Sono lieto di pubblicare sul sito uno studio del Prof. Giampaolo Rossi, professore ordinario di diritto amministrativo all’Università Roma Tre.
Lo scritto, nell’interrogarsi sulla giustificabilità di un giudice speciale per l’Amministrazione che agisce come pubblico potere e nell’apprezzare il percorso svolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza verso una sempre maggiore effettività e pienezza della tutela offerta dal Giudice amministrativo (percorso che ha, da ultimo, portato all’approvazione del codice), afferma la rilevanza del ruolo creativo di tale giudice che, per il carattere sempre più penetrante del sindacato sull’eccesso di potere, vede avvicinare il suo giudizio a quello di equità. La specialità del processo amministrativo e di alcuni profili che lo reggono viene individuata nella sua funzione di verificare che l’esercizio del potere risponda alla norma che lo contempla, sicché la definizione della controversia, che impone significativamente la necessaria presenza dei controinteressati, deve seguire un procedimento logico più complesso di quello del giudice ordinario (che ha un contenuto prevalentemente patrimoniale e concerne di solito interessi disponibili) e non può restare indefinita per i tempi ordinari di prescrizione dei diritti. (P. de Lise)
Giampaolo Rossi
GIUDICE E PROCESSO
AMMINISTRATIVO
pubblicato sul sito il 14 aprile
2011
Sommario
1- Inadeguatezza degli approcci
aprioristici sulla “specialità” del giudice e del processo amministrativo.
2- Le
specificità connesse al tipo di controversia. Parità delle parti e diversa
posizione al di fuori del processo. Equità e legittimità.
3- Utilità
di una ricerca fondata sull’analisi degli interessi che confliggono nel processo
amministrativo. I diversi tipi di conflitto e di poteri. L’unilateralità e i
conflitti tra privati.
4- La
giustizia amministrativa nel quadro delle vertenze fra pubblica amministrazione
e privati.
5- Giudice
terzo e questioni organizzative.
1.
Una introduzione, come è noto, consiste nell’individuare le questioni da
analizzare, il metodo, le linee di future ricerche.
Il tema si presenta particolarmente complesso a chi non voglia
affrontarlo solo sulla base di opzioni a priori o di eccessive semplificazioni.
Giannini nel suo Discorso generale sulla giustizia amministrativa (1963) ha
sostenuto che “l’intento di fare il punto degli studi e della realtà della
giustizia amministrativa è irrealizzabile”.
L’approvazione del codice del processo amministrativo appare come
l’esito, anche se non del tutto completo, di una lunga evoluzione che ha portato
a un processo improntato alla parità delle parti, di fronte a un giudice terzo.
Si dice generalmente che si è ormai passati da un giudizio su un atto a un
giudizio su un rapporto.
Si assiste in tutti i paesi europei, in varia misura, a quello che E.
Garcìa de Entierrìa
definisce un cambio di paradigma: l’eliminazione dei privilegi della pubblica
amministrazione, un processo fra parti uguali volto alla tutela dei diritti.
Se ne potrebbe trarre la conseguenza del venir meno del dibattito
sull’opportunità di un giudice e di un codice diversi da quelli ordinari, ma si potrebbe, al contrario, utilizzare
proprio l’argomento della sostanziale omogeneizzazione delle tutele per
considerare superate le ragioni che determinano la disciplina
specifica.
Né a impedire il dibattito potrebbero essere invocate le norme
costituzionali; alcune riforme potrebbero essere fatte a Costituzione invariata
(M. Renna); inoltre le norme costituzionali negli ultimi decenni si cambiano,
anche con eccessiva disinvoltura, e se non sono irrilevanti in un dibattito
scientifico, non hanno comunque la possibilità di
precluderlo.
Si potrebbe quindi proporre la domanda essenziale: si giustifica, per la
pubblica amministrazione, quando agisce come pubblico potere, un giudice
speciale? Si giustificano norme processuali diverse da quelle del codice di
procedura civile?
Già la domanda, così formulata, presuppone il superamento della
concezione soggettiva, che configurava il giudice amministrativo come il giudice
della pubblica amministrazione e rifletteva l’idea della sottrazione del
pubblico potere dal giudizio del giudice ordinario, come in passato si era
verificato per determinate categorie di persone (i chierici, i
nobili).
Si potrebbe allora obiettare che la domanda non è posta in termini
scientificamente corretti perché contiene già una opzione e quindi una risposta
fra le tante possibili. Questa opzione deriva però da una evoluzione che si è
ormai consolidata nell’ordinamento dei rapporti fra cittadini e pubbliche
amministrazioni: è acquisito, quanto meno in Italia, che non è l’Amministrazione
in quanto tale ad avere un foro separato e che il giudizio amministrativo è
volto a sindacare le manifestazioni dell’esercizio di un potere; la domanda,
quindi, può correttamente essere riferita a questo ambito più
circoscritto.
La dottrina, a questo proposito, ha sempre avuto opinioni opposte, non
solo negli studi degli ultimi decenni ma a partire dal periodo dell’abolizione
del contenzioso amministrativo, quando centocinquanta anni fa la legge attribuì
al giudice ordinario la funzione della tutela giudiziaria del cittadino contro
gli atti illegittimi della pubblica amministrazione lesivi dei diritti. È a tutti noto
che tanto forte era allora l’idea di una primazia del pubblico potere e
dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati, che il giudice
(quello ordinario) si ritrasse dall’esercizio di questa funzione che solo in
seguito venne assicurata in modo parziale con la trasformazione del Consiglio di
Stato in organo avente funzioni anche giurisdizionali, di mero annullamento
degli atti viziati da illegittimità e quindi lesivi non dei diritti (che, si
diceva, non resistono di fronte all’atto del pubblico potere, anche se
illegittimo) ma degli “interessi legittimi”(configurati come situazioni
giuridiche soggettive minori). La dottrina e la giurisprudenza iniziarono allora
un lungo percorso, le cui tappe sono note, che ha progressivamente portato a
rafforzare le situazioni soggettive dei privati, ad aumentare i poteri del
giudice amministrativo, a riconoscere ambiti significativi di esercizio della
giurisdizione da parte del giudice ordinario, a rivedere le norme processuali
fino all’approvazione del codice del processo
amministrativo.
Queste grandi conquiste di civiltà si sono consolidate in pochi paesi del
mondo, mentre nella maggior parte degli altri stanno muovendo solo i primi passi
o hanno prodotto risultati ancora molto parziali.
Permangono ancora alcune differenze fra processo ordinario e processo
amministrativo senza le quali del resto non si giustificherebbe un codice
specifico.
Le
proposte formulate da una parte della dottrina amministrativistica italiana (ad es. Merusi, Travi)
durante la redazione del codice sono state tutte tese a riprodurre le
norme del processo civile: tempi più lunghi per attivare il processo quanto meno
per il risarcimento, esistenza di un giudice istruttore, onere della prova e
ampiezza dei mezzi probatori, tipologia delle azioni proponibili, a partire da
quella di accertamento , poteri del giudice, piena corrispondenza fra ciò che
viene chiesto e ciò che viene deciso.
Non si può però misurare la bontà della riforma solo sul parametro della
distanza che la separa dal c.p.c.. Se la tesi di fondo
è che si debba semplicemente applicare il c.p.c. tanto
vale dichiararla, senza spezzettarla in ciascuno dei suoi corollari. Allora si
ha l’onere di dimostrare che questo codice sarebbe adeguato (per esempio è così
scontato che la tipologia delle sentenze possa essere tratta da quelle delle
controversie civili?). Se invece non è questa la tesi di fondo, o almeno non la
si da per scontata, allora bisogna cercare di capire quali sono le ragioni che
differenziano il processo amministrativo da quello civile.
Molti studiosi danno delle residue differenze fra i due processi una
spiegazione di carattere
storico: si è passati gradualmente da un ricorso che aveva carattere
amministrativo di fronte a un organismo di incerta natura a un ricorso
certamente giurisdizionale di fronte a un giudice terzo. L’aumento delle tutele
ha progressivamente conferito un carattere sostanziale all’interesse legittimo e
arricchito il processo amministrativo rispetto al semplice modello di
annullamento degli atti, fino a giungere a una tutela piena. Le nuove norme di
procedura prendono atto di questa evoluzione ma risentono inevitabilmente delle
origini e della storia del processo amministrativo.
Se
così fosse, però, la conclusione più coerente sarebbe solo quella che le residue
differenze con il processo ordinario vanno superate e che si deve applicare
pienamente il codice di procedura civile (e di fronte allo stesso giudice). La
risposta alla domanda prospettata all’inizio sarebbe quindi
scontata.
2. Se si vuole
promuovere una nuova riflessione ci si deve porre una domanda che consenta un
approccio non aprioristicamente scontato: esistono delle ragioni che spiegano e
richiedono una diversa struttura e quindi alcuni diversi principi del processo
amministrativo?
Se
esistono, se devono esistere, principi specifici del processo amministrativo è
questione che non si risolve sulla base della lettura delle nuove norme
contenute nel codice relative ai principi.
Questa
parte è forse la meno riuscita di questa importante opera giuridica che è il
codice del processo amministrativo e questa incertezza deriva, in realtà, da
alcune, più profonde, incertezze sul modo di intendere la giustizia
amministrativa.
Il codice stabilisce nel titolo I, capo I, i “principi generali” della giurisdizione
amministrativa: sono quelli di effettività (art. 1: la
giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i
principi della Costituzione e del diritto europeo), del giusto processo (art. 2: parità delle
parti, contraddittorio, e ragionevole durata), della motivazione e sinteticità degli
atti (art.3).
Il progetto del codice, che è stato poi modificato dal Governo, prevedeva
altri principi che non sono stati inseriti nella versione definitiva: il diritto
della parte alla decisione di merito, la corrispondenza fra chiesto e
pronunciato, il pieno accesso agli atti, l’incidenza del rilievo costituzionale
degli interessi azionati ai fini della ragionevole durata.
La legge di delega prevedeva, fra le finalità del codice, il
coordinamento con le norme del codice
di procedura civile “in quanto espressione di principi generali”;
l’art. 39 del codice stabilisce che “per quanto non disciplinato dal presente
codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto
compatibili o espressione di principi generali”.
Ci si potrebbe soffermare, volendo, su alcuni dubbi interpretativi: porsi
ad esempio il problema se il principio effettività abbia un significato
ulteriore rispetto a quello della pienezza della tutela, o, ancora, se vada dato
un qualche significato alla norma che collega la tutela ai principi della
Costituzione e del diritto europeo senza far riferimento anche alla
legge.
Ma, al fine della domanda che ci si è posti (se esistano principi
specifici del processo amministrativo) la risposta non deriva certamente da
quelle norme perché questi principi sono già tutti nella Costituzione e non
valgono solo per il processo amministrativo.
Se quindi la risposta non si ritrova nelle norme sui principi contenuti
nel codice, la riflessione va posta sul problema se esistono delle ragioni connesse al tipo di
controversia che spiegano e richiedono una diversa
struttura.
A
deporre in senso positivo indurrebbe l’osservazione che il processo
amministrativo non solo sopravvive, con proprie norme, nei paesi in cui è nato,
ma si estende anche nei paesi che si danno un nuovo ordinamento, come
La
risposta
positiva alla domanda non può però basarsi sull’idea che il giudice
amministrativo debba farsi carico della permanenza di un privilegio della pubblica
amministrazione, derivante dalla necessità di far prevalere l’interesse
pubblico su quello privato, che conferirebbe (Carnelutti e Nigro) una rilevanza “politica” al processo
amministrativo.
Questa risposta è
ormai improponibile, perché è incompatibile sia con il principio di
pienezza della tutela sia con quello che stabilisce la subordinazione del
giudice alla legge. È la legge che determina il punto di equilibrio fra potere
pubblico e diritti dei privati e non una opzione soggettiva del giudice
amministrativo e, tra l’altro, il fenomeno della predeterminazione normativa
dell’assetto degli interessi è sempre più marcato. È vero che la crescente complessità normativa determina maggiori
spazi di scelta dell’Amministrazione e quindi del giudice (L. Torchia) ma non sono fondate le
fughe in avanti. Alcune tesi recentemente avanzate (ad es. da G. Romeo) partendo
dalla premessa che il giudice amministrativo è il giudice del pubblico potere,
arrivano a soluzioni francamente paradossali, riconoscendo al giudice
amministrativo il potere di “pervenire a una soluzione giusta (sostanzialmente,
di merito) sacrificando la fattispecie legale in omaggio a una visione che
sostituisce quella del legislatore”; secondo Romeo “il quid proprium” del processo amministrativo è la
determinazione degli interessi, per via giurisdizionale, in capo a un soggetto,
e non la soluzione di un conflitto tra contrapposti interessi” (!). Quando, poi,
il contenzioso è fra pubbliche amministrazioni, al giudice amministrativo
spetta, secondo questo tipo di impostazione (v. Quinzio), il potere di arbitro fra le diverse
posizioni.
Queste
impostazioni non sono condivisibili. Il ruolo creativo del giudice è di tutta
evidenza e lo è in particolare quello del giudice amministrativo perché la
maggior complessità delle vicende processuali e la maggiore mobilità dei
rapporti fra le persone e
Sull’equità andrebbe fatta una
riflessione più attenta. Il giudice ordinario può decidere in equità “se le
parti gliene hanno fatto concorde richiesta” (art. 114). Non vi è una norma del
genere nel codice del processo amministrativo; per quale ragione? Perché esso
deve pronunciarsi sempre “secondo diritto” o per il pudore di non dire che in
realtà il criterio equitativo è sempre alla base delle sue
decisioni?
Su questi problemi deve avviarsi
un approfondimento che parta proprio dell’esaminare l’ipotesi della
compatibilità fra la decisione equitativa e quella di legittimità (come si
desume del resto dall’art. 339 c.p.c.
sull’appellabilità per violazioni di norme delle sentenze del giudice di pace
pronunciate secondo equità), e ciò soprattutto se ci si riferisce alla legalità
sostanziale, quella cioè che è sempre fondata sulla legge ma soprattutto sulla
sua ratio anziché solo sulla sua forma. Mentre
il “merito” implica una scelta fra gli interessi, l’”equità” ne individua
l’assetto più giusto nel quadro di un assetto normativo determinato. Su questi
temi sarebbe bene riprendere le problematiche affrontate soprattutto dalla
dottrina civilistica, a partire da Scialoja, da quella
penalistica (Bettiol) e da quella canonistica (Fedele) e solo raramente da quella amministrativistica (Cammeo) sui rapporti fra ius strictum e ius aequum.
L’eccesso
di potere resta comunque un vizio di legittimità e lo stesso criterio equitativo
(se lo si voglia sostenere) si svolge sempre all’interno del diritto positivo,
sia pure spingendosi fino al confine cui può arrivare l’interpretazione
evolutiva e la ricerca di una ratio normativa
che libera l’amministrazione, prima del giudice, da vincoli che abbiano solo
carattere formalistico (come da tempo hanno chiarito il Conseil d’Etat francese e il
nostro giudice amministrativo).
La pienezza della tutela e la diminuzione
del carattere essenzialmente impugnatorio e di
annullamento del processo amministrativo può indurre nell’errore di dare per
superato il principio del processo amministrativo che è e resta, salvo che per
la giurisdizione esclusiva e per alcuni profili marginali, quello di verificare
che l’esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione risponda alla
norma che lo contempla. Anzi, è
proprio da questa caratteristica che va ricercata la specialità del processo amministrativo
e di alcuni profili che lo reggono.
Un
processo che decide la controversia sulla base di una valutazione della
legittimità dell’esercizio di un potere ha indubbiamente alcune caratteristiche
che lo differenziano rispetto al normale processo civile che ha un contenuto
essenzialmente patrimoniale e attiene a interessi
disponibili.
Basta pensare alla necessaria presenza
nel processo dei contro
interessati al ricorso (figure eventuali, invece, nel processo
civile).
Il pubblico potere, ormai completamente giuridicizzato, è posto, nel giudizio, in posizione di
parità, di parte che ha la stessa posizione del ricorrente, ma è diversa la sua
posizione che sta a monte del processo, che è connotata, insieme, dal potere di
incidere unilateralmente (in senso sfavorevole o favorevole) sulle situazioni
giuridiche soggettive del privato, e dalla doverosità dell’esercizio della
funzione.
Anche
la posizione a valle del processo è diversa, per lo più in senso sfavorevole per
la pubblica amministrazione, perché trattandosi di attività doverosa, si possono
attribuire (e infatti si sono attribuiti) al giudice poteri nella fase di esecuzione delle sentenze più
forti di quelli che ha il giudice civile, che non riesce ad andare oltre agli
effetti patrimoniali e non può costringere il privato a un “fare”. Non servono
quindi alla fase di esecuzione del processo amministrativo le varie decine di
articoli che nel codice di procedura civile disciplinano la fase di esecuzione
del processo.
I maggiori poteri del
giudice amministrativo, anche nella ricostruzione del fatto e nella
acquisizione delle prove, si giustificano per la caratteristica che ha il
processo, che tende a dichiarare quale fra le parti abbia “ragione” ma lo fa
verificando la legittimità dell’agire amministrativo e quindi con un
procedimento logico più complesso di quello, più lineare, che fa il giudice
ordinario (A. Pioggia).
Anche
il giustamente apprezzato codice tedesco del processo amministrativo, costruito
sull’idea del rapporto amministrativo e non sulla supremazia dell’
Amministrazione, mantiene al processo un carattere inquisitorio che non
condiziona la decisione del giudice solo alle prove fornite dalle
parti.
Del resto, e sia pure in un contesto diverso che non può
essere qui richiamato per analogia, anche per il giudice ordinario, quando in
sede di Cassazione si debba affermare un principio di diritto, il ricorso può
essere deciso, ad iniziativa del procuratore generale, prescindendo dalle
richieste delle parti e anche quando queste abbiano rinunciato al ricorso (art.
363 cpc).
Non necessario soffermarsi in particolare sulla mancata
previsione delle azioni di
accertamento perché tutti i commentatori hanno chiarito che, in realtà,
esse sussistono, sia pure attraverso l’espediente del silenzio (forse poi non si
tratta di un espediente perché per l’esercizio dei poteri è proprio il silenzio
che richiede un accertamento).
Infine, l’altro profilo che maggiormente differenzia la giustizia
amministrativa da quella civile è quello della tempistica per ricorrere e per
chiedere il risarcimento del danno.
La celerità del processo non è fra le caratteristiche
più evidenti alle quali è informato il codice di procedura civile, a partire
dall’esistenza di un giudice istruttore che, sì, deve tendere “al più
sollecito…svolgimento del processo” (art. 175, c.p.c)
ma che può fissare i termini senza vincoli, stringenti del processo
amministrativo. L’idea sottostante è forse che il carattere patrimoniale della
controversia consente la
compensazione
della eventuale lunga durata con la corresponsione degli interessi (salvo, poi,
che l’idea si mostra sbagliata quando l’eccessiva durata si traduce nella
vanificazione della tutela).
In
ogni caso, una decisione che si basa su un giudizio sulla legittimità
dell’esercizio di un pubblico potere non può restare indefinita per i tempi
ordinari di prescrizione dei diritti. Inoltre, in un contesto di aumento
esponenziale delle situazioni di doverosità delle pubbliche amministrazioni, non
si possono lasciare per lungo tempo indeterminate le conseguenze patrimoniali
dell’azione amministrativa. Si renderebbe, altrimenti, impossibile qualsiasi
decisione (basti pensare, ad esempio, alla costruzione di una
strada).
Su
questi aspetti e cioè sui caratteri che può e deve avere un processo che decide
la fondatezza della pretesa sulla base di un giudizio di legittimità
dell’esercizio di un potere, deve svolgersi l’approfondimento dei principi
propri di questo tipo di processo.
3. Ciò
posto, la ricerca non può fermarsi qui e ritenersi soddisfatta da formule
generalizzanti, come quella del passaggio da un giudizio su un atto a un
giudizio su un rapporto, perché, dando per scontato che si tratta comunque di un
giudizio su un potere, è necessario capire di che potere si tratta e non è
detto, anzi è da escludere, che si possa dare a questo problema una risposta
univoca.
La
distinzione fra tipi di potere che noi utilizziamo è quella fra potere vincolato
e discrezionale o, ancora, connotato da discrezionalità tecnica, ma, senza
mettere ora in discussione questo approccio, è probabile che a risultati più
interessanti si possa pervenire partendo dal basso, dai casi e cioè dal tipo di
interessi che confliggono nel
processo amministrativo.
Non
vi sono ricerche che effettuano questo tipo di analisi né dati documentali
disponibili. Le statistiche scompongono al più i conflitti per zone territoriali
e per materie (edilizia e urbanistica, impiego pubblico, elezioni, appalti,
ecc..) o per l’esito delle impugnazioni (accolte, respinte) o tipologia delle
decisioni (merito, dichiarative, interlocutorie). Non è possibile dedurne
indicazioni significative degli interessi in conflitto.
Qualche
dato che è stato possibile reperire (grazie al presidente de Lise, al presidente
del Tar Umbria Lamberti e alla dott.ssa Ferrari) mostra una tipologia
estremamente variegata e significativa. Non sono ancora in grado di definire una
classificazione completa e mi limito ora a segnalare alcuni
aggregati.
Un
primo: nel 2010 sono stati depositati 1.368 ricorsi da parte di pubbliche
amministrazioni.
Non
disponiamo dei dati disaggregati, ma per lo più si verte in materia di ambiente
e di decisioni che incidono nell’assetto del territorio. In 505 di questi casi
vi sono anche dei controinteressati e sarà interessante capire di quali
interessi sono
portatori.
È
evidente che queste vicende non sono in alcun modo riportabili alla dialettica
autorità-libertà e che anche la spiegazione in termini di “rapporto” non è
calzante. Questo aggregato è interessante anche perché consente di analizzare il
processo amministrativo prescindendo dalla circostanza che il convenuto sia
sempre e solo uno (la pubblica amministrazione).
Un
secondo aggregato significativo e consistente è quello relativo ai permessi di
soggiorno e alle espulsioni di stranieri.
A parte il fatto che qui la normativa distribuisce le competenze
giurisdizionali in maniera del tutto incongrua, in questi casi il giudice
amministrativo esprime un giudizio di legittimità sull’atto (nel quale è
riuscito a dare un’interpretazione restrittiva dei poteri dell’amministrazione
in ordine alla concessione e al rinnovo dei permessi di soggiorno e molto meno
dei decreti di espulsione e di concessione della cittadinanza che restano
connotati da ampia discrezionalità).
Qui,
al contrario del caso precedente, siamo invece nel pieno della dialettica
autorità-libertà e il giudizio è ben configurabile alla vecchia maniera del
giudizio sull’atto.
Un
terzo aggregato è costituito dalle procedure concorsuali (appalti e concorsi).
La sola materia degli appalti forma circa il 10% dell’intero contenzioso di
fronte al giudice amministrativo (6.108 ricorsi depositati nel 2010 su un totale
di 67.582). Nel 70% dei casi vi è stato almeno un controinteressato. Presso il
TAR Umbria nel periodo 2010, primi due mesi del 2011 si sono avuti 21 ricorsi in
materia di appalti, dei quali 18 con controinteressati e 25 per concorsi (dei
quali 23 con controinteressati).
Va
osservato, per altro, che nei pochi casi in cui non vi è il controinteressato
ciò deriva solo dalla circostanza che la fase del procedimento non consente
ancora di individuarlo (ad es. quando viene impugnato un bando o l’esclusione da
una gara).
Va,
ancora, osservato che la presenza di contro interessati si verifica in quasi
tutte le tipologie di processi amministrativi (operazioni elettorali, edilizia,
ambiente, concessioni) con percentuali molto elevate, ed è presente anche con
riferimento ai silenzi e alle dia o scia, nelle quali pongono, anzi, delicati
problemi di tutela del terzo. E’, invece scarsa o assente in materia di pubblico
impiego, di armi e di stranieri.
La
figura del controinteressato nel processo amministrativo è diversa da quella che
si ha nel processo civile. Anzitutto nel solo processo amministrativo il ricorso
è inammissibile se manca la notifica ad almeno uno dei controinteressati;
inoltre nel processo civile il controinteressato ha normalmente un rapporto solo
con una delle due parti (ad esempio, il sublocatore controinteressato
all’annullamento del contratto di locazione richiesto da un proprietario
dell’immobile ha un rapporto solo con il locatario); nel processo
amministrativo, invece, il controinteressato ha una pretesa nei confronti
dell’amministrazione ma anche del concorrente, anzi in realtà il conflitto di
interesse in questi casi è fra due privati: se il secondo classificato in una
gara d’appalto impugna l’atto di aggiudicazione ha un conflitto di interessi con
il primo e una pretesa nei confronti dell’amministrazione; il controinteressato
ha già visto soddisfatta la sua pretesa dall’amministrazione e non vuole
perderla e confligge con il ricorrente. Si potrebbe
dire che il rapporto in questo caso è trilaterale, anziché bilaterale.
Il
tipo di potere esercitato in questi casi dall’amministrazione è diverso in modo
evidente da quello prima indicato. La vicenda non è inquadrabile nella
dialettica autorità-libertà; il conflitto di interessi evidenzia una relazione
conflittuale fra due privati e solo indirettamente di ciascuno di essi con la
pubblica amministrazione che può essere anche indifferente all’esito del
processo, salvo che i profili di celerità e per quelli eventuali della
responsabilità. Vi è ora una interessante ordinanza (n. 14 del 2011) della IV
Sezione del Consiglio di Stato all’Adunanza plenaria in merito alla tutela del
terzo nella Dia. Nel giudizio di primo grado il comune (Venezia), che era il
convenuto, si era “rimesso alla giustizia e alla decisione” del T.A.R. L’esito
del processo gli era indifferente.
Sostenere
che, allora, non si tratta di un potere è sbagliato perché sempre di un potere
si tratta, canonizzato anzi dall’ordinamento dell’Unione
europea.
Solo
che è un potere diverso da quello contro il quale la dottrina ha speso,
opportunamente, le sue migliori energie: è un potere doveroso, che si esprime
con atti che, fino alla stipula del contratto, mantengono carattere unilaterale
e nel quale il profilo caratterizzante è quello della doverosità perché la
funzione consiste nel garantire la par
condicio fra gli aspiranti e i contraenti (oltre che, ovviamente,
l’interesse sottostante alla decisione di avviare il procedimento per acquisire
beni, forniture, servizi, personale).
Un
altro aggregato potrebbe forse essere individuato nei conflitti attinenti ai
poteri regolatori delle Autorità amministrative indipendenti e nella scelta,
rimessa al giudice amministrativo, sulla sorte del contratto d’appalto a seguito
dell’annullamento dell’aggiudicazione. Anche in questo caso il conflitto è il
più delle volte fra privati. Ne ha trattato recentemente Giulio Napolitano (Il
grande contenzioso economico nella codificazione del processo amministrativo)
che ha messo in evidenza, come già Alberto Romano “l’estensione del sindacato
giurisdizionale amministrativo sulle attività maggiormente rilevanti che
l’amministrazione esplica, le quali abbiano importanza economica e, comunque,
incidano sul mercato”. La giuridicizzazione di
conflitti che in passato trovavano una composizione di tipo politico ha indotto
il legislatore ad ampliare le competenze del giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva dotandolo di particolari poteri e prevedendo riti
ulteriormente abbreviati.
In
molti di questi casi il carattere equitativo della decisione del giudice sembra
evidente. Questo aggregato (del grande contenzioso economico) va però verificato
perché da un lato il grande contenzioso economico non è esclusivo del processo
amministrativo e dall’altro comprenderebbe al suo interno vari tipi di conflitti
di interessi che rientrano nelle tipologie prima indicate.
4. Due
ultime questioni sulle quali è opportuna una riflessione. La prima riguarda il
panorama complessivo delle vertenze fra amministrazioni e privati; la seconda
l’ordinamento della magistratura amministrativa.
Quanto
alla prima: prescindiamo in questa sede dall’insieme dei profili di tutela che
si realizzano prima e comunque al di fuori del processo, a partire da quelli
organizzativi, procedimentali e partecipativi e concentriamoci sulle vertenze
che danno luogo a processi.
Già
Piras e Giannini avevano osservato che non si può
capire e valutare il ruolo del giudice amministrativo se non lo si esamina
unitamente a quello del giudice ordinario nei confronti delle pubbliche
amministrazioni e Nigro aveva dedicato al problema una
parte consistente del suo lavoro.
Una
distinzione delle sfere giurisdizionali derivata dalla natura delle situazioni
giuridiche soggettive dedotte in processo (diritto soggettivo o interesse
legittimo) non poteva che prestarsi a incertezze e oscillazioni, quali, appunto
si sono verificate per decenni.
Gli
orientamenti della Cassazione sono stati dei più diversi tipi, andando dalla
applicazione generalizzata del principio di degradazione dei diritti a
interessi, fino alle tesi opposte che hanno dato vita alla nozione di carenza di
potere e all’individuazione di diritti non degradabili, nozione per altro
largamente indefinita, che non coincide comunque con quella dei diritti
fondamentali, altra nozione tanto importante quanto imprecisa (anche il giudice
amministrativo si occupa della tutela di diritti
fondamentali).
Dopo
il tentativo di individuazione di criteri definiti posto in essere dal
legislatore con la suddivisione per materie e l’annullamento da parte della
Corte costituzionale, l’occasione del codice del processo amministrativo è stata
utilizzata per definire meglio le competenze del giudice amministrativo, e
quindi indirettamente di quello ordinario, utilizzando però a volte, anche nei
riti speciali, il criterio oggettivo del tipo di materia e altre volte quello
soggettivo (l’autorità che adotta l’atto).
Sarebbe
bene approfondire, e ci vorrà del tempo, se il rapporto fra le giurisdizioni da
ultimo individuato è sufficientemente definito (come non sembrerebbe perché sono
evidenti i permanenti conflitti in varie zone di confine), salvo poi verificarne
anche il grado di intrinseca coerenza.
L’analisi
da effettuare per verificare la linearità dell’assetto del riparto delle
competenze giurisdizionali non va limitata però a questi profili sui quali si
sofferma la dottrina amministrativa.
Prendendo
in considerazione l’insieme delle vicende dalle quali può scaturire un conflitto
processuale tra pubbliche amministrazioni e privati, si costata che l’ambito
delle fattispecie è molto articolato. Una parte consistente anzi prevalente dei
conflitti è sottratta alle competenze del giudice amministrativo. Oltre al
rapporto di impiego privatizzato e alle questioni meramente patrimoniali, vi è
tutto il settore della previdenza che è assegnato al giudice del lavoro. Vi è,
ancora, gran parte della materia delle sanzioni amministrative (quasi tutte
quelle che riguardano la vita quotidiana delle persone) attribuita al giudice di pace, anche se
l’ultima riforma ha sottratto al giudice ordinario la materia delle sanzioni
della Banca d’Italia, della Consob, come quelle delle altre autorità
amministrative indipendenti.
V’è,
ancora, tutta la questione delle controversie tributarie affidate a organi dei
quali è davvero arduo affermare il carattere giurisdizionale e di terzietà. Nonostante la presenza dei magistrati
amministrativi e ordinari e il riordino operato con i d. lgs. 545 e 546 del 1992, l’insoddisfazione per l’assetto
della giustizia tributaria è evidente e ne sono prova i vari disegni di legge
che ne propongono la riforma.
Come
è possibile occuparsi, anche a livello scientifico, della affermazione dello
stato di diritto e non occuparsi del potere impositivo che viene esercitato con
metodi arcaici, esposti al più arcaico formalismo, accompagnati da forme pseudo-consensuali
con le quali il fisco e il contribuente si accordano sulla definizione di
un fatto? Gli studi recenti avviati dai alcuni colleghi di diritto
amministrativo (Civitarese, Di Benedetto) vanno
incoraggiati e approfonditi. Nei Principi di diritto amministrativo Santi Romano
trattava la materia tributaria, poi è stata lasciata agli specialisti.
Vi
sono infine, le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti, nei giudizi di
conto, responsabilità e pensionistici, dei quali gli amministrativisti si sono occupati solo marginalmente. Un
recente lavoro di Valentina Giomi ne mette in evidenza
i profili problematici e “il difficile rapporto con i principi del giusto
processo”.
Cosa
resta al giudice amministrativo? Non poco se si ha presente che nel
5. L’ultimo punto è quello dell’ordinamento della
magistratura amministrativa. Questa è diventata ormai, come osservava de Lise
recentemente, il giudice ordinario dell’esercizio del pubblico potere, e ha
acquisito una posizione di terzietà fra le parti del
processo.
L’esercizio
contemporaneo della funzione consultiva e la nomina governativa di una parte dei
consiglieri di Stato risentono certamente dell’evoluzione storica
dell’istituto.
L’evoluzione
ha riguardato anche i profili organizzativi, perché la quota governativa, che
riguarda solo i consiglieri di Stato, si è notevolmente assottigliata, nel
totale, per effetto della istituzione dei TAR (il Governo nomina ora solo 25 su
400 magistrati amministrativi) , e perché il rafforzamento del Consiglio di
Presidenza (l. 205/2000) determina l’autogoverno dei giudici
amministrativi.
Vi
è inoltre, la prassi di utilizzare in prevalenza i consiglieri di Stato nominati
dal Governo nella funzione consultiva.
Il
modello è ben diverso da quello francese, che è rimasto più improntato a una
impostazione più funzionariale, ma non v’è dubbio che
il giudice terzo escluderebbe la nomina proveniente da una delle parti (anche se
solo per semplificazione si può pensare alla P.A. come un tutto unitario) e che
gli incarichi di supporto al Governo conferiti frequentemente ai consiglieri di
Stato possono determinare situazioni di interferenza. Avremo poi due relazioni
dedicate ai profili organizzativi e
quindi non mi soffermo su questo problema.
Per
non trarre conclusioni a priori dai modelli organizzativi andrebbe fatta una
analisi dei comportamenti. Ad esempio, potrebbe essere interessante il confronto
con il modello spagnolo nel quale a una giurisprudenza che E. Garcìa de Enterrìa considera forse
la più regressiva rispetto a quelle degli altri paesi europei corrisponde un
assetto formale che sembrerebbe più “avanzato” (se si può usare questo termine)
di quello italiano perché non vi sono giudici amministrativi separati da quelli
ordinari ma solo sezioni specializzate della magistratura ordinaria; tuttavia
non sembra che il modello funzioni nel senso di una maggiore tutela del privato
contro gli atti delle pubbliche amministrazioni perché non mancano i conflitti
di competenza fra le diverse sezioni (v. art. 44 leg.
Organica 1.7.1985 n. 6), l’ambito della giurisdizione amministrativa è più ampio
perché più basato sul criterio soggettivo ed esteso anche a profili di carattere
patrimoniale, la fase esecutiva è meno incisiva di quella dell’ordinamento
italiano. Marcos Almeida potrà poi darci delle
delucidazioni al riguardo.
Un
confronto sotto il profilo della effettività della tutela non si può fare solo
sulla base della lettura delle norme; altrimenti si dovrebbe ritenere che in
Italia la tutela è assicurata già dal 1865 dal giudice ordinario. Le norme e la
giurisprudenza mostrano la tutela che c’è, non quella che manca. Quando si legge
che la sentenza 500 della Cassazione ha introdotto nel 1999 la responsabilità
civile dell’Amministrazione, non si capisce immediatamente che era stata la
stessa Cassazione a escludere, fino a quella sentenza, l’applicabilità dell’art.
2043 ai casi di esercizio del potere amministrativo.
Un
metodo corretto dovrebbe forse, anche qui, partire dall’analisi dei casi per
verificare che risposta trovano nei diversi ordinamenti le domande di giustizia
nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Non è un lavoro semplice anche
perché non può essere assunto a parametro di efficienza solo in grado di
soccombenza delle P.A. Anzitutto, come si è visto, è molto frequente la presenza
dei controinteressati, inoltre la parità delle parti nel giudizio vale anche per
gli interessi delle collettività di cui sono portatrici le amministrazioni, ai quali deve essere data nel processo
la stessa tutela che si dà agli interessi dei privati.
Dopo
decenni di studi volti a superare il deficit di tutela che si aveva nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, si può dire che il risultato è stato
ormai in larga misura raggiunto.
Si
apre ora la possibilità, e la necessità, di nuovi studi che, per produrre
risultati scientificamente validi, vanno fatti studiando anche il processo
civile e la dottrina processuale civilistica (per meglio capire le affinità e le
differenze) e considerando insieme i profili processuali e quelli della dinamica
degli interessi sottostanti al processo, di tutti gli interessi, compresi quelli
dei quali sono portatrici le pubbliche amministrazioni.