ancora una volta, non viene subordinata alla proposizione di corrispondente azione di parte.

Le svolte considerazioni non consentono, ovviamente, di ritenere non proponibile una deduzione (azione) con la quale la parte solleciti l’adozione della declaratoria di inefficacia onde trattasi; tale facoltà, anzi, risultando espressamente prevista quale “contributo” per la valutazione rimessa all’organo di giustizia in ordine all’estensione temporale degli effetti della declaratoria medesima[50].

La mancata configurazione, nell’attuale assetto codicistico, un’“azione” volta a promuovere l’inefficacia dello strumento negoziale non ha mancato di suscitare perplessità anche in sede di prima “lettura” delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. 104/2010[51].

Tale omissione pone delicate problematiche interpretative soprattutto nel caso in cui venga omessa l’adozione di una pronunzia in ordine all’inefficacia del contratto, ovvero in cui quest’ultima riveli estensione temporale diversa rispetto a quella che le parti del giudizio, attraverso la consentita proposizione di “deduzioni”, abbiano auspicato e sottoposto all’attenzione dell’adito organo di giustizia.

Problematiche che, inevitabilmente, non possono non trovare risposta se non attraverso la proposizione, in sede di appello, di corrispondenti elementi di doglianza rivolti avverso la pronunzia, resa in prime cure, che abbia – totalmente o parzialmente – disatteso le argomentazioni di parte relative alla “sorte” del contratto.

Tale complesso di elementi – anche alla luce degli ambiti di reclamabilità della pronunzia – potrebbero, ad avviso dello scrivente, ricevere più ordinata sistemazione contemplando (eventualmente in aggiunta al confermato potere di declaratoria d’ufficio della inefficacia del contratto) anche l’autonoma azionabilità della relativa pretesa, sì da indurre – derivativamente – la necessaria presenza di un (corrispondentemente) autonomo capo di sentenza sul punto, a fronte del quale non potrebbe non operare l’effetto devolutivo in sede di appello avverso la pronunzia del Tribunale.

7.3 L’inefficacia del contratto, come in precedenza osservato, si atteggia dunque quale effetto meramente conseguenziale rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione, anche in difetto di esplicita domanda di parte.

Disposizione di centrale impatto nel quadro normativo è la rimessione all’organo di giustizia della scelta, come del resto già esplicitato nel testo della Direttiva 2007/66/CE, riportato sub nota 40.

La disposizione introdotta dall’art. 245-bis, comma 1, del Codice appalti, poi trasfusa nell’art. 121, comma 1, del Codice di rito[52] puntualizza, fin dall’epigrafe, che il contratto, in linea di principio, debba essere dichiarato inefficace laddove ricorrano le “gravi violazioni” dalla medesima previsione legislativa elencate; e, quindi:

-       nel caso in cui l’aggiudicazione sia avvenuta senza previa pubblicazione del bando, laddove la pubblicazione del bando sia imposta dal diritto comunitario o nazionale (lett. a);

-      laddove l'aggiudicazione definitiva è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e tale circostanza abbia determinato l'omissione della pubblicità del bando o dell’avviso con cui si indice una gara, quando tale pubblicazione è prescritta (lett. b);

-      ove non sia stato rispettato il termine dilatorio per la stipula del contratto (violazione dello standstill), nel caso in cui tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che essa, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento (lett. c)

-      infine, ove non sia stata rispettata la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione, derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva, se tale violazione ha privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto ed al ricorrere dell’ulteriore condizione che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento (lett. d)

Una prima osservazione impone di rilevare che il meccanismo “annullamento dell’aggiudicazione/declaratoria di inefficacia del contratto”, che nelle due prime fattispecie sopra individuate opera automaticamente, nel caso in cui sia stato accertata l’omissione dei termini dilatori di stipula (standstill “puro” o sospensione nelle more della proposizione del ricorso giurisdizionale), diversamente, imporrà il previo accertamento in ordine alla compresenza di ulteriori due elementi, integrati:

-      dall’idoneità (efficienza causale) delle violazioni sopra descritte al fine di privare la parte della possibilità di avvalersi dei mezzi di tutela;

-      e, ulteriormente, dal sacrificio o dalla compromissione delle possibilità della parte di conseguire l’aggiudicazione, riveniente non soltanto dai vizi descritti, ma anche dalla presenza di “vizi propri dell’aggiudicazione”.

In difetto della cumulativa presenza e rilevanza delle condizioni ora riportate, è da ritenere che (anche) la violazione dello standstill, ovvero il mancato rispetto della sospensione dell’aggiudicazione in caso di proposizione di ricorso non rivelino, ancorché idonei a determinare l’annullamento dell’aggiudicazione, alcun automatismo quanto alla declaratoria di inefficacia del conseguente rapporto negoziale.

Piuttosto, il mancato riscontro del complesso delle condizioni e dei presupposti dal Legislatore enucleati al fine di attivare la sequenza “annullamento (dell’aggiudicazione)/declaratoria di inefficacia (del contratto nel caso delle violazioni di cui alle lett. c) e d) del comma 1 dell’art. 121)” imporrà, di fatto, una “derubricazione” della violazione (riguardata con riferimento agli effetti indotti sullo strumento negoziale) verso l’ambito dispositivo di cui al comma 1 del successivo art. 122 (“Fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare …”), ampliando, corrispondentemente, la latitudine dell’apprezzamento rimesso al Giudice e, con essa, l’espansione del potere (di merito) in materia veicolante (secondo l’opinione in precedenza esposta) la conclusiva determinazione giudiziale.

7.4 Il potere di scelta del giudice, quand’anche ci si trovi nell’ambito delle fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 121, riceve tuttavia un deciso accrescimento alla stregua della previsione dettata al successivo comma 2, per effetto della quale, pur in presenza di violazioni “gravi”, nondimeno è possibile disporre il mantenimento del contratto “qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti”.

L’intrinseca ambiguità della riportata locuzione “rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale” (evidentemente suscettibile di atteggiarsi quale empty box che l’interpretazione potrà riempire dei più variegati contenuti) incontra elementi di delimitazione nel prosieguo dello stesso comma 2, laddove si precisa che tra le esigenze imperative rientrano, fra l'altro:

-      quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall'esecutore attuale;

-      gli interessi economici, ancorché suscettibili di essere presi in considerazione “solo in circostanze eccezionali in cui l'inefficacia del contratto conduce a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all'eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara”;

mentre viene espressamente escluso che si atteggino alla stregua di “esigenze imperative” quegli interessi – pur essi economici – legati peraltro direttamente al contratto, “che comprendono fra l'altro i costi derivanti dal ritardo nell'esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell'operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia”.

Nella prima delle esposte ipotesi l’apprezzamento avrà contenuto tecnico-discrezionale, dovendo valutarsi se, con riferimento all’oggetto e/o alla tipologia dell’intervento dedotto in appalto, o, ancora, alla durata della prestazione richiesta, la residua esecuzione – fino a portare a compimento l’opera ovvero la prestazione – non possa essere eseguita che dall’aggiudicatario.

Evenienza che, ad avviso dello scrivente, potrà trovare attuazione non soltanto nelle ipotesi in cui l’affidamento del residuo prestazionale sia materialmente e/o oggettivamente impossibile (si pensi all’impiego di attrezzature o mezzi posseduti dal solo aggiudicatario; ovvero le cui peculiari connotazioni consentano di escludere, ad opera di altri soggetti, la completabilità di quanto già eseguito), ma anche laddove l’astratta ipotizzabilità di un’ultimazione della prestazione ad opera del terzo (il soggetto che avrebbe avuto titolo all’aggiudicazione, coincidente con la parte vittoriosa in sede giudiziale) si porrebbe in un rapporto di diseconomicità tale rispetto alla prosecuzione dell’intervento ad opera dell’originario aggiudicatario, da condurre a conseguenze grandemente pregiudizievoli per l’interesse pubblico.

Se tale ipotesi viene, parzialmente, a coincidere con la casistica esemplata al secondo degli alinea precedentemente esposti, in tale fattispecie complessa trova collocazione (anche) il caso in cui il terzo vittorioso non abbia formulato domanda di subentro nel rapporto (“eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto”) laddove, peraltro, il riscontrato “vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara”.

Fattispecie invalidante meno grave – in quanto insuscettibile di indurre necessariamente il rifacimento della procedura selettiva – alla quale deve accompagnarsi la preferenza, manifestata dalla parte, di “accontentarsi” del risarcimento del pregiudizio sofferto per effetto della mancata aggiudicazione: e, conseguentemente – ancora una volta la decisione trovando elementi imprescindibili di valutazione nella posizione processualmente fatta valere dalla parte interessata – insuscettibile di condurre alla declaratoria di inefficacia del contratto.

Se l’enumerazione della casistica come sopra riportata riveste, con ogni evidenza, connotazione non già rigidamente esaustiva, ma meramente esemplificativa (chiara, in tale senso, la portata della locuzione “fra l’altro” impiegata dal Legislatore delegato), non può l’interprete esimersi dal manifestare elementi di perplessità a fronte di interventi ermeneutici (non preclusi dalla formulazione letterale della norma all’esame) che, “espandendo” (il contenuto del)le categorie elencate possa pervenire ad un risultato sostanzialmente “elusivo” mercè l’ingiustificata superfetazione delle fattispecie di “esigenze imperative”.

In tal senso, la norma offre elementi ermeneutici a contrario; escludendo che possa pervenirsi al mantenimento del contratto a tutela di esigenze (prettamente economiche) rappresentate, fra l’altro, dai costi derivanti:

-      dal ritardo nell'esecuzione del contratto stesso

-      dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione

-      dal cambio dell'operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia.

Fuori da tale casistica, il mantenimento del contratto può trovare elementi di fondata praticabilità pur sempre nel quadro della rilevabile presenza di interessi di carattere generale: dovendo porsi la necessaria attenzione sulla locuzione in proposito impiegata dal Legislatore delegato, il quale – non casualmente – non ha parlato di “interesse pubblico”.

Se:

-      è dato accedere all’interpretazione secondo la quale la locuzione legislativa per cui “le esigenze imperative che giustificano il mantenimento del contratto devono essere connesse non ad un semplice interesse “pubblico” quale può essere quello della stazione appaltante, ma ad un più qualificato interesse “generale” (nel novero di esse non essendo suscettibili di essere sussunti i “soli interessi economici legati direttamente al contratto”[53]);

-      e può allora convenirsi in ordine alla non coincidenza delle due nozioni,

va osservato come neppure la Direttiva 66/2007 offra dirimenti elementi ermeneutici per “riempire” di contenuti la categoria dell’interesse “generale”, sì da qualificarne la portata in un ambito evidentemente eccedente quello dell’interesse meramente “pubblico”[54]: dimostrandosi, per l’effetto, arduo comprendere la differenza contenutistica fra le due nozioni.

Infatti, quand’anche per interesse “pubblico” ci si possa riferire al solo interesse facente capo alla Stazione appaltante, non è controvertibile che l’interesse “generale” (evidentemente diverso dal primo) non può non essere, anch’esso, “pubblico”

Ed allora diviene difficile categorizzare interessi imputabili alla Stazione appaltante non di carattere generale; o, altrimenti, propri esclusivamente di essa e rispetto ai quali siano configurabili interessi “pubblici” “altri”: a meno che la “generalità” dell’interesse, nell’ottica della norma, non contempli le posizioni giuridiche indifferenziatamente facenti capo alla collettività – ovvero, a qualificati e differenziati segmenti di essa – sostanziate, ad esempio, dall’interesse alla realizzazione di una particolare opera (si pensi all’edilizia scolastica o residenziale pubblica; alla realizzazione di una infrastruttura destinata a veicolare attività di trasporto pubblico rese in favore di una indifferenziata platea di utenti; e via di seguito), ovvero alla prestazione di un servizio (refezione nelle mense scolastiche; prestazioni di servizi di particolare rilevanza sociale, quali assistenza ad anziani o persone diversamente abili; ed altro ancora).

Tale “espansione” della nozione di interesse generale sconta, inevitabilmente, una corrispondente “contrazione” della nozione di interesse “pubblico”, che potrà venire a coincidere con il solo interesse della Stazione appaltante non destinato a soddisfare, contestualmente, anche un interesse pubblico facente capo alla collettività (o a parti di essa) che, in quanto tale, viene ad assumere, appunto, una connotazione in termini di “generalità”.

Crinale ermeneutico, come si vede, piuttosto “sfumato” e parimenti discutibile: la cui decifrazione, ancora una volta – ed in assenza di chiarimenti in sede “correttiva” – non potrà essere rimessa che alla (non facile) interpretazione giurisprudenziale.

7.5 Peculiare ipotesi nella quale, pur in presenza delle “gravi violazioni” di cui al comma 1, lett. a) e b), dell’art. 121, nondimeno è scongiurata l’inefficacia del contratto, è quella indicata al comma 5 dello stesso articolo[55].

L’operatività della previsione di legge in rassegna è subordinata, come reso palese dal testo della norma, alla compresenza di tre presupposti:

-      motivata declaratoria, anteriore all’avvio della procedura, con la quale l’Amministrazione espliciti i presupposti che consentano di pretermettere la pubblicazione del bando o dell’avviso;

-      pubblicazione dell’avviso volontario per la trasparenza preventiva di cui all’art. 79-bis del D.Lgs. 163/2006[56];

-      stipula del contratto successivamente allo spirare di un termine dilatorio non inferiore a dieci giorni decorrente dal giorno successivo alla pubblicazione del suindicato avviso per la trasparenza preventiva.

Ferma l’esigenza di seguire l’intero percorso procedimentale delineato dalla norma precedentemente riportata, è da interrogarsi in ordine alla sorte del contratto nel caso in cui:

-      pur avendo la dichiarazione relativa alla presenza di una consentita ipotesi di esclusione della pubblicazione del bando o dell’avviso di indizione di gara ricevuto la prescritta pubblicità

-      nondimeno, la valutazione al riguardo operata dall’Amministrazione si sia dimostrata non corretta, sì da determinare – previa contestazione nella necessaria sede giudiziale – una declaratoria di illegittimità del relativo atto, suscettibile di ripercuotersi, con efficacia invalidante, sui successivi atti del procedimento (pubblicazione dell’avviso volontario per la trasparenza preventiva e stipula del contratto).

In tale evenienza, essendo venuto meno (con valenza necessariamente retroattiva, in quanto naturalmente accessiva alla pronunzia giurisdizionale di annullamento) il presupposto giustificativo, l’intera procedura fondata sul presupposto della inessenzialità della pubblicazione del bando o dell’avviso di indizione viene ad essere travolta: e, conseguentemente, l’aggiudicazione (la cui illegittimità trova derivativo fondamento nella invalidità dell’atto di avvio della sequenza procedimentale) si dimostra attributaria di un carattere di illegittimità suscettibile di imporne l’annullamento.

Una prima linea di soluzione dell’esposta problematica potrebbe indurre a ritenere che, quantunque sia stata illegittimamente pretermessa la (doverosa) pubblicazione del bando o dell’avviso di selezione, nondimeno la pubblicazione dell’avviso volontario per la trasparenza preventiva abbia consentito di conseguire una pratica “equipollenza” di risultato, con riferimento alla concreta possibilità, per i soggetti interessati, di prendere cognizione della volontà dell’Amministrazione di “contrattare”.

E, in tale ottica, potrebbe ritenersi – all’interno di una valutazione di piena “succedaneità” dell’avviso ex art. 79-bis rispetto alla pubblicazione del bando – che possa scongiurarsi la sterilizzazione dell’efficacia del contratto ritenendo operante il comma 5 dell’art. 121.

Tale conclusione, che evidentemente presenta vantaggi per la posizione sia della Stazione appaltante che del terzo contraente, in quanto consente piena (ed intangibile) attitudine alla produzione di effetti giuridici da parte dello stipulato strumento negoziale, presta tuttavia il fianco a non inipotizzabili strumentalizzazioni, suscettibili di condurre, in pratica, ad uno “svuotamento” dell’attitudine deterrente dal Legislatore delegato annessa alla privazione di efficacia degli effetti del contratto al ricorrere delle “gravi” violazioni di cui al comma 1 dell’art.121.

È da ritenersi che, in tale caso, torni ad assumere piena vigenza la previsione dettata dal comma 1 dell’art. 121, atteso che delle due l’una:

-      o la procedura senza previa pubblicazione di bando od avviso è consentita (e l’Amministrazione ha correttamente apprezzato i relativi presupposti): ed allora troverà applicazione (al ricorrere della compresenza degli altri presupposti indicati dalla norma stessa) esclusivamente l’art. 121, comma 5, con esclusa inefficacia del contratto;

-      ovvero, nel caso in cui l’apprezzamento in ordine all’esclusa esigenza di pubblicazione del bando si sarà dimostrato privo del necessario fondamento giustificativo, verrà a configurarsi l’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 121, con declaratoria di inefficacia del contratto previo annullamento dell’aggiudicazione.

7.6 Nel caso in cui non venga dichiarata l’inefficacia ex tunc del contratto (e, quindi, abbia luogo il mantenimento di efficacia dello strumento negoziale; o, diversamente, quest’ultimo sia dichiarato inefficace relativamente alla sola parte delle prestazione ancora ineseguite), viene in considerazione l’applicabilità delle sanzioni alternative ex art. 123.

Nel rinviare, quanto alla disamina delle problematiche indotte dall’irrogazione delle suindicate misure, a quanto infra esposto sub 8., la chiara disposizione di cui al comma 4[57] non autorizza diversa interpretazione; così come omogenea applicabilità delle sanzioni de quibus viene in considerazione laddove si verifichi l’ipotesi in cui il mancato rispetto del termine dilatorio per la stipula del contratto, ovvero della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva non abbiano privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbiano influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento[58].

Siamo di fronte, con ogni evidenza ad una fattispecie di violazione meno grave rispetto a quelle (di cui alle lett. c) e d) del comma 1 dell’art. 121) in presenza delle quali, in ragione dell’accentuata valenza offensiva nei confronti della posizione giuridica del ricorrente (privazione della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto; attitudine della violazione, unitamente a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, ad influire sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento), il contratto è suscettibile di essere privato di efficacia.

Il carattere “sanzionatorio” di tale misura appieno rileva laddove si consideri che, appunto a fronte della attenuata valenza offensiva delle violazioni di cui al comma 3 dell’art. 123 – e della riveniente preclusa possibilità di sterilizzare l’efficacia dello strumento negoziale – il Legislatore ha ritenuto di rendere operante un’ipotesi sanzionatoria “alternativa”, quale quella sostanziata dalla irrogabilità delle misure di cui al comma 1, lett. a) e b), dello stesso art. 123.

Viene quindi a configurarsi, all’interno della casistica dal Legislatore esplicitata, una graduazione delle illegittimità del procedimento – ai fini della individuazione dei presupposti legittimanti (o meno) la privazione di efficacia del contratto – che contempla:

-      violazioni “gravi”, suscettibili di condurre (oltre che all’annullamento dell’aggiudicazione, anche) alla declaratoria di inefficacia del contratto ex tunc o ex nunc (fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 121);

-      quale sotto-insieme della categoria delle violazioni di cui al comma 1 dell’art. 121, violazioni di cui alle lett. a) e b) dello stesso comma, nel caso in cui la Stazione appaltante abbia posto in essere la procedura di cui al comma 5 dell’art. 121;

-      violazioni “meno gravi” che inducono il mantenimento in vita del contratto e la sola applicabilità delle sanzioni alternative ex art. 123 comma 3;

-      violazioni “non gravi”, a fronte delle quali è rimessa all’apprezzamento giudiziale – che andrà, evidentemente, condotto caso per caso – la declaratoria di inefficacia il contratto, ovvero il mantenimento di quest’ultimo, con accessiva concessione del risarcimento del danno per equivalente, laddove venga preservato il contratto, senza che possano trovare applicazione le sanzioni alternative ex art. 123, comma 1[59].

7.7 Come si è avuto modo di constatare (cfr. supra, sub 6.3), il comma 1 dell’art. 121, lett. c) e d) prevede che, in presenza di violazioni dello standstill o dell’effetto sospensivo conseguente alla proposizione del ricorso giurisdizionale, che abbiano privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto (e sempre che esse, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbiano influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento), il contratto è destinato a perdere efficacia.

E, come è stato parimenti osservato (cfr. supra, sub 6.5), il mancato rispetto del termine dilatorio per la stipula del contratto, ovvero della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva, qualora non abbiano privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbiano influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento, conducono – invece – esclusivamente all’irrogazione delle sanzioni “alternative”, ai sensi dell’art. 123, comma 3.

Il Legislatore delegato ha omesso di disciplinare, peraltro, l’ipotesi (evidentemente diversa dalle due precedentemente esposte) in cui le violazioni di cui sopra, pur in presenza di vizi dell’aggiudicazione, nondimeno non abbiano precluso l’esperibilità delle consentite modalità di tutela giurisdizionale e la possibilità di ottenere l’affidamento.

Secondo De Nictolis[60], “da una interpretazione sistematica” si desumerebbe che a tale caso si applicano sia l’art. 245-ter che l’art. 245-quater, co. 3, codice, rientrando esso in entrambe le previsioni; per cui il giudice valuta se dichiarare inefficace il contratto, ovvero mantenerlo applicando sanzioni alternative”.

La ritenuta operatività, al ricorrere della fattispecie da ultimo indicata, delle previsioni (ora) dettate agli artt. 122 e 123 del Codice del processo appare condivisibile, atteso che:

-      se che le violazioni hanno determinato vizi dell’aggiudicazione, quest’ultima è evidentemente suscettibile di essere annullata; ed è rimessa all’organo di giustizia la scelta, ai sensi dell’art. 122 (ex 245-ter), in ordine alla declaratoria di inefficacia del contratto, previa verifica degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione (pur in presenza dei vizi riscontrati), dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subingresso nel rapporto negoziale e purché il vizio dell'aggiudicazione non comporti obbligo di rinnovazione della gara e la domanda di subentrare sia stata proposta;

-      il comma 3 dell’art. 123 (ex 245-quater) consente l’irrogazione delle sanzioni alternative nel caso in cui l’accertata violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento.

Se è peraltro vero che, come infra osservato, l’applicazione delle sanzioni alternative necessariamente postula la perdurante efficacia del contratto, ovvero la limitazione temporale della dichiarata inefficacia dello strumento negoziale (ai sensi del comma 4 dell’art. 121), allora troverà necessaria priorità logica la valutazione in ordine all’operatività della prescrizione dettata dall’art. 122: l’eventuale declaratoria di inefficacia precludendo l’irrogabilità delle sanzioni ex art. 123.

Ex converso, una volta escluso che le pur riscontrate violazioni possano condurre alla sterilizzazione dell’efficacia, allora la valutazione transiterà sulla individuazione della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’apparato sanzionatorio ex art. 123.

 

8. L’applicazione delle sanzioni alternative

L’art. 245-quater codice dei contratti è stato trasfuso (quasi) integralmente nell’art. 123 del codice del processo[61].

È stato aggiunto il solo inciso “a tal fine si applica l’articolo 73, comma 3” che ha implementato, rispetto al previgente art. 245-quater, la formulazione del comma 2 dell’articolo in questione.

Nell’osservare come il comma di che trattasi concerna le modalità di applicazione delle sanzioni, è in primo luogo da interrogarsi circa l’ambito di applicazione dell’operato richiamo al comma 3 dell’art. 73 (il quale, giova rilevare, prevede che se il giudice “ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, … la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie”).

Sembra di poter argomentare che:

-      laddove l’applicazione delle sanzioni di che trattasi intervenga anteriormente al momento in cui la controversia venga trattenuta in decisione (e, quindi, la definizione della relativa questione avvenga con la medesima pronunzia che definisce la controversia stessa), l’irrogabilità della misura afflittiva “d’ufficio” (le pur non inipotizzabili sollecitazioni, in tal senso, formulate da taluna delle parti nel corso del giudizio, non rivelerebbero, comunque inidoneità a qualificare come “di parte” l’iniziativa propulsiva del relativo sub-procedimento), impone che il relativo intendimento venga esplicitato all’udienza pubblica di trattazione e di esso venga dato atto a verbale;

-      mentre, nel caso in cui l’applicabilità delle sanzioni emerga successivamente al momento sopra indicato (“Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione …”), allora non è più possibile che la misura afflittiva venga irrogata con la decisione stessa, rivelandosi necessario che la definizione della questione medesima venga “riservata” e che con separato provvedimento (ordinanza) si proceda all’assegnazione alle parti di un termine (commisurato, nel massimo, a giorni trenta) per il deposito di memorie.

Il secondo dei delineati scenari, con ogni evidenza, propone una parcellizzata definizione della controversia, quantunque limitatamente al punto in esame.

Il richiamo all’art. 73, comma 3, tuttavia, rende opportuno interrogarsi se il termine a difesa in esso previsto operi esclusivamente per i (soli) casi in cui l’applicabilità delle sanzioni venga in considerazione successivamente alla celebrazione dell’udienza nel corso della quale la controversia viene spedita a sentenza, ovvero sia suscettibile di trovare applicazione in ogni caso (e, quindi, anche nell’ipotesi in cui il giudice, d’ufficio, rilevi la presenza delle condizioni di applicabilità dell’art. 123 anteriormente alla definizione del giudizio e, quindi, prima della “chiusura” dell’udienza nel corso della quale la causa è stata trattenuta in decisione.

Questione, questa, che con ogni evidenza “impatta” la problematica relativa alla tutelabilità del diritto di difesa, che la prima parte del comma 2 dell’articolo in questione ben tiene presente, laddove afferma che l’organo di giustizia amministrativa “applica le sanzioni assicurando il rispetto del principio del contraddittorio”.

È ben vero che tale postulazione – la quale, ex se riguardata, implica la sola diretta ed immediata conseguenza che la parte nei confronti della quale la sanzione sia destinata ad operare venga posta nella possibilità di avere piena contezza dell’iniziativa che il giudice abbia inteso, previa valutazione del ricorrere dei necessari presupposti, promuovere d’ufficio – non conduce, anche, all’affermazione del corollario della necessaria assegnazione di un “termine a difesa”, ovvero di un termine entro il quale il possibile destinatario della misura afflittiva venga ammesso alla presentazione di memorie o scritti difensivi.

Si osserva, peraltro, come l’ellitticità della disposizione del comma 2 (che postula il solo rispetto del principio del contraddittorio), laddove non implementata in via interpretativa con adeguate guarentigie di carattere processuale che conferiscano “pienezza” effettuale all’affermazione normativa, rischierebbe di tradursi in un empty box.

Infatti, laddove la tutela del contraddittorio si risolvesse, esclusivamente, nella enunciazione (verbalizzata) dell’intendimento di applicare le misure sanzionatorie di che trattasi, con ogni evidenza verrebbero a profilarsi non facilmente superabili profili di criticità in ordine alla piena attuazione del postulato costituzionale che garantisce effettività di tutela al diritto di difesa in (ogni) sede processuale.

E, d’altro canto, verrebbe a delinearsi una (altrimenti) incomprensibile discrasia con l’ipotesi in cui, ponendosi la questione relativa all’applicabilità della sanzione successivamente al momento in cui la controversia è stata trattenuta in decisione, viene in considerazione – mercè l’illustrato rinvio al comma 3 dell’art. 73 – l’assegnazione di un termine a difesa non superiore a trenta giorni.

È avviso di chi scrive che siffatta modalità di tutela nei confronti del destinatario della sanzione debba trovare idonee modalità espansive in ogni fase del processo venga a delinearsi la presenza dei presupposti e delle condizioni per l’applicazione della sanzioni di che trattasi: altrimenti combinandosi, in un versante di evidente criticità, ipotizzabili vulnera dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 24.

Conseguentemente, ferma la disciplina dell’ipotesi di applicazione successiva (la cui attuazione, auspicabilmente, dovrebbe mantenersi astretta entro un ambito di rigorosa residualità, pena – altrimenti – una frammentazione del giudizio confliggente con il postulato di auspicabile concentrazione dello stesso), la ricognizione rimessa all’organo di giustizia dovrebbe, desiderabilmente con carattere di immediatezza rispetto alla compiuta delineazione della controversia, estendersi anche alla valutazione della possibile applicabilità delle sanzioni in discorso.

E, conseguentemente, riverberarsi nell’idonea ostensione notiziale, nei confronti delle parti del giudizio, della rilevata presenza di presupposti suscettibili di condurre all’irrogazione delle misure afflittive, al fine di dare effettività alla tutela mediante la riconosciuta facoltà di presentazione di scritti difensivi.

Se la partecipazione di che trattasi trova compiuta modalità attuativa mediante la “notizia” che il giudice è tenuto a dare alle parti (con accessiva menzione di tale adempimento nel verbale d’udienza), è da ritenersi che:

-      non soltanto non possa ricusarsi la richiesta di un termine a difesa che taluna di esse abbia formulato;

-      ma che, ulteriormente, la commisurazione temporale dello stesso, in ragione di esigenze di omogeneità di trattamento rispetto all’evenienza relativa all’insorgenza della questione successivamente all’udienza, debba simmetricamente estendersi ad un arco temporale non eccedente i giorni trenta[62].

Se, quindi, l’eventuale richiesta di un termine più lungo ben potrà essere motivatamente rigettata proprio sulla base delle considerazioni sopra rassegnate, non può omettere di rilevarsi come la prospettata attuazione – nella materia – del principio di integrità e salvaguardia del contraddittorio inevitabilmente proponga una dilatazione della complessiva tempistica di definizione del giudizio.

Ipotesi, questa, con ogni evidenza configgente con l’esigenza di celerità che permea le disposizioni processuali introdotte dal D.Lgs. 104/2010 relativamente alle controversie all’esame.

Tale conclusione si atteggia, secondo il convincimento di chi scrive, alla stregua di un “prezzo inevitabile” da pagarsi a fronte del pregiudizio che, altrimenti, verrebbe a determinarsi in capo al soggetto che, potenzialmente suscettibile di venire inciso dalle misure sanzionatorie di cui all’art. 123, vedrebbe sacrificata – o perlomeno significativamente compressa – la possibilità di addurre all’attenzione della procedente autorità giudiziaria le proprie ragioni, eventualmente proponendo elementi a difesa suscettibili di escludere la concreta irrogabilità delle sanzioni, ovvero di attenuarne la commisurazione.

Va infatti considerato che, secondo quanto indicato al comma 2 dell’art. 123, i criteri sulla base dei quali deve intervenire la quantificazione delle misure in discorso riguardano:

-      il carattere di “effettività” della sanzione;

-      la sua valenza “dissuasiva”;

-      la connotazione della sanzione stessa in termini di proporzionalità, avuto riguardo “al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione”.

Con riserva di esaminare infra il concreto atteggiarsi, nella scelta giudiziale, dei criteri sopra riportati, può fin da ora affermarsi che proprio l’illustrazione della complessiva “condotta” della stazione appaltante e dell’eventuale contegno rilevante alla stregua di un “ravvedimento operoso” suscettibile di elidere o attenuare le conseguenze dell’illecito, ben potranno ricevere una più compiuta ed esaustiva illustrazione attraverso la consentita possibilità, per la parte interessata, di addurre all’attenzione dell’organo di giustizia fatti e/o circostanze non necessariamente rappresentati dagli elementi di valutazione acquisiti nel corso del giudizio: venendo, per l’effetto, ad acquisire accentuato carattere di importanza quella “piena” attuazione del diritto di difesa che, come si è visto, impone – ancorché nel silenzio del testo legislativo – di garantirne l’effettività mediante la concessione degli opportuni tempi e modalità realizzativi.

Piuttosto, una ipotizzabile linea di coniugazione di esigenze ipoteticamente confliggenti (esigenza di celere definizione del giudizio “principale”; garanzia del diritto di difesa a fronte della irrogabilità delle sanzioni alternative) potrebbe condurre ad una frazionabilità della pronunzia: e, quindi, all’adozione di una decisione che, ferma la decisione del thema decidendum relativo alla dedotta illegittimità degli atti di gara ed agli eventuali riflessi da essa assunti sulla efficacia del contratto (nonché alle pretese risarcitorie eventualemente fatte valere), differisca a successiva pronunzia (da assumere in pubblica udienza opportunamente cadenzata al fine di assicurare il rispetto dei suindicati termini a difesa) la questione in ordine all’applicabilità delle sanzioni di che trattasi.

Alle considerazioni di carattere processuale precedentemente esposte non possono non accedere valutazioni di ordine più “sostanziale” inerenti alle condizioni di applicabilità delle sanzioni ed alle connesse modalità di commisurazione.

Nel dare atto dell’assoluta novità dell’apparato afflittivo di che trattasi – e della connessa esercitabilità ad opera del giudice amministrativo – rispetto al previgente quadro di disciplina, va innanzi tutto osservato come la previsione introdotta dall’art. 123 del Codice di rito (e, prima ancora, dall’art. 245-quater del Codice dei contratti) trovi diretto fondamento nella Direttiva comunitaria 66/2007[63]

Come precedentemente osservato, l’apparato sanzionatorio “alternativo” è configurato attraverso una duplicità di misure afflittive:

-      la prima delle quali, di carattere esclusivamente pecuniario, prevede l’irrogabilità di una sanzione, nei confronti della stazione appaltante, di importo dallo 0,5% al 5% del valore del contratto, inteso come prezzo di aggiudicazione;

-      la seconda, evidentemente rivolta avverso il soggetto (illegittimamente risultato) aggiudicatario della gara, dispone la riduzione della durata del contratto, “ove possibile”, da un minimo del dieci per cento ad un massimo del cinquanta per cento della durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo.

Come osservato in sede di primo commento al Codice processuale[64], le perplessità immediatamente proposte all’attenzione dalle disposizioni in rassegna risiedono:

-      nell’attribuzione al giudice amministrativo di “un potere di “merito”, o di tipo “penalistico”;

-      e nella non reclamabilità delle sanzioni ove irrogate per la prima volta in sede di appello.

Il primo degli indicati profili di perplessità viene dall’Autore condivisibilmente superato osservandosi come le sanzioni siano “la diretta conseguenza di un accertamento giurisdizionale e pertanto è corretto che ad irrogarle sia il medesimo giudice che conduce l’accertamento giurisdizionale”; pur non potendo sottacersi l’ipotizzabile duplicità dell’apparato sanzionatorio ove si consideri la distinta applicabilità di misure afflittive ad opera dell’Autorità di vigilanza.

Il secondo, invece, viene più sbrigativamente affrontato nello scritto escludendosi il profilarsi di “vizi di incostituzionalità, perché il doppio grado di giudizio è costituzionalizzato, nel processo amministrativo, solo nel senso che se si pronuncia il giudice di primo grado non può essere precluso l’appello, ma non è impedito un giudizio in unico grado davanti al giudice superiore, ossia davanti al Consiglio di Stato”.

Di fatto, l’applicazione delle sanzioni (eventualmente esclusa in primo grado in ragione della ritenuta insussistenza dei relativi presupposti) esclusivamente ad opera del giudice d’appello integra la presenza di un giudizio – in parte qua – in unico grado, di talché la parte incisa dalla misura afflittiva viene ad essere privata di ogni possibilità di reclamo.

Se è ben vero che la giurisprudenza costituzionale, nell’escludere la copertura costituzionale del doppio grado di giudizio, ha nondimeno fatta salva l’operatività, per i giudizi amministrativi, della previsione di cui all’art. 125 Cost.[65], non può omettere l’interprete di interrogarsi circa la configurabilità di un giudizio in unico grado – per il quale, quindi, non troverebbe applicazione alcuna istanza di riesame – soprattutto ove si consideri la portata penetrantemente afflittiva delle misure sanzionatorie previste dall’art. 123: venendosi, per l’effetto, a delineare un deficit di tutela che, ad avviso di chi scrive, pone seri problemi non soltanto di astratta compatibilità costituzionale, ma, soprattutto, di effettività delle garanzie di difesa per i soggetti incisi dall’applicazione di sanzioni di così sensibile rilevanza patrimoniale.

Se un eventuale ripensamento non può che essere affidato a propositi auspicabilmente correttivi che possano emendare la disposizione prevedendo l’obbligatoria percorrenza di entrambi i gradi di giudizio, la casistica che induce l’applicabilità delle sanzioni alternative in discorso contempla le seguenti fattispecie:

-      presenza di una violazione “grave” e mantenimento dell’efficacia del contratto per esigenze imperative[66];

-      presenza di una violazione parimenti “grave” alla quale acceda la declaratoria di inefficacia del contratto solo ex nunc[67];

in quanto, secondo quanto stabilito dal comma 4 dell’art. 121, “Nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace o l'inefficacia sia temporalmente limitata si applicano le sanzioni alternative di cui all'articolo 123”.

Inoltre, altre due ipotesi di applicabilità sono individuabili:

-      se il contratto sia stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio (ex art. 11, comma 10, del D.Lgs. 163/2006), qualora tale violazione[68] non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non si sia accompagnata, altresì a “vizi propri dell'aggiudicazione definitiva”, influendo “sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento”;

-      se, a fronte della violazione delle regole sui termini dilatori di cui sopra che, pur non privando di tutela il ricorrente, tuttavia si accompagni a vizi dell’aggiudicazione, il giudice decida di mantenere il contratto.

Se i parametri normativamente fissati per l’applicazione delle sanzioni appaiono adeguatamente presidiati con riferimento all’individuazione dei relativi presupposti, non con omogeneo grado di compiutezza il dettato legislativo indica il percorso graduativo della misura afflittiva.

Come si è avuto modo di osservare, la norma individua, in primo luogo, due elementi cardinali suscettibili di orientare il procedimento commisurativo, rappresentati

-      dal carattere di “effettività” che deve assumere la sanzione;

-      e dall’attitudine dissuasiva che la medesima deve essere suscettibile di assumere.

Se la prima delle sopraesposte connotazioni consente di escludere una valenza meramente “simbolica” della misura afflittiva (anche se, in concreto, il discrimen fra la simbolicità della sanzione e la quantificazione della stessa nel minimo consentito potrà rivelarsi sfumato: risolvendosi inevitabilmente l’intento di infliggere una misura di particolare tenuità nell’ostensione di un apparato motivazionale che dia compiutamente conto del ridotto tasso di illecità della condotta che si intende reprimere), la seconda dimostra inassimilabile ratio giustificativa.

Il carattere “dissuasivo” legislativamente postulato implica, infatti, una proiezione de futuro della sanzione: implementando la connotazione meramente “retributiva” della misura (pena inflitta a fronte dell’illecito commesso, in chiave evidentemente repressiva) con un’ulteriore caratterizzazione destinata a riflettersi:

-      in primo luogo, sui comportamenti futuri dell’agente, sì che l’irrogazione sanzionatoria funga da vero e proprio “monito” atto a scongiurare l’eventuale iterazione di condotte illecite;

-      e, secondariamente, sulle condotte degli altri operatori del settore, al fine di inalvearne “virtuosamente” l’agire pena, altrimenti, l’attivazione dell’apparato repressivo[69].

Le incerte – e non sempre condivisibili – finalità “educative” e/o “esemplari” sottese a siffatta configurazione sanzionatoria (suscettibili di permeare la funzione giudiziaria con funzioni estranee alla necessaria terzietà che ne deve caratterizzare lo svolgimento, nel rigoroso – quanto esclusivo – alveo di applicazione della legge), inducono a formulare l’auspicio che l’elemento orientativo (circa la commisurazione della sanzione) in discorso incontri un rapido tramonto e si avvii verso un veloce processo di obsolescenza che restituisca all’irrogazione e quantificazione della sanzione stessa ambiti di più oggettiva e certa effettività.

Senza tralasciare, peraltro, la considerazione che l’iter motivazionale suscettibile di “giustificare” l’attitudine “dissuasiva” della misura sanzionatoria in concreto inflitta offre, intuibilmente, ardui elementi di percorrenza: i quali, laddove non si sostanzino nell’esplicitazione di mere formule di stile, proporranno all’organo di giustizia amministrativa una problematica ostensione delle ragioni che, a fronte della necessità di arricchire la sanzione medesima di una valenza “deterrente” rispetto all’ipotizzabile reiterarsi dell’illecito, abbiano indotto una più severa graduazione della misura.

Profili di più agevole praticabilità sarebbero stati offerti, probabilmente, dall’individuazione di meccanismi di adeguamento incrementativo della sanzione al ricorrere di fattispecie di “recidiva”, ovvero di iterazione, ad opera della medesima stazione appaltante, di condotte contra legem suscettibili di essere represse mediante l’irrogazione delle sanzioni alternative di che trattasi: ipotesi, questa, che avrebbe potuto rivelare omogenea attitudine dissuasiva laddove la ripetizione di condotte illecite fosse stata sanzionata con incrementali criteri di commisurazione sanzionatoria.

Merita, invece, piena e convinta condivisione il carattere di proporzionalità che deve, sempre per espresso disposto legislativo, assistere la quantificazione della misura, con riguardo “al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione”.

Se il primo degli elementi orientativi sopra esposti incontra profili individuativi di agevole configurazione, sia la gravità della condotta che il “ravvedimento operoso” ulteriormente postulati dall’art. 123 potrebbero, tuttavia, determinare situazioni di non agevole operatività.

Nell’osservare come, diversamente dall’ (ed ulteriormente rispetto all’) esercizio del potere di autotutela, sia arduo comprendere come possa “concretamente” tradursi “l’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione”, l’enucleazione di criteri orientativi atti a circoscrivere, contenutisticamente, la “gravità” della condotta – al fine della conseguente commisurazione della sanzione – presenta profili interpretativi di non facile soluzione.

Diversamente dalla sistematica applicativa delle sanzioni amministrative pecuniarie destinate a ricadere in ambiti di mercato e ad incidere sulle posizioni di operatori privati (si pensi alle sanzioni irrogate dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; ovvero, alle determinazioni con le quali ISVAP è chiamata a stigmatizzare condotte illegittime dei soggetti operanti nel settore assicurativo), nel caso in esame il provvedimento afflittivo è destinato a ricadere su pubbliche Amministrazioni: non potendosi, per l’effetto, evocare parametri (astrattamente incidenti sulla “gravità” dell’illecito) quali la pervasività sistemica dell’infrazione (si pensi ad intese restrittive della concorrenza e/o ad abusi di posizione dominante) e/o l’entità economica (anche sub specie dell’ingiustificato vantaggio conseguito) rappresentante il pretium sceleris del comportamento.

A meno di non immaginare – invero incondivisibilmente – che un comportamento parimenti stigmatizzabile sotto l’aspetto della “qualità” della condotta della Stazione appaltante, ovvero omogeneamente caratterizzata dalla identità della violazione da essa consumata, sia “più grave” in ragione dell’entità economica dell’appalto o dell’intervento (lavori, servizi, forniture) costituenti l’oggetto di quest’ultimo.

Se solo i progressivi aggiustamenti ai quali auspicabilmente perverrà l’interpretazione giurisprudenziale sono suscettibili di fornire risposte che – sia pure non nel breve periodo – “riempiranno” contenutisticamente i criteri per l’irrogazione delle sanzioni rimesse all’Autorità giudiziaria, va ulteriormente osservato come un’opera di chiarificazione riveli accresciuta importanza ove si consideri che la duplicità dell’apparato afflittivo normativamente contemplata (da un lato, sanzioni pecuniarie; dall’altro, riduzione jussu judicis della durata residua del contratto) sono suscettibili di congiunta applicazione.

Tale è la conseguenza che, con ogni evidenza, va tratta dalla previsione di cui al comma 1 dell’art. 123, laddove si precisa – invero univocamente – che “nei casi di cui all'articolo 121, comma 4, il giudice amministrativo individua le seguenti sanzioni alternative da applicare alternativamente o cumulativamente …”.

Ecco, dunque, che all’interno di un medesimo percorso, vengono ad inalvearsi ipotesi articolate – e significativamente differenziate – che possono schematicamente sintetizzarsi secondo quanto di seguito esposto.

1. In primo luogo, le sanzioni “alternative” ex art. 123 vengono a colpire condotte non esclusivamente “gravi” – e, come tali, suscettibili di comportare la declaratoria di inefficacia del contratto – atteso che, come si è visto, le misure de quibus operano anche in presenza di violazione dei termini dilatori, a fronte delle quali, si siano esse accompagnate, o meno, a vizi propri dell’aggiudicazione, venga comunque disposto il mantenimento del contratto.

2. Nell’ambito di sanzioni diversamente suscettibili di graduazione in ragione della (diversa) gravità delle condotte che abbiano dato luogo a violazioni, sono individuabili – ed è questo il primo discrimen che il giudice dovrà affrontare – una triplicità di interventi repressivi, sostanziati dall’irrogabilità di una sanzione amministrativa pecuniaria, ovvero dalla determinazione (ove possibile) di ridurre la durata residua di validità del contratto, o, ancora, di applicare congiuntamente le misure ora indicate.

3. L’elezione del percorso sanzionatorio da ultimo indicato, con ogni evidenza, verrà a sanzionare esclusivamente le condotte connotate da più intensa “gravità” (purchè, ovviamente, la durata residua del contratto sia tale da consentirne un “abbattimento).

4. Nondimeno, ai fini da ultimo indicati (e con riferimento alla “rincarata” ipotesi sanzionatoria di cui al precedente alinea) viene in considerazione la problematica compatibilità logica dell’applicazione congiunta delle sanzioni laddove si sia presenza:

-      di una violazione “grave” alla quale acceda nondimeno il mantenimento dell’efficacia del contratto per esigenze imperative (non essendo, invero, dato ipotizzare che siffatte esigenze, ove così forti da imporre la perduranza del rapporto, possano condurre ad “amputarne” la residua validità)

-      ovvero in presenza di una violazione parimenti “grave” alla quale acceda la declaratoria di inefficacia del contratto solo ex nunc (rivelandosi logicamente incongruo che la declaratoria non retroattiva di inefficacia del contratto, destinata con ogni evidenza a sterilizzarne gli effetti solo pro futuro possa convivere con la riduzione della residua efficacia dello strumento negoziale, attesa la – almeno parziale – “sovrapponibilità” delle relative conseguenze).

5. In conseguenza di quanto sopra osservato, le ipotesi di congiunta applicabilità delle sanzioni di che trattasi verranno probabilmente ad astringersi ai soli casi in cui:

-      il contratto sia stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio (ex art. 11, comma 10, del D.Lgs. 163/2006), qualora tale violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non si sia accompagnata, altresì a “vizi propri dell'aggiudicazione definitiva”, influendo “sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento”;

-      pur in presenza della violazione delle regole sui termini dilatori, parimenti inidonea a privare di tutela il ricorrente, ma ridondante in vizi dell’aggiudicazione, si disponga il mantenimento del contratto.

6. Le problematiche sopra affrontate con riferimento alla (prevista) congiunta applicabilità dello strumentario sanzionatorio (che possono, omogeneamente, orientare la valutazione sanzionatoria anche nel caso in cui possa essere astrattamente applicata la misura della riduzione parziale di efficacia del contratto) vengono, con ogni evidenza, a depotenziarsi laddove la scelta si orienti verso l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, atteso che le illustrate esigenze di compatibilità con la durata residua del rapporto non vengono, in tale ipotesi, in considerazione.

7. Il discorso, precedentemente affrontato, in ordine all’unitaria definizione della controversia (decisione sul “merito” del ricorso e decisione in ordine all’applicazione delle sanzioni “alternative” ex art. 123) se astrattamente suscettibile, in considerazione del rispetto delle esigenze di tutela del contraddittorio (e di riveniente pienezza espansiva del diritto di difesa), di condurre (anche) alla scelta di differire a separata pronunzia l’irrogazione delle sanzioni, viene a rivelare delicati profili in termini di opportunità laddove venga in considerazione l’irrogazione della sanzione rappresentata dalla “decurtazione” parziale di efficacia del contratto.

Se, infatti, l’applicazione della misura pecuniaria lascia “intatto” il merito della controversia e la definizione che esso ha avuto nell’adita sede giudiziaria (mantenendosi al di fuori del perimetro del thema decidendum sottoposto dalle parti all’adito organo di giustizia), diversamente l’incisione sulla durata del contratto rivela più significativi punti di contatto con la questione sottoposta a sindacato giurisdizionale (attraverso il meccanismo di derivatività logico-giuridica che congiunge l’aggiudicazione alla stipulazione dell’accessivo strumento negoziale di disciplina del rapporto inter partes).

Tale considerazione, ad una prima riflessione, appare orientare – se non altro, in termini di opportunità – le opzioni astrattamente percorribili verso un’unitaria definizione almeno nell’ipotesi in cui si rilevi la sussistenza dei presupposti per applicare la fattispecie sanzionatoria di cui alla lett. b) del comma 1 dell’art. 123 (e, conseguentemente, nel caso in cui la medesima riduzione della durata del contratto venga disposta congiuntamente alla somministrazione di una sanzione pecuniaria).

8. Sotto il profilo della soggettività passiva, mentre la sanzione pecuniaria è esclusivamente rivolta nei confronti della Stazione appaltante, diversamente la misura della riduzione della durata residua del contratto è destinata ad incidere anche sul terzo aggiudicatario.

È ipotizzabile, in proposito, che – unitamente ai presupposti applicativi sui quali ci si è in precedenza intrattenuti – condizione imprescindibile per l’operatività di tale strumento sanzionatorio sia rappresentata dalla riscontrata presenza di elementi probatori suscettibili di dimostrare il concorso dell’aggiudicatario nella commissione dell’illecito ascrivibile alla Stazione appaltante.

Percorso probatorio, questo, che potrà rivelarsi non agevole alla luce:

-      non solo della diversificata configurazione (commissiva o omissiva) delle condotte ai fini in discorso ascrivibili all’aggiudicatario;

-      e non solo in relazione all’esigenza di individuazione di un rapporto di causalità (o, almeno, di occasionalità necessaria) che dimostri l’efficienza della condotta dell’aggiudicatario ai fini dell’assunzione di determinazioni, da parte della Stazione appaltante, dimostratesi illegittime;

-      ma anche alla decifrazione del “grado di incidenza” rivelato da tale condotta, atteso che non potrà eludersi l’indagine in ordine al carattere concretamente determinativo assunto dal comportamento del terzo (sì da escludere che, in difetto di esso, le medesime determinazioni illegittime sarebbero state assunte), ovvero alla connotazione “diversamente” concausale che lo abbia caratterizzato (e, quindi, alle ipotesi in cui la scelta dell’Amministrazione appaltante sarebbe stata, comunque, la stessa; ovvero che, pur in presenza di omogeneità determinativa, le effusioni provvedimentali avrebbero recato contenuto parzialmente diverso, determinando un diminuito pregiudizio per l’interesse pubblico).

Se è quindi vero che, “nella scelta tra le due sanzioni alternative, il giudice dovrà anche essere guidato dalla individuazione dei soggetti responsabili dell’illecito e dell’illegittimità, se solo la stazione appaltante o anche, in concorso, l’aggiudicatario”[70], è parimenti vero che tale indagine non rivela – ai fini in esame – carattere di esaustività, dovendo piuttosto essere accompagnata – ulteriormente – dalle valutazioni sopra indicate.

Ove si rifletta che la riduzione della durata (residua) del contratto è, anche essa, una sanzione di (indiretto) rilievo patrimoniale, una considerazione di carattere centrale è rappresentata dalla manifestata volontà del Legislatore delegato di incidere economicamente sulla posizione del terzo aggiudicatario; e, al tempo stesso, sulla determinazione assunta dalla Stazione appaltante, la cui scelta aggiudicatoria viene ad essere “amputata” fino ad un massimo della metà della durata residua del rapporto negoziale.

La plurioffensività della sanzione di che trattasi trova, ad avviso dello scrivente, adeguate ragioni di condivisione laddove l’effetto che tale scelta si ripromette è quello di elidere la durata in vita di un contratto il cui vizio genetico riviene dalla riscontrata illegittimità del procedimento in esito al quale tale strumento è stato stipulato.

E se il taglio all’efficacia dello strumento negoziale propone, attraverso la “riduzione” di un rapporto contrassegnato da illegittimità originative, un più sollecito ripristino della legalità violata (atteso che, ben prima della naturale ed originaria scadenza del contratto, la privazione di efficacia di quest’ultimo determinerà, in capo all’Amministrazione, l’esigenza di promuovere un rinnovato procedimento di scelta del privato contraente), nondimeno la complessità dei profili coinvolti nell’applicazione dello strumento sanzionatorio in discorso – segnatamente con riferimento all’illustrata efficienza dell’apporto “privato” sulla consumazione di illegittimità ad opera della Stazione appaltante – indurrà l’esigenza di riporre particolare attenzione sulla individuazione dei relativi presupposti.

Ed a tale esigenza la risposta non potrà che essere data dalla (necessaria) prudenza con la quale l’interpretazione giurisprudenziale saprà affrontare – fino al momento in cui gli orientamenti in materia non avranno raggiunto un livello di “accettabile” consolidamento” – la sfida con l’applicazione di un istituto affatto estraneo al previgente ordinamento.

 

 

9. La disciplina dell’accesso

Va preliminarmente rammentato come la disciplina dell’accesso agli atti di gara abbia formato oggetto, nel quadro del Codice degli appalti, di compiuta previsione (art. 13), segnatamente con riguardo al differimento previsto per talune categorie di atti (comma 2), l’esclusione della conoscibilità per talune classi di informazioni, di componenti delle offerte, di apporti consultivi e relazioni (comma 5; sia pure con i temperamenti di cui al successivo comma 6).

Il comma 5-quater dell’art. 79 dello stesso Codice, come inserito per effetto del D.Lgs. 53/2010, ha implementato la disciplina della materia prevedendo che “fermi i divieti e differimenti dell'accesso previsti dall'articolo 13, l'accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi del presente articolo è consentito entro dieci giorni dall'invio della comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di esclusione o differimento dell'accesso adottati ai sensi dell'articolo 13. Le comunicazioni di cui al comma 5 indicano se ci sono atti per i quali l'accesso è vietato o differito, e indicano l'ufficio presso cui l'accesso può essere esercitato, e i relativi orari, garantendo che l'accesso sia consentito durante tutto l'orario in cui l'ufficio è aperto al pubblico o il relativo personale presta servizio”.

La lettura della norma consente di trarre talune prime indicazioni.

Innanzi tutto, il comma 5-quater si riferisce esclusivamente all’accesso agli atti dei procedimenti preordinati all’adozione dei provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi dello stesso art. 79: e, quindi, a quanto previsto ai commi 1 e 2 dell’articolo stesso[71].

Sono mantenuti, anche per gli atti come sopra contemplati dalla norma in rassegna, i divieti ed i differimenti stabiliti in via generale dall’art. 13 precedentemente illustrato.

La decorrenza del termine per l’esercizio dell’accesso, trattandosi di atti oggetto – tutti – di comunicazione, secondo quanto dallo stesso art. 79 stabilito, prende luogo dal momento della partecipazione notiziale nei confronti degli aventi diritto: tenendosi al riguardo presente che l’esclusa natura ricettizia dell’adempimento trova testuali elementi di conforto laddove si consideri che il comma 5-quater indica, quale dies a quo al riguardo rilevante non già il momento della ricezione (intervenuta partecipazione conoscitiva), bensì il momento in cui la comunicazione medesima viene inviata.

E, dal momento che siffatto “invio” – disciplinato dal comma 5-bis dello stesso art. 79 – può alternativamente avvenire “con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o mediante notificazione o mediante posta elettronica certificata ovvero mediante fax, se l'utilizzo di quest'ultimo mezzo è espressamente autorizzato dal concorrente, al domicilio eletto o all'indirizzo di posta elettronica o al numero di fax indicato dal destinatario in sede di candidatura o di offerta”[72], la tempestività della conoscenza di tale momento – rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine (invero “contratto”) di esercitabilità dell’accesso – viene affidata esclusivamente alla “notizia” via mail o fax, altrimenti venendo a configurarsi l’ipotesi che, laddove la comunicazione “postale” soffra di ritardi o di altri inconvenienti, i dieci giorni nei quali si sostanzia la durata del termine stesso possano venire a spirare senza che il destinatario della comunicazione sia stato messo nella condizione di conoscerla.

L’accesso, comunque, viene esercitato informalmente, di tal guisa che non è necessaria alcuna istanza scritta.

Né è formalizzata la determinazione con la quale viene consentito l’accesso, prevedendo l’illustrato comma 5-quater che necessiti della forma scritta esclusivamente l’atto con il quale la conoscenza degli atti venga esclusa o differita, secondo la disciplina del pure rammentato art. 13 del Codice dei contratti pubblici.

Particolare rilevanza riveste la questione in ordine alla natura “decadenziale” del ristretto termine di dieci giorni previsto dal comma all’esame.

E, con essa, quella in ordine alla eventuale operatività (in via alternativa; ovvero, ipoteticamente subordinata) dell’“ordinaria” disciplina dell’accesso, quale contemplata dalle pertinenti previsioni della legge 241/1990.

I primi commenti evidenziano una polarità di posizioni interpretative degna di menzione[73].

Appare preferibile – ad una prima lettura che soltanto l’interpretazione giurisprudenziale potrà convalidare, ovvero superare opinando per il difforme convincimento – prestare adesione alla tesi secondo cui la norma, “anche prescindendo dalla sua collocazione, mira solo a determinare la conoscenza legale degli atti del procedimento, ai fini della decorrenza del termine per la proposizione del ricorso e dei motivi aggiunti”[74].

E ciò non soltanto perché la disposizione in rassegna non esclude in alcuna parte l’operatività (evidentemente residuale, almeno con rifermento alle classi di atti e provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi dell’art. 79 di che trattasi) delle “generali” disposizioni in materia di accesso di cui alla legge 241: ma, soprattutto, in virtù del rinvio al complesso di disposizioni della legge da ultimo indicata operato dal comma 1 dell’art. 13 del Codice dei contratti[75].

E se è vero che la previsione ora richiamata restringe l’ambito di operatività della legge sul procedimento amministrativo a quanto non “espressamente previsto nel presente codice”, deve osservarsi come un’ipotesi di compatibilità fra le due discipline potrebbe rinvenirsi proprio in una lettura del comma 5-quater dell’art. 79 quale indicativa del momento di conoscenza “legale” degli atti ivi contemplati.

È ben vero che, laddove dovesse – allo spirare del termine di dieci giorni di cui al comma 5-quater dell’art. 79 – rimanere impregiudicata l’esercitabilità dell’accesso nei modi “ordinari”, è ben lecito interrogarsi sulla ratio di una disposizione che, nel quadro dei principi acceleratori che permeano il procedimento di svolgimento delle pubbliche gare, ha introdotto una così peculiare modalità di conoscibilità degli atti in materia.

Il difetto di coordinamento fra l’accesso “accelerato” di cui al ripetuto comma 5-quater e la disciplina generale amplifica le difficoltà ermeneutiche e, con esse, la compresenza sistematica di due complessi di disposizioni di problematica coniugabilità.

A fronte delle criticità interpretative, non può sottacersi che, se la soluzione più agevolmente percorribile è quella che considera il carattere di “esclusività” dell’accesso di cui al comma 5-quater (con riveniente non proponibilità dell’accesso nelle forme “ordinarie”; e con accessivo assoggettamento dell’esercizio del diritto al termine decadenziale di dieci giorni), nondimeno la complessiva architettura del sistema presenterebbe – a voler accedere alla tesi in discorso – profili di coerenza logica sui quali è lecito interrogarsi.

Un primo elemento sul quale è dato convenire è rappresentato dalla applicabilità della “speciale” disciplina del comma 5-quater alle classi di atti indicati nello stesso art. 79; mentre, relativamente agli atti “diversi” (ovvero, nel novero dei primi non sussumibili) troverà esclusiva applicazione la disciplina “generale” della legge 241.

Per gli atti, invece, contemplati dall’art. 79, il decorso del termine di dieci giorni – se suscettibile, in ogni caso, di determinare la legale conoscibilità degli atti ivi indicati (e, quindi, la decorrenza del termine decadenziale per l’esercitabilità dei previsti rimedi giudiziali) – è idoneo a determinare conseguenze radicalmente difformi a seconda degli orientamenti sopra indicati.

In favore della tesi propugnata dal Lipari, milita la non preclusa proponibilità, anche successiva, dell’accesso, che trova elementi di logica conferma:

-      non soltanto nell’assenza di una disposizione che precluda l’esercizio dell’accesso nelle forme e nei modi ordinari;

-      ma anche nel rilievo che, altrimenti, verrebbe a precludersi (alla parte interessata) la conoscibilità (diretta) di atti che potrebbe comunque venir conseguita attraverso la sollecitabilità dell’esercizio dei poteri istruttori da parte dell’adito organo di giustizia amministrativa.

D’altro canto, come si è avuto modo di osservare, la compresenza di due fattispecie di accesso veicolate da termini e modalità non assimilabili impone di individuare ambiti di coniugabilità delle discipline che, impregiudicata la perfettibilità delle disposizioni all’esame, consenta di individuare – allo stato attuale della normazione – un idoneo percorso applicativo.

Potrebbe, allora, ritenersi che l’accesso di cui al comma 5-quater consenta alla parte interessata di ottenere, senza alcuna formalità (e, quindi, in difetto di una rituale istanza alla quale corrisponda una formale determinazione della Stazione appaltante), la conoscibilità degli atti di gara: ben potendo collocarsi, in tale ottica, la previsione di un termine decadenziale particolarmente “breve” che troverebbe elementi di omogeneità nel quadro di una disciplina improntata ad agevole e “veloce” definizione.

Laddove, diversamente, la parte opti per la percorrenza dell’iter “formalizzato” dalla previsioni della legge 241, allora verrebbero in considerazione (esclusivamente) i termini e le modalità previsti agli artt. 22 e seguenti della legge medesima.

Si è ben consapevoli come la soluzione ora prospettata (alla luce della quale l’art. 79 verrebbe a disciplinare una forma di accesso “breve” connotato da accentuata “velocità” ed “informalità”) non consente di definire con carattere di dirimente certezza le conseguenze di carattere eventualmente “decadenziale” scaturenti dalla mancata osservanza del termine di dieci giorni di cui al comma 5-quater in ordine alla conoscibilità degli atti per laddove la parte, pur potendo esercitare l’accesso nelle forme e nei tempi previsti dalla disposizione da ultimo richiamata, abbia nondimeno “optato” per l’accesso “ordinario”.

Ma, d’altro canto, la disciplina di cui al comma 5-quater incontra profili di disagevole coniugabilità con la tutela delle posizioni di soggetti “terzi” coinvolte dall’esercizio del diritto di accesso.

Come è noto, il comma 6 dell’art. 5 del D.P.R. 12 aprile 2006 n. 184 (Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi), nel disciplinare l’accesso “informale”, prevede che, “la pubblica amministrazione, qualora in base al contenuto del documento richiesto riscontri l'esistenza di controinteressati, invita l'interessato a presentare richiesta formale di accesso”; mentre il successivo art. 6 stabilisce che “qualora non sia possibile l'accoglimento immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla sussistenza dell'interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite, sull'accessibilità del documento o sull'esistenza di controinteressati, l'amministrazione invita l'interessato a presentare richiesta d'accesso formale, di cui l'ufficio rilascia ricevuta”.

Potrebbe allora ritenersi che il comma 5-quater dell’art. 79 del Codice dei contratti abbia inteso disciplinare – in maniera peraltro diversa rispetto al contenuto del testo regolamentare ora richiamato – esclusivamente l’accesso “informale” agli atti di gara nel caso in cui non vengano in considerazione (non soltanto i profili eventualmente ostativi di cui al riportato comma 1 dell’art. 6 del Regolamento accesso, ma, soprattutto, la presenza di eventuali controinteressati alla conoscibilità degli atti e documenti richiesti); mentre, per quanto riguarda le ipotesi in cui non venga in considerazione tale “agevolata” modalità di conoscenza documentale, non potrebbe che trovare applicazione la disciplina “ordinaria” di cui alla legge 241/1990.

Tale percorso ermeneutico:

-      se consente di escludere il verificarsi di alcun effetto “decadenziale” allo spirare del termine di dieci giorni, rilevante esclusivamente nel quadro dell’accesso “informale” e nei limiti in cui tale strumento possa trovare compiuta esercitabilità;

-      d’altro canto propone profili di ottimale coniugabilità con la tutela delle posizioni giuridiche dei soggetti eventualmente interessati ad opporsi alla conoscibilità di taluni atti;

-      e, conclusivamente, consente di superare le ambiguità ermeneutiche che al compresenza dei due istituti, come in precedenza sottolineato, ha proposto all’attenzione degli interpreti in sede di prima lettura della norma in rassegna.

Impregiudicata, ovviamente, la compiuta definizione della questione sopra esaminata, un auspicabile elemento di chiarificazione bel potrà conseguire ad un intervento legislativo “correttivo” che delimiti l’ambito applicativo della disposizione di cui al comma 5-quater dell’art. 79; e, conseguentemente, elida l’ipotizzabile alternatività degli esaminati complessi di disposizioni e, con essa, l’effetto ipoteticamente “decadenziale” suscettibile di accedere alla mancata opzione per l’accesso ex art. 79 rispetto alle “ordinarie” modalità di conoscenza degli atti e documenti, per come disciplinate dalla legge 241/1990.

 

 

10. Tutela in forma specifica e per equivalente

Significative sono le modificazioni, sul punto, che hanno contraddistinto la transizione dalle modificazioni introdotte al Codice dei contratti per effetto del recepimento della Direttiva ricorsi alle indicazioni ora contenute nel nuovo Codice di rito.

L’art. 245-quinquies del primo degli indicati testi, infatti, nel subordinare l'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto “alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 245-bis e 245-ter”, soggiungeva che, in difetto di declaratoria di inefficacia dello strumento negoziale, era possibile:

-      su domanda

-      e a favore del solo ricorrente avente titolo all'aggiudicazione

il risarcimento per equivalente del danno da questi subito e provato.

La disposizione ex art. 124 del Codice processuale, pur ribadendo i presupposti già disciplinati nella previgente norma del 245-quinquies, ha eliminato la locuzione “a favore del solo ricorrente avente titolo all'aggiudicazione”; e non ha, altresì, riprodotto l’esigenza che la relativa pronunzia sia obbligatoriamente veicolata dalla domanda di parte.

Sotto il primo degli indicati profili, non vi è dubbio che sia stata eliminata “l’incomprensibile esclusione della risarcibilità del danno da ‘perdita di chances’, stabilita dal decreto legislativo n. 53/2010”[76].

Per quanto concerne la pure espunta indicazione che subordinava la pronunzia sul risarcimento alla proposizione di una domanda di parte, deve invece ritenersi che l’omissione rilevabile dal testo del vigente art. 124 non abbia reso rilevabile d’ufficio la valutazione in ordine alla pretesa di che trattasi.

Ferma l’opportunità che, per evidenti ragioni di chiarezza, venga reintrodotta la locuzione “su domanda”, va infatti osservato che integra la presenza di un principio generale dell’ordinamento la deducibilità in giudizio, rimessa alla parte interessata, delle pretese suscettibili di essere portate all’attenzione dell’organo di giustizia: la rilevabilità d’ufficio delle questioni dovendo, al contrario, trovare espressa contemplazione normativa[77].

Nel senso sopra indicato – e, dunque, in favore dell’esclusiva azionabilità su iniziativa di parte della pretesa risarcitoria – milita con dirimente carattere ermeneutico la disposizione generale di cui all’art. 30 del Codice di rito[78]; anche la possibilità che il giudice disponga la conversione delle azioni, ai sensi del comma 2 del successivo art. 32 transitando attraverso la verifica della sussistenza dei relativi presupposti e, quindi, attraverso la “riconoscibilità” della deduzione di una pretesa risarcitoria – ancorché veicolata da altro “contenitore” processuale – e la riscontrabilità degli elementi identificativi di essa.

Piuttosto, è rimessa al giudice, in applicazione del comma 4 dell’art. 34[79], la facoltà di individuare, ferma l’iniziativa di parte ed in difetto di elementi in essa riscontrabili suscettibili di consentire una puntuale quantificazione della pretesa, i criteri idonei a condurre ad una determinazione del pregiudizio, anche rimettendone la concreta commisurazione ad una “proposta” che il debitore può essere chiamato a formulare nei confronti del creditore.

Tale indicazione va, ovviamente, coniugata con la previsione, contenuta nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 124, secondo cui il risarcimento del danno per equivalente postula che il relativo pregiudizio venga, dalla parte interessata, “provato”.

Non sono infatti concettualmente assimilabili l’esigenza di offrire in giudizio idonei elementi dimostrativi in ordine alla configurazione del pregiudizio (asseritamente) subito, alla riconducibilità dello stesso alla condotta (attiva od omissiva) di altro soggetto ed alla sussistenza dell’imprescindibile nesso di derivazione causale del primo dalla seconda rispetto alla quantificazione monetaria che possa aver assunto la consistenza che il danno stesso riveli con riferimento alla sfera patrimoniale del soggetto che abbia dedotto la relativa pretesa.

Deve, conseguentemente, escludersi che gli elementi probatori contenuti nella domanda risarcitoria ex comma 1 dell’art. 124 debbano necessariamente estendersi alla commisurazione del pregiudizio lamentato, essendo invece sufficiente che la deduzione in giudizio della pretesa rechi la compiuta identificazione del pregiudizio stesso, con rimessione all’organismo giudiziale delle attività (esercitabili anche d’ufficio) preordinate alla compiuta ricostruzione della quantificazione del danno[80].

Merita attenzione anche la previsione dettata dal comma 2 dell’art. 124, secondo cui “la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile”.

L’opzione preferita dal Legislatore non esclude la risarcibilità del pregiudizio, in un’ottica rigidamente sanzionatoria, per la parte che non abbia chiesto, in sede giudiziale, di conseguire l’aggiudicazione o di stipulare il contratto, o, ancora, di subentrare nel rapporto contrattuale già in essere: piuttosto stabilendo che tale condotta sia suscettibile di valutazione unicamente in sede di commisurazione del pregiudizio riconoscibile.

Previsione senz’altro corretta, ove si consideri che l’iniziativa giudiziale, ove non accompagnata dalla deduzione della pretesa di conseguimento dell’aggiudicazione e/o di subingresso nell’accessivo rapporto negoziale (ma veicolata esclusivamente dall’interesse al ristoro economico), è suscettibile di determinare effetti caducatori sull’azione amministrativa che non trovano elementi di corretta corrispondenza nella rivendicazione di un diverso assetto di interessi sostanziali conseguenti allo svolgimento della procedura selettiva[81].

Viene, per l’effetto, a delinearsi una conseguenza di carattere para-sanzionatorio, la cui valenza dissuasiva (di deterrenza) nei confronti della delimitazione in un ambito esclusivamente economico delle contestazioni in sede giudiziale rileva:

-      non soltanto in ragione dell’esercitabilità di un potere “riduttivo”, da parte del giudice, nella quantificazione del pregiudizio risarcibile, a fronte di una condotta il cui diligente impiego avrebbe potuto attenuare il danno risentito dalla parte;

-      ma, soprattutto, in considerazione del fatto che, come inequivocabilmente esplicitato dall’art. 30 del Codice di rito[82], il comportamento di parte è suscettibile (nei casi, ovviamente, in cui esso riveli più grave attitudine concorsuale ai fini della produzione del pregiudizio), di condurre all’esclusione di alcun risarcimento.

Il richiamo all’art. 1227 c.c. – e, con esso al concorso colposo del debitore nel processo causativo dell’evento del quale venga lamentata la valenza pregiudizievole, con le ricadute normativamente contemplate con riferimento alla riduzione del risarcimento “secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate” – è senz’altro opportuno, anche se la disposizione di carattere generale, contenuta nel citato art. 30 dello stesso Codice di rito, ancorché non recante omogeneo rinvio, è palesemente suscettibile di condurre ad analoghe conclusioni[83].

 

 

11. Le infrastrutture strategiche

L’art. 125 del Codice di rito, relativo ai giudizi che riguardano le procedure di progettazione, approvazione, e realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi e relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento, di cui alla parte II, titolo III, capo IV del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, presenta elementi di rilevante interesse soprattutto per quanto concerne la fase cautelare.

Prevede infatti il comma 2 della disposizione in rassegna che, “in sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure”.

La previsione segna una linea di sostanziale continuità con il previgente quadro normativo, ancorché la formulazione letterale della norma sia contraddistinta da precisazioni evolutive che hanno puntualizzato la sostanza dell’apprezzamento rimesso all’organo di giustizia in sede di decisione dell’istanza cautelare.

La disposizione già dettata dalla lett. b) dell’art. 14 del D.Lgs. 20 agosto 2002 n. 190, nel recare l’enunciazione relativa alla necessaria ponderazione “delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera”, diversamente disciplinava la valutazione giudiziale in sede decisoria sulla concedibilità – o meno – della misura cautelare, affermando che, a tal fine, “il giudice non potrà prescindere dal motivare anche sulla gravità ed irreparabilità del pregiudizio all'impresa del ricorrente, il cui interesse dovrà comunque essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure”.

Se, quindi, la previsione ora vigente evidenzia una esigenza di valutazione “anche” del pregiudizio per il ricorrente, diversamente l’originaria formulazione dell’art. 14 del D.Lgs. 190/2002 imponeva con carattere di imprescindibilità l’ostensione di un apposito apparato motivazionale (non solo del pregiudizio, ma) della “gravità” ed “irreparabilità” del danno lamentato dalla parte ricorrente.

La transizione verso l’attuale formulazione normativa era stata, peraltro, già realizzata dalla previsione dettata dal comma 3 dell’art. 246 del Codice appalti, transitato ora senza modificazioni nel già citato art. 124 del Codice di rito.

Sembra abbastanza evidente che, ancorché in assenza di specifica puntualizzazione normativa, la “valutazione” in ordine alla irreparabilità del lamentato pregiudizio debba necessariamente trovare emersione nella motivazione del provvedimento decisorio in ordine alla formulata istanza cautelare: a conclusioni difformi non essendo dato, invero, pervenire, laddove si consideri che la “sostanza” del pregiudizio stesso rivela profili identificativi con le conseguenze lesive relative ad una posizione soggettiva che, anche nell’attuale formulazione normativa, deve comunque essere ponderativamente apprezzata con il complesso di interessi normativamente contemplati.

Se la pur diversificata formulazione normativa induce a ritenere che non si sia, comunque, consumata un’attenuazione dell’onere motivazionale che deve assistere la determinazione giudiziale resa nella fase cautelare, atteso che il “peso” che un’eventuale decisione di accoglimento è suscettibile di assumere, nel quadro di una comparazione di interessi che non può non contemplare la rilevanza assunta non soltanto dalla posizione sostanziale dell’aggiudicatario, ma anche – se non soprattutto – dall’“interesse nazionale alla realizzazione dell’opera”.

Se è vero che la disposizione in rassegna, quanto alla ponderazione comparativa degli interessi, prende espressamente in considerazione le (sole) posizioni del ricorrente e dell’aggiudicatario, deve rilevarsi che l’espressa contemplazione, nell’ambito dei presupposti che devono assistere la disamina dell’istanza cautelare, delle “probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi”, nonché del suindicato “preminente interesse nazionale” imponga una considerazione estesa all’intero novero delle posizioni giuridiche coinvolte dall’impugnativa.

Tale considerazione, che necessariamente accede alla formulazione della disposizione in rassegna – e che promana, in una sostanziale linea di continuità dispositiva, dal previgente quadro normativo – rende, con ogni evidenza, nei fatti marginale l’ipotesi di accoglimento dell’istanza cautelare: confermandosi in tal senso l’evidente favor manifestato dal Legislatore per una definizione “nel merito” della controversia, i cui tempi attuativi sono significativamente compressi.

È da ritenersi, in proposito, che la concessione del provvedimento cautelare potrà accedere non soltanto all’esito favorevole della comparazione di interessi sopra indicati, ma anche all’emersione di un pregiudizio per la parte ricorrente – evidentemente accessiva alla preventiva e prognostica valutazione della fondatezza delle ragioni da essa fatte valere in giudizio – che, ove realizzatosi, vanificherebbe inesorabilmente le possibilità di conseguire tutela in termini di effettività.

Il sottile crinale suscettibile di orientare le scelte legislative fra esigenze di tutela per le ragioni della parte ricorrente e esigenze di salvaguardia dell’interesse pubblico (nazionale?) alla realizzazione dell’opera infrastrutturale è adeguatamente illustrato dalla definizione normativa delle vicende del contratto a fronte dell’annullamento dell’aggiudicazione.

La versione dell’art. 246 previgente rispetto alle modificazioni introdotte in sede di recepimento della Direttiva ricorsi (già) prevedeva che il contratto, una volta stipulato, non potesse essere (comunque) depotenziato nella sua effettività, coerentemente relegando l’ipotesi risarcitoria in un ambito esclusivamente monetario (per equivalente)[84].

Come si è avuto modo di osservare, il recepimento della Direttiva ricorsi ha escluso che il mantenimento del contratto possa integrare la presenza di una regola di carattere generale, essendo state espressamente disciplinate ipotesi al ricorrere delle quali la rilevata consistenza dei vizi dell’aggiudicazione induce la deprivazione di effetti dello strumento negoziale (e, quindi, per le violazioni meno gravi, dove non sussistono vizi sostanziali comportanti l’annullamento dell’aggiudicazione, il contratto rimane in vita e trovano applicazione le sole sanzioni alternative; mentre, per le violazioni “non gravi”, è rimessa all’organo di giustizia la valutazione in ordine alla eventuale privazione di effetti del contratto medesimo).

In un quadro parzialmente derogatorio rispetto ai principi generalmente operanti in materia di controversie aventi ad oggetto appalti pubblici, il comma 3 dell’art. 125 ha sottratto al giudice, per le violazioni non gravi, la valutazione in ordine al mantenimento – o meno – dell’efficacia del contratto.

Recita infatti la disposizione da ultimo citata che “ferma restando l'applicazione degli articoli 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente. Si applica l'articolo 34, comma 3”.

La portata applicativa della riportata disposizione induce a schematizzare gli scenari proponibili in questo modo:

-      violazioni “gravi”: trova applicazione l’art. 121, con riveniente inefficacia del contratto a seguito del disposto annullamento dell’aggiudicazione;

-      violazioni “meno gravi” ex art. 121, comma 4 (il contratto rimane efficace, ovvero l’inefficacia è temporalmente limitata): trova applicazione l’art. 123 e, con esso, viene in considerazione l’irrogabilità delle sanzioni alternative ivi disciplinate;

-      violazioni “non gravi”: non è operante la disposizione dell’art. 122 e, con essa, la prerogativa giudiziale in ordine alla scelta se pronunziare – o meno – la declaratoria di inefficacia del contratto. Il contratto rimane, pertanto, in ogni caso efficace e l’eventuale risarcimento dovrà avvenire esclusivamente nelle forme del ristoro per equivalente monetario.

Ferma l’imperfezione della norma (la caducazione del contratto può in realtà conseguire alla sola pronunzia con la quale venga annullato l’affidamento – rectius, l’aggiudicazione – e non anche alla decisione con la quale venga sospesa l’efficacia di tale determinazione, che ha valenza solo temporaneamente “sterilizzante” l’idoneità dell’atto a produrre effetti giuridici, e non già caducatoria), il sistema coerentemente delinea una filosofia di fondo evidenziante un evidente favor per la prosecuzione del rapporto negoziale in essere, quale preordinata a garantire la realizzazione (e/o il completamento) dell’intervento “strategico”.

Va ulteriormente sottolineato che il punto 41) dell’art. 4 dell’Allegato 4 (Norme di coordinamento e abrogazioni) del Codice di rito, ha infatti abrogato l’art. 20, comma 8, del decreto-legge 29 novembre 2008 n. 185 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2)[85], fermo quanto previsto dall’articolo 15, comma 4, del D.Lgs. 20 marzo 2010, n. 53[86].

Il complesso quadro che ne emerge può così riassumersi:

-      disciplina speciale per gli interventi strategici, alla luce di quanto precedentemente esposto, sostitutiva del previgente assetto normativo;

-      disciplina maggiormente “speciale” per gli interventi a fronte dei quali il competente organismo commissariale sia già stato nominato, o la cui nomina intervenga nei novanta giorni successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. 53/2010[87].

L’esplicitata “transitorietà” non deve ingannare sulla protrazione di effetti che la disciplina “derogatoria” di cui sopra è destinata a produrre, solo che si consideri la durata temporale degli interventi di che trattasi, alla quale con ogni evidenza accede la perduranza di effetti della norma sopra riportata per un periodo che, complessivamente, potrà assumere considerevole estensione.

Merita sottolineare come, per effetto di tale disciplina, relativamente alle controversie in materia di interventi strategici troveranno perdurante applicazione, al ricorrere dei presupposti indicati dalle disposizioni da ultimo richiamate, i seguenti principi:

-      gli effetti del contratto non potranno, in ogni caso, venire meno, ancorché si sia in presenza di violazioni “gravi” (le misure cautelari e l'annullamento dei provvedimenti impugnati non possono, infatti, “comportare, in alcun caso, la sospensione o la caducazione degli effetti del contratto già stipulato”);

-      il risarcimento avverrà, ove del caso, nella sola forma del ristoro per equivalente (in caso di in caso di annullamento degli atti della procedura, il giudice può infatti “esclusivamente disporre il risarcimento degli eventuali danni, ove comprovati, solo per equivalente”);

-      la concreta commisurazione di tale risarcimento incontra, peraltro, un “tetto” normativamente disciplinato (“il risarcimento per equivalente del danno comprovato non può comunque eccedere la misura del decimo dell'importo delle opere che sarebbero state eseguite se il ricorrente fosse risultato aggiudicatario, in base all'offerta economica presentata in gara”).

A prescindere dalla (ben più che dubbia) opportunità di mantenimento di un regime che, dichiaratamente “transitorio”, viene invece a “coprire” così rilevanti interventi per un arco temporale che si dimostrerà, inevitabilmente, significativamente esteso – si da poter ragguagliare la disposizione di che trattasi ad una vera e propria norma “a regime” la cui caducazione di effetti, ancorché certa nell’an, è meno certa nel quando – va condiviso quanto osservato da De Nictolis[88] circa la “dubbia compatibilità comunitaria” della regola come sopra dettata anche relativamente alle “violazioni gravi”: a meno di ritenere (con perplesso percorso argomentativo; ed ancor più perplesse conclusioni) che per gli interventi de quibus abbiano vigenza, sempre e comunque, quelle “esigenze imperative” che precludono la sterilizzazione di effetti del contratto”[89].

 

 

12. Conclusioni

Quasi inevitabilmente, a compendio dell’articolata riflessione condotta in ordine alle modificazioni introdotte in sede di “varo” del Codice processuale, l’estensore del presente scritto si trova a dover svolgere brevi considerazioni conclusive.

Si potrebbe, a tale riguardo, evocare il carattere “epocale” integrato dall’approvazione del Codice di rito, in esito ad un lungo percorso segnato da una (seppur faticosa) opera interpretativa (rimessa non soltanto alle pronunzie, ma anche al prezioso, quanto insostituibile apporto del foro e del mondo accademico).

Se eventuali suggestioni retoriche ben possono essere tralasciate – pur non potendosi, ovviamente, pretermettere la profonda significatività rivestita dall’intervento legislativo consumato dal Decreto 104 – altrettanto inappropriate si dimostrano intenzioni sterilmente chiosastiche volte ad esaltare, con ragionieristica pedanteria, le “sviste” o “disattenzioni” che – segnatamente nella materia in precedenza trattata – hanno connotato la traslazione delle disposizioni processuali dal Codice dei contratti (emendato a seguito del recepimento della Direttiva ricorsi) al Codice processuale.

È indiscutibile che la tecnica dei “correttivi” – che ha già contrassegnato il Codice dei contratti; e che, quasi inevitabilmente, contraddistinguerà gli “aggiustamenti” dell’approvata disciplina di rito – può lasciar adito a fondate perplessità; non potendosi l’interprete non interrogare sulla maggiore opportunità, in luogo di un’immediata vigenza che taluno potrebbe definire “frettolosa”, di una sottoposizione del testo alla disamina degli operatori al fine di pervenire, in esito al necessario confronto dialettico con le categorie interessate, all’acquisizione di un più ampio raggio di opinioni suscettibili di orientare le scelte conclusive del Legislatore delegato in maniera auspicabilmente più accorta.

Se è ben vero che siffatta modalità “negoziata” di definizione dei testi legislativi può apparire “rivoluzionariamente” estranea all’ordinario modus procedendi che assiste il confezionamento dei testi legislativi (vieppiù ove presidiati dalla presenza di una legge di delegazione), va tuttavia osservato come l’elevato tecnicismo delle disposizioni di rito ben avrebbe potuto suggerire la percorrenza di un iter maggiormente “cauto”, onde scongiurare la necessità – che pare assistita da elementi di concretezza – di porre immediatamente mano al Codice con interventi di aggiustamento e/o affinamento[90].

Ciò che preme sottolineare – dall’angolazione visuale dello scrivente – è, piuttosto, la sfida che il nuovo Codice propone al personale di magistratura: chiamato a promuovere una vera e propria riconversione “culturale” verso un modello di giustizia il cui concreto atteggiarsi potrà essere compiutamente delineato soltanto dalla pratica giudiziaria che accompagnerà (sia pure attraverso inevitabili incertezze e/o correzioni di rotta) l’interpretazione e l’applicazione delle nuove disposizioni.

Se tale “sfida” viene, inevitabilmente, ad incrociare il proprio percorso attuativo con inadeguatezze strutturali ed organizzative del servizio giustizia, tali elementi di criticità non possono tuttavia rappresentare un “alibi” per chi si troverà chiamato a dare attuazione al nuovo “modello” di processo, spesso superando (con intuibili difficoltà) consolidati schemi culturali.

La vera “sfida” è proprio questa: fornire una risposta adeguata all’(aggiornata) esigenza di giustizia richiesta dall’attuale assetto sociale senza travisare le pur evidenti criticità operative dietro “consuete” difese corporative.

Una risposta che non potrà non transitare se non attraverso l’impegno, l’applicazione e – si consenta tale riferimento – la passione che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali deve, necessariamente, comportare.

Sia pure nel dare atto dell’inevitabile enfasi retorica, è quindi auspicabile “appropriarsi” di quelle parole che sottolineavano come, “quando abbiamo scelto la professione nella quale possiamo maggiormente operare per l'umanità, allora gli oneri non possono schiacciarci, perché essi sono soltanto un sacrificio per il bene di tutti; allora non gustiamo una gioia povera, limitata ed egoistica, ma la nostra felicità appartiene a milioni, le nostre imprese vivono silenziosamente, ma eternamente operanti”[91].

 

Roberto Politi



(*) Il presente contributo ha formato oggetto di un intervento tenuto il 28 settembre 2010 nel corso di un incontro di studio riservato ai magistrati, svoltosi presso la sede del T.A.R. del Lazio in Roma

 

[1] D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104, “Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo”, pubblicato nella Gazz. Uff. 7 luglio 2010, n. 156, S.O.

[2] M.LIPARI, La direttiva ricorsi nel Codice del processo amministrativo: dal 16 settembre 2010 si cambia ancora?, in Federalismi.it, 2010, n.14.

[3] M.LIPARI, cit.

[4] M. LIPARI, cit.

[5] M. LIPARI, cit.

[6] “2. Nel caso in cui sia mancata la pubblicità del bando, il ricorso non può comunque essere più proposto decorsi trenta giorni decorrenti dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione definitiva di cui all'articolo 65 e all'articolo 225 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, a condizione che tale avviso contenga la motivazione dell'atto con cui la stazione appaltante ha deciso di affidare il contratto senza previa pubblicazione del bando. Se sono omessi gli avvisi o le informazioni di cui al presente comma oppure se essi non sono conformi alle prescrizioni ivi contenute, il ricorso non può comunque essere proposto decorsi sei mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto”.

[7] “1. Le stazioni appaltanti che hanno aggiudicato un contratto pubblico o concluso un accordo quadro inviano un avviso secondo le modalità di pubblicazione di cui all'articolo 66, conforme all’allegato IX A, punto 5, relativo ai risultati della procedura di aggiudicazione, entro quarantotto giorni dall'aggiudicazione del contratto o dalla conclusione dell'accordo quadro.

2. Nel caso di accordi quadro conclusi in conformità all'articolo 59, le stazioni appaltanti sono esentate dall'invio di un avviso in merito ai risultati della procedura di aggiudicazione di ciascun appalto basato su tale accordo.

3. Le stazioni appaltanti inviano un avviso relativo al risultato dell'aggiudicazione degli appalti basati su un sistema dinamico di acquisizione entro quarantotto giorni dall'aggiudicazione di ogni appalto. Esse possono tuttavia raggruppare detti avvisi su base trimestrale. In tal caso, esse inviano gli avvisi raggruppati al più tardi quarantotto giorni dopo la fine di ogni trimestre.

4. Nel caso degli appalti pubblici di servizi elencati nell'allegato II B, le stazioni appaltanti indicano nell'avviso se acconsentono o meno alla sua pubblicazione.

5. L’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene gli elementi indicati nel presente codice, le informazioni di cui all’allegato X A e ogni altra informazione ritenuta utile, secondo il formato dei modelli di formulari adottati dalla Commissione.

6. Talune informazioni relative all'aggiudicazione del contratto o alla conclusione dell’accordo quadro possono essere omesse qualora la loro divulgazione ostacoli l'applicazione della legge, sia contraria all'interesse pubblico, pregiudichi i legittimi interessi commerciali di operatori economici pubblici o privati oppure possa recare pregiudizio alla concorrenza leale tra questi”.

[8] “1. Gli enti aggiudicatori che abbiano aggiudicato un appalto o concluso un accordo quadro inviano un avviso relativo all'appalto aggiudicato conformemente all'allegato XVI, entro due mesi dall'aggiudicazione dell'appalto o dalla conclusione dell'accordo quadro e alle condizioni dalla Commissione stessa definite e pubblicate con decreto del Ministro per le politiche comunitarie.

2. Nel caso di appalti aggiudicati nell'ambito di un accordo quadro in conformità all'articolo 222, comma 2, gli enti aggiudicatori sono esentati dall'obbligo di inviare un avviso in merito ai risultati della procedura di aggiudicazione di ciascun appalto basato su tale accordo.

3. Gli enti aggiudicatori inviano un avviso relativo agli appalti aggiudicati basati su un sistema dinamico di acquisizione entro due mesi a decorrere dall'aggiudicazione di ogni appalto. Essi possono tuttavia raggruppare detti avvisi su base trimestrale. In tal caso, essi inviano gli avvisi raggruppati al più tardi due mesi dopo la fine di ogni trimestre.

4. Le informazioni fornite ai sensi dell'allegato XVI e destinate alla pubblicazione sono pubblicate in conformità con l'allegato X. A tale riguardo la Commissione rispetta il carattere commerciale sensibile segnalato dagli enti aggiudicatori quando comunicano informazioni sul numero di offerte ricevute, sull'identità degli operatori economici o sui prezzi.

5. Gli enti aggiudicatori che aggiudicano un appalto per servizi di ricerca e sviluppo senza indire una gara ai sensi dell'articolo 221, comma 1, lettera b), possono limitare le informazioni da fornire, secondo l'allegato XVI, sulla natura e quantità dei servizi forniti, alla menzione «servizi di ricerca e di sviluppo».

6. Gli enti aggiudicatori che aggiudicano un appalto di ricerca e sviluppo che non può essere aggiudicato senza indire una gara ai sensi dell'articolo 221, comma 1, lettera b), possono limitare le informazioni da fornire ai sensi dell'allegato XVI, sulL. n.tura e quantità dei servizi forniti, per motivi di riservatezza commerciale. In tal caso, essi provvedono affinché le informazioni pubblicate ai sensi del presente comma siano almeno altrettanto dettagliate di quelle contenute nell’avviso con cui si indice una gara pubblicato ai sensi dell’articolo 224, comma 1.

7. Se ricorrono ad un sistema di qualificazione, gli enti aggiudicatori provvedono affinché tali informazioni siano almeno altrettanto dettagliate di quelle della corrispondente categoria degli elenchi o liste di cui all’articolo 232, comma 9.

8. Nel caso di appalti aggiudicati per servizi elencati nell'allegato II B, gli enti aggiudicatori indicano nell'avviso se acconsentono alla sua pubblicazione.

9. Le informazioni fornite ai sensi dell'allegato XVI e non destinate alla pubblicazione sono pubblicate solo in forma semplificata e ai sensi dell'allegato X per motivi statistici”.

[9]5. In ogni caso l’amministrazione comunica di ufficio:

a) l'aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;

b) l’esclusione, ai candidati e agli offerenti esclusi, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni dall’esclusione;

b-bis) la decisione, a tutti i candidati, di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro;

b-ter) la data di avvenuta stipulazione del contratto con l'aggiudicatario, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, ai soggetti di cui alla lettera a) del presente comma”.

[10] Osservazioni (parzialmente) perplesse sul termine semestrale de quo vengono anche rassegnate da CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo, Giuffrè 2010, 572-573, il quale, nel rammentare il giudizio di criticità espresso sulla norma in questione dal Consiglio di Stato (pur in presenza della coerenza della disposizione con le previsioni della legge-delega e, a monte, della Direttiva ricorsi), osserva – del tutto condivisibilmente – che “la norma … introducendo una vistosa deroga a principi giuridici consolidati in materia di impugnazione degli atti amministrativi, risulta del tutto estranea al nostro sistema processuale”.

[11]2-quinquies. I termini processuali sono stabiliti in:

a) trenta giorni per la notificazione del ricorso e per la proposizione di motivi aggiunti avverso atti diversi da quelli già impugnati, decorrenti dalla ricezione della comunicazione degli atti ai sensi dell'articolo 79 o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8;

b) dieci giorni per il deposito del ricorso principale, del ricorso incidentale, dell'atto contenente i motivi aggiunti, dell'appello avverso l'ordinanza cautelare;

c) trenta giorni per la proposizione del ricorso incidentale, decorrenti dalla notificazione del ricorso principale;

d) quindici giorni per la proposizione dei motivi aggiunti avverso gli atti già impugnati;

e) quindici giorni per l'appello avverso l'ordinanza cautelare decorrenti dalla sua comunicazione o, se anteriore, notificazione”.

[12] “5. Per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto”.

[13] In tal senso, LIPARI, op. cit.

[14] Per cui “I nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti”.

[15] In tal senso, cfr. G. FERRARI, Il nuovo codice del processo amministrativo, Nel Diritto Editore, 2010, pag. 395, laddove si sostiene, invero condivisibilmente, che “se tutti gli atti della stessa procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti … è ragionevole ritenere che tale prescrizione non sia imposta a pena di inammissibilità e che ove sia proposto un nuovo, separato ricorso, il giudice possa riunirli ai sensi dell’art. 70 (Riunione dei ricorsi)”.

[16] L’effetto “automaticamente” sospensivo sugli atti impugnati, riveniente dalla proposizione del ricorso giurisdizionale, è un istituto peraltro non nuovo nel nostro ordinamento.

Se l’art. 14 del D.Lgs. 20 agosto 2002 n. 190 (Attuazione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale) già prevedeva l’obbligo, in capo al soggetto aggiudicatore, di comunicare il provvedimento di aggiudicazione ai controinteressati almeno trenta giorni prima della firma del contratto, l’art. 11, comma 10, del testo originario del D.Lgs. 163/2006 aveva introdotto il generalizzato divieto di stipula del contratto prima di trenta giorni dalla comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione, “ai sensi dell'articolo 79, salvo motivate ragioni di particolare urgenza che non consentono all'amministrazione di attendere il decorso del predetto termine” (deroga non operante, peraltro, relativamente ai contratti relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi); mentre l’art. 20, comma 8-bis, del decreto legge 29 novembre 2008 n. 185 (convertito, con modificazioni, in legge 28 gennaio 2009, n. 2 e recante “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”) aveva escluso, “per la stipulazione dei contratti ai sensi del presente articolo” l’applicazione del “termine di trenta giorni previsto dall'articolo 11, comma 10, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

Fuori dalla materia dei contratti pubblici, è da rammentare come l’art. 5, comma 4, del decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416 (convertito con modificazioni in legge 28 febbraio 1990 n. 39) avesse stabilito che “fatta salva l'esecuzione dei provvedimenti disposti a norma dell'art. 7, comma 5, per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, qualora venga proposta, e notificata entro quindici giorni dalla conoscenza del provvedimento, la domanda incidentale di sospensione, l'esecuzione del provvedimento di espulsione adottato dal prefetto resta sospesa fino alla definitiva decisione sulla domanda cautelare”.

Anche l’art. 10, comma 2-septies, del D.Lgs. 15 gennaio 2001 n. 8 (convertito con modificazioni in legge 15 marzo 1991 n. 82 e recante “Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”), aggiunto dall'art. 3, comma 1, lettera d), della legge 13 febbraio 2001, n. 45 ha stabilito, con omogeneo effetto sospensivo sull’esecuzione del provvedimento gravato in sede giurisdizionale, che “nel termine entro il quale può essere proposto il ricorso giurisdizionale ed in pendenza del medesimo il provvedimento di cui al comma 2-sexies rimane sospeso sino a contraria determinazione del giudice in sede cautelare o di merito (disposizione, ora, abrogata ai sensi del punto 15 dell’art. 4 dell’Allegato 4 del Codice di rito).

[17] R. DE NICTOLIS, Il recepimento della direttiva ricorsi nel codice appalti e nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it

[18] Che prevede che “Il termine dilatorio di cui al comma 10 non si applica nei seguenti casi:

a) se, a seguito di pubblicazione di bando o avviso con cui si indice una gara o inoltro degli inviti nel rispetto del presente codice, è stata presentata o è stata ammessa una sola offerta e non sono state tempestivamente proposte impugnazioni del bando o della lettera di invito o queste impugnazioni risultano già respinte con decisione definitiva;

b) nel caso di un appalto basato su un accordo quadro di cui all'articolo 59 e in caso di appalti specifici basati su un sistema dinamico di acquisizione di cui all'articolo 60”.

[19] Si rammenti che, ai sensi del comma 4 dell’art. 120 del Codice di rito, “quando è impugnata l'aggiudicazione definitiva, se la stazione appaltante fruisce del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, il ricorso è notificato, oltre che presso detta Avvocatura, anche alla stazione appaltante nella sua sede reale, in data non anteriore alla notifica presso l'Avvocatura, e al solo fine dell'operatività della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto”.

[20] D. PONTE, La direttiva ricorsi influenza la norma codicistica, in Guida al diritto, 2010, n.33. p. 27 e ss.

[21] M. LIPARI, cit.

[22] Che prevede che “Il presidente della sezione o un magistrato da lui delegato adotta, su istanza motivata di parte, i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria”.

[23] Il comma 4 dell’art. 119 prevede che trovino applicazione al procedimento cautelare relativo alle controversie ivi contemplate le disposizioni del Titolo II del Libro II, “in quanto non derogate dal presente articolo”.

[24] Per l’art. 60 del D.Lgs. 104/2010 (Definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare), “in sede di decisione della domanda cautelare, purché siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata, salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione. Se la parte dichiara che intende proporre regolamento di competenza o di giurisdizione, il giudice assegna un termine non superiore a trenta giorni. Ove ne ricorrano i presupposti, il collegio dispone l'integrazione del contraddittorio o il rinvio per consentire la proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione e fissa contestualmente la data per il prosieguo della trattazione”.

[25] Il comma 2-octies dell’art. 245, come introdotto in sede di recepimento della Direttiva ricorsi, prevedeva infatti che “Il processo, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è dato avviso alle parti a cura della segreteria, anche a mezzo fax o posta elettronica, almeno venti giorni liberi prima della data dell'udienza”.

[26] Così DE NICTOLIS, op. cit., che osserva come “Il termine è … da ritenere ordinatorio e non perentorio, e la sua inosservanza non comporta decadenze sul piano processuale”.

[27] Per lo stesso Autore, le implicazioni indotte dalla previsione in rassegna sono suscettibili di determinare uno sviluppo applicativo “della disciplina contenuta nell’articolo 8 delle norme di attuazione, riguardante l’ordine di fissazione dei ricorsi”.

La norma ora citata, nello stabilire che “La fissazione del giorno dell’udienza per la trattazione dei ricorsi è effettuata secondo l’ordine di iscrizione delle istanze di fissazione d’udienza nell’apposito registro, salvi i casi di fissazione prioritaria previsti dal codice”, consente al Presidente di “derogare al criterio cronologico per ragioni d’urgenza, anche tenendo conto delle istanze di prelievo, o per esigenze di funzionalità dell’ufficio, ovvero per connessione di materia, nonché in ogni caso in cui il Consiglio di Stato abbia annullato la sentenza o l’ordinanza e rinviato la causa al giudice di primo grado.”

 

[28] Come osservato da CHIEPPA, op. cit., 570, se “qualche dubbio si potrebbe porre per le concessioni di pubblici servizi, in relazione alle quali la formula … dell’art. 23-bis della L. T.A.R. era stata interpretata come comprendente anche tali controversie … il termine ‘affidamento di servizi’ dovrebbe essere inteso come relativo a qualsiasi affidamento, sia relativo agli appalti pubblici di servizi, sia alle concessioni di servizio pubblico”.

[29] Secondo CHIEPPA, op. cit, 569-570, nel rito “appalti” “non rientrano le procedure di sola scelta del socio senza affidamento, che a questo punto non sono assoggettate neanche al rito abbreviato di cui all’art. 119, ma al rito ordinario”, a differenza delle procedure di “scelta del socio privato con contestuale affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”.

[30] Secondo LIPARI, “la diversa dislocazione delle norme sulle controversie in materia di contratti, riguardanti, rispettivamente, la giurisdizione e il rito, insieme alle complicazioni derivanti dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 53/2010, hanno determinato qualche difficoltà di conservare una piena continuità rispetto alle precedenti dizioni normative. Senza considerare, poi, che la riformulazione degli articoli 119 e 120, nonché delle connesse disposizioni sulla giurisdizione e delle norme di coordinamento non è stata effettuata dalla commissione speciale ma è stata completata, in tempi rapidissimi, dai competenti uffici legislativi ministeriali e della Presidenza del Consiglio”

[31] L’Autore, in proposito, osserva che “si è ormai consolidato un indirizzo interpretativo, confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 30 luglio 2007, n. 9, secondo cui la dimidiazione dei termini, di cui al citato art. 23 bis della legge TAR, non è applicabile alle controversie che sottopongano alla cognizione del giudice amministrativo profili di stampo esclusivamente risarcitorio”; pur non potendo omettere di rilevare come la citata sentenza “si riferisce all’ambito applicativo del rito accelerato nelle controversie espropriative”, laddove “nel codice dei contratti pubblici, il rinvio compiuto dall’articolo 245 all’articolo 244 risulta piuttosto chiaro nell’imporre l’integrale osservanza del rito speciale in tutte le controversie indicate dalla norma, che contempla espressamente anche i giudizi risarcitori”.

[32] Come indicato nella precedente nota, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 30 luglio 2007 n. 9 ha affermato che la riduzione a metà dei termini processuali, prevista dall'art. 23-bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, concerne solo l'impugnazione di atti amministrativi e non i giudizi risarcitori. Tale affermazione è stata successivamente confermata in giurisprudenza (T.A.R. Umbria, 19 novembre 2009 n. 723 e Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2009 n. 2801) peraltro sempre relativamente a controversie concernenti – come nella fattispecie presa in considerazione dalla citata Plenaria – procedure ablatorie (e non, quindi, procedimenti inerenti l’attività contrattuale della P.A.). Se l’escluso dimidiamento dei termini per le controversie risarcitorie appare suscettibile di omogenea applicazione sia per i giudizi in materia esproprativa che per quelli riguardanti l’attività contrattuale dell’Amministrazione (tutte le pronunzie sono state rese con riferimento alla previsione del previgente art. 23-bis, che commassava in un unico ambito dispositivo le diverse classi di controversie ora separatamente contemplate dal Codice di rito), laddove siano uno actu dedotte la pretesa impugnatoria e quella risarcitoria deve invece ritenersi che la ritualità del mezzo di tutela, principaliter postulante l’esercizio di un’azione demolitoria, imponga l’osservanza del termine “ridotto” dal precitato art. 23-bis. In tal senso, un opportuno chiarimento è venuto da C.G.A.R.S., sez. giurisd., 20 novembre 2008, n. 946, il quale ha affermato che “la richiesta di risarcimento del danno pone il problema del rapporto tra risarcimento del danno ed articolo 23-bis proprio per la disgiunzione delle due azioni impugnatoria e risarcitoria, spettando al giudice accertare se l'impugnazione degli atti non costituisca la vera pretesa azionata, ma sia invece stata esercitata quella meramente risarcitoria per equivalente, che, secondo l'Adunanza Plenaria n. 9 del 2007, non è soggetta ai termini dimidiati. Ne consegue che l'errore” in cui sia incorsa la parte “nel mancato rispetto dei termini dimidiati (ma non ovviamente, di quelli ordinari) può essere ritenuto scusabile perché compiuto nell'incertezza dogmatica circa la più corretta procedura da seguire per ottenere il solo risarcimento del danno e, quindi, nell'incertezza procedurale se la domanda come incardinata debba essere o no considerata rientrante nel regime dell'articolo 23 bis”.

[33] Se per l’art. 120, comma 1 “Il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei seguenti casi …”, per l’art. 123, comma 1 “1. Fuori dei casi indicati dall’articolo 121, comma 1, e dall’articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto”

[34] “Poiché è difficile pensare che si tratti di un ulteriore e separato processo, appare convincente l’opinione secondo cui anche le controversie in materia di inefficacia del contratto rientrano nell’ambito applicativo del rito speciale di cui all’articolo 120”

[35] Il cui comma prevede che, “Nei casi di cui all’articolo 121, comma 4, il giudice amministrativo individua le seguenti sanzioni alternative da applicare alternativamente o cumulativamente …”.

 

[36] Particolare interesse va, tuttavia, annesso, alla opinione manifestata dal Lipari, secondo cui “ci si potrebbe chiedere se la pubblicazione anticipata del dispositivo non possa diventare un istituto esteso al rito ordinario”. Tale suggestione, peraltro, consente di confermare il convincimento espresso nel testo, nel senso che tale pubblicazione – evidentemente su istanza di parte – estesa alle controversie non ricomprese nelle disposizioni di cui agli artt. 119 e 120, rafforza la rappresentata esigenza di rendere la pubblicazione del dispositivo relativo alla decisione che definisca le controversie di cui sopra “obbligatoria” in ogni caso, sottraendola così alla “disponibilità” delle parti proprio in ragione della particolare rilevanza delle controversie ed al carattere dei coinvolti interessi pubblici.

[37] Del tutto inaccettabile si dimostra la tesi del LIPARI, secondo cui “evidentemente, la spiegazione potrebbe derivare dalla opportunità di consentire al giudice dell’impugnazione un margine di ripensamento maggiore di quello consentito al TAR”. Lo stesso Autore si rende, peraltro, conto che, “se questa è la giustificazione, però, riuscirebbe difficile spiegare il riconoscimento di un ampio potere “dispositivo” delle parti in questo ambito: mediante la dichiarazione di interesse alla pubblicazione del dispositivo, una sola di queste potrebbe condizionare la facoltà del collegio di modificare la propria deliberazione”. Né, secondo lo stesso Autore, “riesce molto persuasiva la spiegazione offerta dalla relazione governativa, secondo cui il diverso regime della pubblicazione in primo e in secondo grado si collegherebbe al particolare meccanismo dello “stand-still”, di tal guisa che “l’esigenza di una rapida definizione della controversia emergerebbe solo nel giudizio dinanzi al tribunale, mentre essa non sarebbe ipotizzabile in secondo grado, in quanto “… – risolvendosi l’impedimento ex lege alla stipulazione comunque con la definizione del giudizio cautelare o di merito in primo grado – si è preferito non estendere una tale disposizione speciale al giudizio di ultimo grado; per il quale vanno anche ponderati gli inconvenienti connessi con l’irreparabilità di eventuali sviste occorse in sede decisoria e riscontrate solo al momento della redazione della sentenza.” L’esclusione di un così pregnante obbligo di legge – che tale è anche laddove la pubblicazione sia veicolata dalla richiesta di parte – per scongiurare “eventuali sviste occorse in sede decisoria” non merita commento, dovendosi – senza, peraltro, alcuna indulgenza – l’interprete interrogare su una configurazione delle disposizioni del Codice di rito in materia che, come lo stesso Autore sopra citato soggiunge, propone l’impressione che “… il codice, in questa parte così importante, riguardante la formazione della certezza legale della decisione del giudice, contenga più di una sbavatura, contraddicendo la linea di chiarezza e semplificazione che pervade tutto il disegno di riforma della giustizia amministrativa”.

Secondo CHIEPPA, op. cit., 577, “la ragione della obbligatorietà della pubblicazione del dispositivo in primo grado risiede nella possibilità che sia ancora in corso la sospensione della stipula del contratto con la conseguente esigenza di accelerare la conoscenza dell’esito del giudizio (si pensi al caso della sentenza pronunciata in sede di esame cautelare, che prolunga appunto la sospensione fino alla pubblicazione del dispositivo”; ulteriormente rilevandosi come nella stessa relazione governativa si dia atto che “tale esigenza, per definizione, non è ipotizzabile in secondo grado”, con la conseguenza che “si è preferito non estendere una tale disposizione speciale al giudizio di ultimo grado”.

Se tale convincimento merita apprezzamento, quanto alla riportata individuazione dei fondamenti giustificativi dell’esclusa obbligatorietà della pubblicazione del dispositivo in appello, analoga condivisione non appare suscettibile di essere estesa anche all’ulteriore argomentazione in proposito esposta dall’Autore (in linea con quanto come sopra osservato dal LIPARI), secondo cui per il giudizio di secondo grado andrebbero anche “ponderati gli inconvenienti connessi con l’irreparabilità di eventuali sviste occorse in sede decisoria e riscontrate solo al momento della redazione della sentenza”: come se le “sviste” in questione potessero accedere alla sola pronunzia resa in appello, con conseguente esigenza di approntare un idoneo recovery per le “distrazioni” del solo Consiglio di Stato…

[38] Secondo DE NICTOLIS, op. cit., “la previsione [riguardante l’obbligatorietà della pubblicazione del dispositivo] non è richiamata né per il giudizio di appello davanti al Consiglio di Stato né per le altre impugnazioni (revocazione e opposizione di terzo) (art. 120, co. 13, c.p.a.). Il mancato richiamo espresso, combinato con il generale rinvio operato dall’art. 120 c.p.a. al precedente art. 119 c.p.a., hanno come conseguenza che nei giudizi di impugnazione nel nuovo rito appalti, si applica l’art. 119, co. 6, c.p.a., a tenore del quale la pubblicazione del dispositivo non è indefettibile, ma avviene solo su istanza di parte. In particolare, “quando almeno una delle parti, nell’udienza discussione, dichiara di avere interesse alla pubblicazione anticipata del dispositivo rispetto alla sentenza, il dispositivo è pubblicato mediante deposito in segreteria, non oltre sette giorni dalla decisione della causa. La dichiarazione della parte è attestata nel verbale d’udienza”. Pertanto nei giudizi di impugnazione occorrerà istanza di una delle parti, da farsi non in qualsivoglia atto di causa, ma nell’udienza di discussione, e da attestarsi nel verbale di udienza. Tanto, da un lato per evitare che l’istanza di pubblicazione del dispositivo sia dispersa in un qualsiasi atto processuale e corra così il rischio di non essere vista dal giudice, e, dall’altro lato per fare sì che l’interesse alla pubblicazione del dispositivo sia attuale, dovendo essere manifestato nel momento in cui la causa va in decisione”.

[39] Omogeneamente, CHIEPPA, op. cit., 577, nell’osservare che “ non è chiaro il riferimento al provvedimento, che potrebbe essere inteso come riferito anche ad ordinanze, ma ciò contrasta con la successiva locuzione “che definisce il giudizio”, esprime il convincimento che “sarebbe stato meglio riferirsi al dispositivo delle sentenze”.

[40] L’art. 2-quinquies della citata Direttiva (Privazione di effetti) stabilisce, infatti, che:

1. Gli Stati membri assicurano che un contratto sia considerato privo di effetti da un organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice o che la sua privazione di effetti sia la conseguenza di una decisione di detto organo di ricorso nei casi seguenti:

a) se l’amministrazione aggiudicatrice ha aggiudicato un appalto senza previa pubblicazione del bando nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea senza che ciò sia consentito a norma della direttiva 2004/18/CE;

b) in caso di violazione dell’articolo 1, paragrafo 5, dell’articolo 2, paragrafo 3, o dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, della presente direttiva qualora tale violazione abbia privato l’offerente che presenta ricorso della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipula del contratto quando tale violazione si aggiunge ad una violazione della direttiva 2004/18/CE, se quest’ultima violazione ha influito sulle opportunità dell’offerente che presenta ricorso di ottenere l’appalto;

c) nei casi di cui all’articolo 2 ter, lettera c), secondo comma della presente direttiva qualora gli Stati membri abbiano previsto la deroga al termine sospensivo per appalti basati su un accordo quadro e su un sistema dinamico di acquisizione.

2. Le conseguenze di un contratto considerato privo di effetti sono previste dal diritto nazionale. Pertanto, il diritto nazionale può prevedere la soppressione con effetto retroattivo di tutti gli obblighi contrattuali o viceversa limitare la portata della soppressione di quegli obblighi che rimangono da adempiere. In quest’ultimo caso gli Stati membri prevedono l’applicazione di altre sanzioni ai sensi dell’articolo 2 sexies, paragrafo 2.

3. Gli Stati membri possono prevedere che l’organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà di non considerare un contratto privo di effetti, sebbene lo stesso sia stato aggiudicato illegittimamente per le ragioni di cui al paragrafo 1, se l’organo di ricorso, dopo aver esaminato tutti gli aspetti pertinenti, rileva che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale impone che gli effetti del contratto siano mantenuti. In tal caso gli Stati membri prevedono invece l’applicazione di sanzioni alternative a norma dell’articolo 2 sexies, paragrafo 2. Per quanto concerne la produzione di effetti del contratto, gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative soltanto se in circostanze eccezionali la privazione di effetti conduce a conseguenze sproporzionate.

Tuttavia, gli interessi economici legati direttamente al contratto in questione non costituiscono esigenze imperative legate ad un interesse generale. Gli interessi economici legati direttamente al contratto comprendono, tra l’altro, i costi derivanti dal ritardo nell’esecuzione del contratto, i costi derivanti dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, i costi derivanti dal cambio dell’operatore economico che esegue il contratto e i costi degli obblighi di legge risultanti dalla privazione di effetti.

4. Gli Stati membri prevedono che il paragrafo 1, lettera a), del presente articolo, non si applichi quando:

-       l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che l’aggiudicazione di un appalto senza previa pubblicazione del bando nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea sia consentita a norma della direttiva 2004/18/CE,

-       l’amministrazione aggiudicatrice ha pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea un avviso di cui all’articolo 3 bis della presente direttiva in cui manifesta l’intenzione di concludere il contratto, e

-       il contratto non è stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data di pubblicazione di tale avviso.

5. Gli Stati membri prevedono che il paragrafo 1, lettera c), del presente articolo, non si applichi quando:

-       l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che l’aggiudicazione di un appalto sia conforme all’articolo 32, paragrafo 4, secondo comma, secondo trattino, o all’articolo 33, paragrafi 5 e 6, della direttiva 2004/18/CE,

-       l’amministrazione aggiudicatrice ha inviato agli offerenti interessati una decisione di aggiudicazione dell’appalto unitamente ad una relazione sintetica dei motivi di cui all’articolo 2 bis, paragrafo 2, quarto comma, primo trattino, della presente direttiva, e

-       il contratto non è stato concluso prima dello scadere di un periodo di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data in cui la decisione di aggiudicazione dell’appalto è inviata agli offerenti interessati, se la spedizione è avvenuta per fax o per via elettronica, oppure, se la spedizione è avvenuta con altri mezzi di comunicazione, prima dello scadere di un periodo di almeno quindici giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data in cui la decisione di aggiudicazione dell’appalto è inviata agli offerenti interessati o di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data di ricezione della decisione di aggiudicazione dell’appalto.

[41] Disponendosi, ora, che “Il codice del processo amministrativo individua le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici”.

 

[42] 1. Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto:

a)     l'attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell'ambito del giudizio di cui al Titolo I del Libro IV;

b)    gli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa;

c)     le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti;

d)    le contestazioni sui confini degli enti territoriali;

e)     il diniego di rilascio di nulla osta cinematografico di cui all'articolo 8 della legge 21 novembre 1962, n. 161.

[43] In tal senso, cfr. R. CAPONIGRO, La valutazione giurisdizionale del merito amministrativo, pubblicato sul sito www.giustizia-amministrativa.it in data 16 febbraio 2010, laddove si sostiene che “nonostante in sede di elaborazione dello schema di decreto sia stata espunta al primo comma la locuzione “esclusiva e di merito” per qualificare la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla privazione di effetti del contratto e alle sanzioni alternative, il corpus normativo attribuisce al giudice amministrativo una giurisdizione non solo esclusiva ma anche comprensiva di valutazioni che, afferendo alla comparazione ed alla ponderazione diretta degli interessi pubblici e privati coinvolti dalla fattispecie concreta, si estendono alla sfera del merito amministrativo.

Infatti, non solo è attribuita, in sede di cognizione, la giurisdizione a pronunciare sugli effetti del contratto, ma anche il potere-dovere di esercitare un’attività di valutazione dell’interesse pubblico sostitutiva di quella che potrebbe essere svolta dall’amministrazione.

Paradigmatica in tal senso appare la previsione del descritto comma 3 dell’art. 245 ter, il quale consente di pronunciare una sentenza parziale di accoglimento, con annullamento della aggiudicazione definitiva e contestuale assegnazione di un termine alla stazione appaltante per rideterminarsi sull’aggiudicazione e sugli effetti del contratto e rinviando la decisione giurisdizionale sulla sorte del contratto e sul risarcimento del danno per equivalente ad una udienza successiva a tale termine.

Tale previsione alternativa, che appare soprattutto funzionale al caso in cui l’interesse dedotto in giudizio sia di tipo strumentale e non finale, nel senso che è necessario il nuovo esercizio del potere amministrativo per verificare se il ricorrente abbia effettivamente titolo al bene della vita, vale a dire all’aggiudicazione, fornisce una chiara indicazione del fatto che al giudice amministrativo il quale non decida di ricorrere allo strumento della sentenza parziale è attribuita la stessa valutazione dell’interesse pubblico, id est del merito amministrativo, che può essere richiesta all’amministrazione con la sentenza parziale.

L’attribuzione di un potere giurisdizionale involgente valutazioni di merito amministrativo sembra ancora più evidente laddove lo schema di decreto legislativo prevede che, nonostante le violazioni cui al quarto comma dell’art. 245 ter, il giudice può disporre che il contratto non è privato di effetti, quando ritiene che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale impone che gli effetti del contratto siano mantenuti.

In tal caso, infatti, la norma è inequivoca nell’attribuire al giudice la valutazione diretta di un “interesse generale” al quale sono connesse esigenze imperative che impongono il mantenimento degli effetti del contratto, sicché all’autorità giurisdizionale appare attribuita proprio quella scelta discrezionale attinente ai profili di opportunità e convenienza dell’agire amministrativo che costituisce il “cuore” del merito amministrativo.

Analogamente, le sanzioni alternative sono individuate dal giudice e la loro misura è determinata in modo che siano effettive, dissuasive, proporzionate al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.

… Ad ogni buon conto, il bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, a cui fanno riferimento la norma delegante e lo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva ricorsi, che il giudice amministrativo dovrà compiere per decidere se l’annullamento dell’aggiudicazione determini o meno l’inefficacia del contratto nonché la decorrenza di tale inefficacia ovvero se applicare le sanzioni alternative o se condannare al risarcimento del danno, sembra richiedere inevitabilmente una valutazione giurisdizionale del merito amministrativo, concretandosi in scelte discrezionali, sia pure sulla base di parametri di riferimento predeterminati dal legislatore, che postulano una valutazione diretta dell’interesse pubblico primario in comparazione con gli altri interessi coinvolti dall’azione amministrativa”.

A conclusione del riportato percorso logico-argomentativo, che merita convinta ed ammirata adesione, lo stesso Autore rileva che:

-       se “i poteri attribuiti al giudice amministrativo dalla norma delegata implicano: la possibilità di svolgere valutazioni di opportunità nello stabilire se, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, dichiarare la privazione degli effetti del contratto o, in via subordinata, accordare il risarcimento per equivalente del danno subito e comprovato, se disporre la privazione degli effetti retroattivamente o limitatamente alle prestazioni ancora da eseguire, se disporre che il contratto è privato di effetti o applicare le sanzioni alternative; valutazioni dirette dell’interesse pubblico nella scelta di disporre che il contratto non è privato di effetti quando il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale impone che gli effetti del contratto siano mantenuti; valutazioni dirette di proporzionalità ed adeguatezza nell’individuare le sanzioni alternative e nello stabilirne la misura”

-       allora (e, ad avviso di chi scrive, necessariamente), “tali attribuzioni, pertanto, sembrano permeate proprio da quella valutazione diretta degli interessi pubblici e privati coinvolti dall’azione amministrativa che costituisce l’essenza più profonda del merito amministrativo e comportano che lo stesso giudice è chiamato a sostituire all’assetto di interessi dettato dall’amministrazione con il provvedimento impugnato ed annullato all’esito del ricorso l’assetto di interessi che ritiene, sulla base anche di valutazioni di opportunità, di convenienza e di buona amministrazione, il più idoneo a regolare il rapporto controverso”.

 

[44] Lo stesso CAPONIGRO, op. cit., in tal senso rileva che se “il legislatore … avrebbe potuto attribuire tale potere sanzionatorio anche all’Autorità di vigilanza a seguito della trasmissione della sentenza da parte del giudice”, ciò, “da un lato, attesta che la determinazione nell’individuazione della sanzione e della sua misura implica valutazioni giurisdizionali dirette di proporzionalità ed adeguatezza, dall’altro, permette di considerare che, ove il potere fosse stato attribuito all’Autorità amministrativa indipendente, il relativo contenzioso sarebbe stato attratto alla giurisdizione amministrativa estesa al merito, ai sensi dell’art. 151 dello schema di “codice”, nel cui ambito il giudice amministrativo avrebbe potuto, così come potrà ora addirittura “in prima battuta”, individuare la sanzione opportuna o modificare la stessa nel quantum”.

[45] Quanto alla “natura” dell’inefficacia giudizialmente dichiarabile, F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, DIKE, III ed., 2010, 1425, esclude che “l’inefficacia … sarebbe riconducibile al genus della nullità-sanzione, mancando i due presupposti fondamentali della nullità civilistica, ossia l’obbligatorietà della rilevazione giudiziale e l’originarietà dell’inefficacia”: per l’effetto sostenendo che “siamo … al cospetto di una pronuncia costitutiva riconducibile alla gamma delle risoluzioni giudiziali necessitanti di domanda di parte e non di una pronuncia dichiarativa in senso tecnico”. Per l’incondivisibilità della tesi secondo cui la pronunzia in questione non potrebbe prescindere dalla domanda di parte – e non sarebbe, quindi, suscettibile di essere resa d’ufficio (come dallo stesso Autore argomentatamente ribadito alle successive pagg. 1428-1429) – si confronti quanto di seguito osservato.

[46] Come condivisibilmente rilevato dal CHIEPPA, op. cit., 584, “la distinzione fra effetti ex tunc o ex nunc non è stata finora approfondita dalla giurisprudenza, ma ora sarà necessario dare un significato a tale distinzione e l’unico senso ragionevole è quello di ritenere che la declaratoria ex tunc travolga anche la parte di contratto già eseguita, che resta quindi senza causa con i conseguenti obblighi di restituzione nei limiti dell’arricchimento”; quindi, “in sostanza, la parte che ha eseguito un contratto, dichiarato poi inefficace ex tunc, dovrebbe restituire il corrispettivo ricevuto, trattenendo solo i costi; deve restituire, quindi, l’utile e tale restituzione in favore della stazione appaltante costituirà, in genere, la quantificazione del risarcimento del danno in favore della parte ricorrente vincitrice in giudizio”.

[47] In tal senso anche FERRARI, op. cit., 403, che pur rilevando che “la norma non chiarisce se la declaratoria di inefficacia debba essere richiesta dalla parte o se il giudice può procedere d’ufficio”, mostra di ritenere preferibile la seconda soluzione non soltanto in ragione dell’“esigenza primaria di privare di effetti un contratto che si regge su un’aggiudicazione illegittima”, ma anche del contenuto dei “considerando” 13 e 14 della Direttiva 2007/66/CE”.

[48] Così CARINGELLA, op. cit., 1428, laddove si afferma che “la norma di cui all’art. 121 va letta come affermazione della necessità di un giudizio contestuale, secondo la logica del simultaneus processus, non già come deroga, necessitante invero di una formulazione esplicita, al principio della domanda ed al modello della giurisdizione soggettiva”.

[49] CARINGELLA, op. cit., 1429.

[50] Va ribadito, al riguardo, come il comma 1 dell’articolo in rassegna, nello stabilire che all’annullamento dell’aggiudicazione accede la declaratoria di inefficacia dello strumento negoziale, chiaramente delimita l’iniziativa di parte nel quadro delle (sole) statuizioni rimesse all’organo di giustizia quanto all’individuazione della relativa decorrenza (ex tunc o ex nunc);  e ciò in quanto è al giudice rimesso di precisare “in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva”.

[51] Come, infatti, osservato da LIPARI, op. cit., se “ sembra persuasiva l’opzione “prudente” del legislatore delegato, che si è limitato a trasferire nel codice del processo le regole riguardanti la “nuova” inefficacia del contratto pubblico, senza enfatizzare l’introduzione di una autonoma azione di accertamento della inefficacia”, tuttavia “la disciplina trasfusa nel codice del processo amministrativo, riguardante la sorte del contratto, sembra molto attenta solo alla definizione dei presupposti della inefficacia e alla elencazione dei poteri del giudice, mentre omette di chiarire una serie di questioni processuali ancora irrisolte: si pensi alla rilevabilità di ufficio della inefficacia, alla proponibilità in via autonoma, ai termini di decadenza o di prescrizione”.

Lo stesso Autore nel prendere atto della rilevanza di tali questioni, “che il decreto n. 53/2010 avrebbe dovuto risolvere e che, al momento, attendono ancora risposte chiare e consolidate da parte della giurisprudenza”, auspica che “in sede di adozione dei decreti correttivi, questi aspetti possano trovare una equilibrata e puntuale soluzione, anche sulla base dell’esperienza pratica dei prossimi mesi”.

[52] Che così dispone: “Il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva dichiara l'inefficacia del contratto nei seguenti casi, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva:

a)     se l'aggiudicazione definitiva è avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

b)    se l'aggiudicazione definitiva è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l'omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

c)     se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall'articolo 11, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento;

d)    se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva, ai sensi dell'articolo 11, comma 10-ter, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento”.

 

[53] Così DE NICTOLIS, op.cit.

[54] Il comma 3 dell’art. 2-quinquies, infatti, nel dare atto che, “per quanto concerne la produzione di effetti del contratto, gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative soltanto se in circostanze eccezionali la privazione di effetti conduce a conseguenze sproporzionate”, soggiunge che “gli interessi economici legati direttamente al contratto in questione non costituiscono esigenze imperative legate ad un interesse generale”.

[55] Che così recita: “La inefficacia del contratto prevista dal comma 1, lettere a) e b), non trova applicazione quando la stazione appaltante abbia posto in essere la seguente procedura:

a)     abbia con atto motivato anteriore all'avvio della procedura di affidamento dichiarato di ritenere che la procedura senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ovvero nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana sia consentita dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

b)    abbia pubblicato, rispettivamente per i contratti di rilevanza comunitaria e per quelli sotto soglia, nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ovvero nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana un avviso volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell'articolo 79-bis del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, in cui manifesta l'intenzione di concludere il contratto;

c)     il contratto non sia stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni decorrenti dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell'avviso di cui alla lettera b)”.

[56] Che prevede che “L'avviso volontario per la trasparenza preventiva il cui formato è stabilito, per i contratti di rilevanza comunitaria, dalla Commissione europea secondo la procedura di consultazione di cui all'articolo 3-ter, paragrafo 2, della direttiva 89/665/CE e di cui all'articolo 3-ter, paragrafo 2, della direttiva 92/13/CE, contiene le seguenti informazioni:

a) denominazione e recapito della stazione appaltante;

b) descrizione dell'oggetto del contratto;

c) motivazione della decisione della stazione appaltante di affidare il contratto senza la previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, rispettivamente per i contratti di rilevanza comunitaria e per quelli sotto soglia;

d) denominazione e recapito dell'operatore economico a favore del quale è avvenuta l'aggiudicazione definitiva;

e) se del caso, qualunque altra informazione ritenuta utile dalla stazione appaltante”.

[57] “Nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace o l'inefficacia sia temporalmente limitata si applicano le sanzioni alternative di cui all'articolo 123”.

[58] Così il comma 3 dell’art. 123, il quale, nel riprodurre pedissequamente il testo del comma 3 del previgente art. 245-quater del Codice contratti, prevede che “il giudice applica le sanzioni di cui al comma 1 anche qualora il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito per la stipulazione del contratto, ovvero è stato stipulato senza rispettare la sospensione della stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva, quando la violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento”.

[59] Come stabilito dal comma 1 dell’art. 122, “fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta”.

[60] Op. cit.

[61] Il quale prevede, ora, che:

“1. Nei casi di cui all’articolo 121, comma 4, il giudice amministrativo individua le seguenti sanzioni alternative da applicare alternativamente o cumulativamente:

a)     la sanzione pecuniaria nei confronti della stazione appaltante, di importo dallo 0,5% al 5% del valore del contratto, inteso come prezzo di aggiudicazione, che è versata all’entrata del bilancio dello Stato - con imputazione al capitolo 2301, capo 8 «Multe, ammende e sanzioni amministrative inflitte dalle autorità giudiziarie ed amministrative, con esclusione di quelle aventi natura tributaria» - entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che irroga sanzione; decorso il termine per il versamento, si applica una maggiorazione pari ad un decimo della sanzione per ogni semestre di ritardo. La sentenza che applica le sanzioni è comunicata, a cura della segreteria, al Ministero dell’economia e delle finanze entro cinque giorni dalla pubblicazione;

b)    la riduzione della durata del contratto, ove possibile, da un minimo del dieci per cento ad un massimo del cinquanta per cento della durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo.

2. Il giudice amministrativo applica le sanzioni assicurando il rispetto del principio del contraddittorio e ne determina la misura in modo che siano effettive, dissuasive, proporzionate al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stazione appaltante per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione. A tal fine si applica l’articolo 73, comma 3. In ogni caso l’eventuale condanna al risarcimento dei danni non costituisce sanzione alternativa e si cumula con le sanzioni alternative.

3. Il giudice applica le sanzioni di cui al comma 1 anche qualora il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito per la stipulazione del contratto, ovvero è stato stipulato senza rispettare la sospensione della stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva, quando la violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”.

[62] In tal senso anche FERRARI, op. cit., 409, laddove si afferma che l’applicazione della sanzioni alternative nel rispetto del principio del contraddittorio postula l’applicazione dell’art. 73, comma 3, del Codice, “con la conseguenza che il Collegio deve avvisare le parti dell’intenzione di comminare le sanzioni alternative e, se rileva la questione dopo il passaggio in decisione, riserva quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie”

[63] Il 19° “considerando” prevede infatti che “In caso di altre violazioni di requisiti formali, gli Stati membri potrebbero considerare inadeguato il principio della privazione di effetti. In questi casi gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di prevedere sanzioni alternative. Queste ultime dovrebbero consistere soltanto nell’irrogazione di sanzioni pecuniarie da pagare ad un organismo indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore o nella riduzione della durata del contratto. Spetta agli Stati membri definire le disposizioni particolari concernenti le sanzioni alternative e le relative modalità di applicazione”.

L’art. 2-sexies della medesima Direttiva stabilisce, poi, che “Gli Stati membri possono prevedere che l’organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice decida, dopo aver valutato tutti gli aspetti pertinenti, se il contratto debba essere considerato privo di effetti o se debbano essere irrogate sanzioni alternative.

Le sanzioni alternative devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Dette sanzioni alternative sono:

-       l’irrogazione di sanzioni pecuniarie all’amministrazione aggiudicatrice, oppure

-       la riduzione della durata del contratto.

Gli Stati membri possono conferire all’organo di ricorso un’ampia discrezionalità al fine di tenere conto di tutti i fattori rilevanti, compresi la gravità della violazione, il comportamento dell’amministrazione aggiudicatrice e, nei casi di cui all’articolo 2 quinquies, paragrafo 2, la misura in cui il contratto resta in vigore.

La concessione del risarcimento danni non rappresenta una sanzione adeguata ai fini del presente paragrafo”.

[64] DE NICTOLIS, op. cit.

[65] La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che, se è vero che il principio del doppio grado di giurisdizione non ha copertura costituzionale (si confrontino le sentenze nn. 41 del 1965, 22 e 117 del 1973, 186 del 1980, 78 del 1984 e 80 del 1988; nonché l’ordinanza 395/88), l’escluso vigore costituzionale della garanzia del doppio grado opera esclusivamente “fuori dell'area segnata dall'art. 125 comma secondo” della Costituzione (cfr. sentenza 7 marzo 1984 n. 52).

[66] Secondo quanto stabilito al comma 2 dell’art. 121, in base al quale “Il contratto resta efficace, anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1 qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l'altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall'esecutore attuale. Gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative solo in circostanze eccezionali in cui l'inefficacia del contratto conduce a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all'eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara. Non costituiscono esigenze imperative gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono fra l'altro i costi derivanti dal ritardo nell'esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell'operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia”.

[67] Il comma 1 dello stesso art. 121, infatti, prevede che “Il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva dichiara l'inefficacia del contratto … precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva”.

[68] Argomentandosi a contrario dalla lett. c) del comma 1 dell’art. 121

[69] La valenza “dissuasiva” della sanzione, nel quadro degli “Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003” (2006/C 210/02)” in materia di concorrenza, è stata puntualizzata dalla Commissione UE precisando (punto 4.) che l’“effetto sufficientemente dissuasivo” delle ammende è preordinato al conseguimento dello scopo “non solo di sanzionare le imprese in causa (effetto dissuasivo specifico), ma anche di dissuadere altre imprese dall'assumere o dal continuare comportamenti contrari agli articoli 81 e 82 del trattato (effetto dissuasivo generale)”.

I successivi punti 30 e 31 del medesimo documento raccomandano poi alla Commissione di prestare “particolare attenzione all'esigenza di garantire l'effetto sufficientemente dissuasivo delle ammende; a tal fine essa può aumentare l'ammenda da infliggere alle imprese che abbiano un fatturato particolarmente grande aldilà delle vendite dei beni e servizi ai quali l'infrazione si riferisce” e di tenere “inoltre conto della necessità di aumentare la sanzione per superare l'importo degli utili illeciti realizzati tramite l'infrazione, qualora la stima di tale importo sia possibile”.

[70] DE NICTOLIS, op. cit.

[71] L’Art. 79, comma 1: prevede che “le stazioni appaltanti informano tempestivamente i candidati e gli offerenti delle decisioni prese riguardo alla conclusione di un accordo quadro, all’aggiudicazione di un appalto, o all’ammissione in un sistema dinamico di acquisizione, ivi compresi i motivi della decisione di non concludere un accordo quadro, ovvero di non aggiudicare un appalto per il quale è stata indetta una gara, ovvero di riavviare la procedura, ovvero di non attuare un sistema dinamico di acquisizione”.

Ai sensi del successivo comma 2, “Le stazioni appaltanti inoltre comunicano:

a)         ad ogni candidato escluso i motivi del rigetto della candidatura;

b)        ad ogni offerente escluso i motivi del rigetto della sua offerta, inclusi, per i casi di cui all’articolo 68, commi 4 e 7, i motivi della decisione di non equivalenza o della decisione secondo cui i lavori, le forniture o i servizi non sono conformi alle prestazioni o ai requisiti funzionali;

c)         ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato il contratto o delle parti dell’accordo quadro.

Se i riportati commi 1 e 2 elencano le informazioni suscettibili di essere fornite su richiesta di parte (come evidenziato dal successivo comma 3), il comma 5 dell’art. 79 disciplina le informazioni suscettibili di comunicazione d’ufficio, così prevedendo:

“In ogni caso l’amministrazione comunica di ufficio:

a) l'aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;

b) l’esclusione, ai candidati e agli offerenti esclusi, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni dall’esclusione;

b-bis) la decisione, a tutti i candidati, di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro;

b-ter) la data di avvenuta stipulazione del contratto con l'aggiudicatario, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, ai soggetti di cui alla lettera a) del presente comma”.

 

[72] Stabilendosi peraltro (parte conclusiva del comma 5-bis dell’art. 79) che “nel caso di invio a mezzo posta o notificazione, dell'avvenuta spedizione è data contestualmente notizia al destinatario mediante fax o posta elettronica, anche non certificata, al numero di fax ovvero all'indirizzo di posta elettronica indicati in sede di candidatura o di offerta”.

[73] Per LIPARI, “la lettura più convincente della non chiarissima disciplina contenuta in tale articolo è quella secondo cui, decorso inutilmente il previsto termine di dieci giorni, l’interessato non perde definitivamente il diritto all’accesso: la scadenza realizza solo la presunzione legale assoluta di conoscenza degli atti messi a disposizione dalla stazione appaltante. A partire da tale momento l’interessato potrà esercitare il diritto di accesso nei modi ordinari, pur senza potersi avvalere della conoscenza degli atti ai fini della tutela giurisdizionale”. Lo stesso Autore dimostra, peraltro, consapevolezza che la collocazione della disposizione in ambito extraprocessuale – come si è avuto modo di constatare in precedenza, atteso che la disciplina dell’accesso non è transitata nel Codice di rito, ma è rimasta allocata nel D.Lgs. 163/2006 - potrebbe propiziarne una interpretazione quale “regola tipicamente “sostanziale” dell’accesso, indicando un vero e proprio onere, per l’interessato, di esercitare il diritto nel breve termine assegnato. Scaduti i termini stabiliti dall’articolo 13, la facoltà di accedere ai documenti sarebbe definitivamente consumata, in tutte le sue possibili direzioni e non solo nella prospettiva della tutela processuale”.

Convinzione radicalmente difforme è esplicitata da De Nictolis, secondo la quale “accogliere la tesi che decorso il termine legale, l’accesso può essere esercitato nei modi ordinari, significa vanificare l’impianto normativo, che ha inteso dettare una disciplina speciale dell’accesso rispetto a quella ordinaria, ed escludente l’applicazione di quella ordinaria”; conseguentemente dovendo ritenersi che “scaduto il termine legale di dieci giorni, l’accesso non può essere esercitato nei modi ordinari”, residuando, peraltro (quanto ovviamente) “la possibilità di ottenere l’esibizione degli atti nel corso del giudizio, sollecitando un ordine del giudice”, con riveniente proponibilità degli eventuali motivi aggiunti “dopo l’esibizione degli atti in giudizio, … in tal caso, ove l’annullamento degli atti di gara consegua all’accoglimento di motivi aggiunti proposti dopo il deposito degli atti in giudizio, … [dovendosi] tener conto della condotta della parte che non ha esercitato l’accesso nel termine di legge, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 c.c.”.

[74] LIPARI, cit.

[75] Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni.

[76] Così LIPARI, op. cit.

[77] In tal senso, secondo LIPARI, op. cit., “nessun dubbio sussiste in ordine alla necessità della … proposizione [della domanda risarcitoria], non essendo ipotizzabile il potere di ufficio del giudice di adottare statuizioni, non richieste, nemmeno se basate sulla “conversione” di domande proposte dagli interessati.

Analogamente, per FERRARI, op. cit., 412, “in applicazione dei noti principi che regolano il processo amministrativo, che è ad impulso di parte, il risarcimento non [può] essere liquidato d’ufficio dal giudice”.

[78]1. L'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma.

2. Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti.

4. Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.

6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo.

[79]In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti”.

[80] Conclusione, questa, che non incontra peraltro univoci riscontri interpretativi.

Se per FERRARI, op. cit., 411, “alla totale carenza probatoria non può supplire la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio …, cha ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute, ma utili anche a verificare l’attendibilità delle prove fornite dall’interessato, ma non ad esonerare quest’ultimo dall’onere di comprovare i fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste”, che devono “essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 c.c.”, per LIPARI, op. cit., “non convince la tesi, pure proposta da alcuni commentatori, secondo cui la disposizione vieterebbe il ricorso ai meccanismi di determinazione del danno previsti in generale dal codice (articolo 34, comma 4: “In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti.”)”: ulteriormente osservandosi che “parimenti, non sembra precluso a priori il ricorso a indici presuntivi o a consulenze tecniche dirette ad accertare l’entità del danno: si tratta, evidentemente, di strumenti di prova pienamente utilizzabili anche nel rito speciale dei contratti e la loro limitazione rappresenterebbe una irragionevole compressione degli strumenti di tutela”.

[81] Così DE NICTOLIS, op. cit., la quale osserva che il fondamento di tale previsione di legge risiede “nella considerazione che chi impugna l’aggiudicazione mette in moto un meccanismo che blocca l’azione amministrativa, ed è dunque doveroso da parte sua un reale interesse a conseguire l’aggiudicazione e il contratto. Non risponde invece a buona fede la condotta di chi impugna l’aggiudicazione non perché ha interesse a ottenere il contratto, ma solo perché mira ab initio ad un risarcimento per equivalente”.

[82] La seconda parte del comma 3 del citato articolo prevede che “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti

[83] Così LIPARI, op. cit., il quale osserva che, ancorché “nella norma generale manca il riferimento esplicito all’art. 1227 del codice civile, … risulta palese la sostanziale coincidenza con la previsione speciale”

[84] Così il comma 2 dell’originario testo dell’art. 14 del D.Lgs. 190/2002, che prevedeva che, “in applicazione delle previsioni dell'articolo 2, comma 6, delle direttive 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, e 92/13/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, la sospensione o l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso il risarcimento degli interessi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”.

[85] “I provvedimenti adottati ai sensi del presente articolo sono comunicati agli interessati a mezzo fax o posta elettronica all'indirizzo da essi indicato. L'accesso agli atti del procedimento è consentito entro dieci giorni dall'invio della comunicazione del provvedimento. Il termine per la notificazione del ricorso al competente Tribunale amministrativo regionale avverso i provvedimenti emanati ai sensi del presente articolo è di trenta giorni dalla comunicazione o dall'avvenuta conoscenza, comunque acquisita. Il ricorso principale va depositato presso il Tar entro cinque giorni dalla scadenza del termine di notificazione del ricorso; in luogo della prova della notifica può essere depositata attestazione dell'ufficiale giudiziario che il ricorso è stato consegnato per le notifiche; la prova delle eseguite notifiche va depositata entro cinque giorni da quando è disponibile. Le altre parti si costituiscono entro dieci giorni dalla notificazione del ricorso principale e entro lo stesso termine possono proporre ricorso incidentale; il ricorso incidentale va depositato con le modalità e termini previsti per il ricorso principale. I motivi aggiunti possono essere proposti entro dieci giorni dall'accesso agli atti e vanno notificati e depositati con le modalità previste per il ricorso principale. Il processo viene definito ad una udienza da fissarsi entro 15 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente; il dispositivo della sentenza è pubblicato in udienza; la sentenza è redatta in forma semplificata, con i criteri di cui all'articolo 26, quarto comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034. Le misure cautelari e l'annullamento dei provvedimenti impugnati non possono comportare, in alcun caso, la sospensione o la caducazione degli effetti del contratto già stipulato, e, in caso di annullamento degli atti della procedura, il giudice può esclusivamente disporre il risarcimento degli eventuali danni, ove comprovati, solo per equivalente. Il risarcimento per equivalente del danno comprovato non può comunque eccedere la misura del decimo dell'importo delle opere che sarebbero state eseguite se il ricorrente fosse risultato aggiudicatario, in base all'offerta economica presentata in gara. Se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96 del codice di procedura civile. Per quanto non espressamente disposto dal presente articolo, si applica l'articolo 23-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e l'articolo 246 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modificazioni. Dall'attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

[86] Che stabilisce che “resta ferma la disciplina di cui all'articolo 20, comma 8, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, limitatamente agli interventi previsti nel citato articolo 20, per i quali siano già stati nominati i relativi commissari o vengano nominati entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

[87] Termine la cui scadenza ha coinciso con il 26 luglio 2010

[88] Op. cit.

[89] Conclusione, questa, enunciata in modo evidentemente provocatorio, atteso che, laddove fosse possibile qualificare in tal senso gli interessi (e le correlative esigenze) sottesi agli interventi in discorso, allora non sarebbe dato comprendere perché la disposizione abbia portata (meramente) transitoria.

[90] È noto che, a fronte dell’entrata in vigore del Codice di rito fissata per la data del 16 settembre 2010, l’organismo deputato all’individuazione dei correttivi al testo originario si è insediato (il 15 settembre) addirittura prima della concreta operatività delle neo-introdotte disposizioni.

[91] K. Marx, "Considerazioni di un giovane sulla scelta di una professione"(tema di licenza liceale), 12 agosto 1835 - Opere complete, V. 1, p. 7