Il risarcimento del
danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi
problemi e nascita di nuove questioni
(brevi note a margine
di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione
risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23
marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni
per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli).
di
Maria Alessandra
Sandulli
ordinario di diritto
amministrativo nell’Università di Roma Tre
È passato quasi un lustro da quando con tre note “pronunce
gemelle” (in data 13 e 15 giugno 2006),
E sono passati quasi sette anni dalla sentenza-legge 204 del
2004 (ampiamente e costantemente confermata e chiarita dalla giurisprudenza
successiva[2]) con la quale
Il percorso verso l’effettività della tutela (a dispetto del
doppio plesso giurisdizionale) ha segnato da allora nuove significative tappe
in ambito sia legislativo che giurisprudenziale: l’introduzione della translatio judicii (con le note sentenze n. 4109/2007 della Corte
di Cassazione e 77/2007 della Corte costituzionale[3], seguite dall’art. 59
della l. n. 69 del 2009 e da ultimo dall’art. 11 del nuovo codice del processo
amministrativo) e del risarcimento del danno da ritardo (con l’art. 2 bis l. n.
241 del 1990, introdotto dalla l. n. 69 del 2009 e gli artt. 30 comma 4 e 117
comma 6 c.p.a., recentemente oggetto di importanti applicazioni
giurisprudenziali[4]),
la conferma dell’autonomia dell’azione risarcitoria (con la sentenza 30254 del 23
dicembre 2008 della Corte di Cassazione, seguita dal dibattutissimo art. 30
c.p.a.) l’esclusione della colpa come limite al risarcimento dei danni per
equivalente in caso di impossibilità di reintegrazione in forma specifica nelle
gare pubbliche (CGUE 30 settembre 2010 in C-314/09), l’introduzione del
giudicato implicito sulla giurisdizione (con la sentenza SS.UU. 24883 del 2008[5], seguita dall’art. 9 c.p.a.);
la soluzione della vexata quaestio
della giurisdizione sulla sorte del contratto (con la sentenza SS.UU. n. 2906/2010,
seguita dagli artt. 245 bis e ter d.lgs. n. 163 del 2006, introdotti
dal d. lgs. n. 53 del 2010 e, da ultimo, dagli artt. 121 ss. c.p.a.), i “principi generali” e l‘attenzione
dedicata a tale profilo dal nuovo c.p.a., con particolare riferimento al
contraddittorio, alla tutela cautelare e all’ottemperanza, ma soprattutto, per
quanto possibile in un testo normativo, alla “sincerità” e chiarezza delle
regole[6].
Un esempio importante di tale sincerità è costituito a mio
avviso proprio dalla soluzione (discussa e forse discutibile, ma sicuramente
“chiara”) data dal codice alla questione della pregiudiziale di annullamento:
l’azione risarcitoria, come richiesto dalla Corte di Cassazione (in disparte
ogni valutazione sulla correttezza del metodo utilizzato), è ormai ammessa in
via autonoma; ma, come “insinceramente” fatto trasparire sin dalle prime citate
pronunce gemelle, ma non immediatamente percepibile ai cittadini non giuristi,
la sua fondatezza è strettamente legata alla diligenza mostrata dal soggetto
leso nell’impedire la consumazione del danno.
Sin dai primissimi dibattiti sul tema, chi scrive si
preoccupò di sottolineare che
La collaborazione che il sistema in fatto richiede agli
amministrati per assicurare la giustizia nell’amministrazione ed evitare che
quest’ultima paghi due volte (per la lesione che un atto illegittimo comunque
arreca all’interesse pubblico e per il ristoro dei danni al soggetto che ne
subisce ingiustamente gli effetti), uscita dalla porta dell’azione
pregiudiziale di annullamento (o di dichiarazione di illegittimità del
silenzio) rientra in sostanza dalla finestra attraverso l’imputazione allo
stesso danneggiato della parte di pregiudizio da esso evitabile con un
“diligente utilizzo dei mezzi di tutela posti a sua disposizione”.
Ma ormai le regole sono chiare: l’art. 30 c.p.a., dopo aver
affermato l’ammissibilità dell’azione risarcitoria autonoma da quella di
cognizione e averne fissato il termine di decadenza in 120 giorni dal giorno in
cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il
danno deriva direttamente da questo (o, per il risarcimento dell'eventuale
danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza
dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento,
dall’eventuale adempimento o dall’inutile decorso di un anno dal medesimo
termine di conclusione), dispone (e dunque sinceramente “avvisa”) che “Nel determinare il risarcimento il giudice
valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti
e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di
tutela previsti”.
La riduzione a 120 giorni del termine di decadenza per la proposizione
dell’azione risarcitoria, operata dal Governo in modifica del più ampio termine
di 180 giorni originariamente fissato dalla Commissione istituita presso il
Consiglio di Stato[8]
costituisce un ulteriore esempio di chiarezza: il termine di 120 giorni è, come
noto, il termine per la proposizione del ricorso straordinario (ammesso, con la
sola eccezione della materia dei contratti pubblici, in alternativa al ricorso
giurisdizionale): il soggetto che si ritiene ingiustamente danneggiato da un
atto amministrativo, è ancora in termini per dimostrare la propria diligenza
chiedendone (nelle vie peraltro meno onerose della giustizi “interna”)
l’annullamento e, laddove occorra, la sospensione e/o adozione di ogni altra
opportuna misura cautelare.
Il sistema è stato proprio in questi giorni lucidamente
ricostruito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che, con sentenza 23
marzo 2011 n. 3, con l’autorevolezza che le viene ormai espressamente e
significativamente riconosciuta dall’art. 99 c.p.a. (imponendo il rispetto dei
principi da essa affermati da parte delle Sezioni semplici, che, per
discostarsene, dovranno nuovamente sottoporle la questione).
Dopo aver correttamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo
come “posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un
bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si
compendia nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul
corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o
la difesa dell'interesse al bene” e puntualmente sottolineato
che “in questo quadro normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione
dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad
un bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti
alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli
effetti prodotti del provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto
all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto
ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con
chiarezza superato”
(autonomia dell’azione, che, sempre secondo le chiare parole della sentenza, “si apprezza
, con argomento a
contrario, se si rileva che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma
1 dell’art. 30, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio
amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela
di diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio
alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e
seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad
altra azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia che
imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se non
accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di
annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex
art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma
rispetto al rimedio caducatorio”), l’Adunanza plenaria evidenzia, in termini di assoluta “sincerità”
che “il codice ha suggellato un punto di
equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due
giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in
definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura
di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi,
approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale
sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto
concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti,
per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per
l’annullamento.
E tanto sulla scorta di
una soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di
inammissibilità, della domanda avente ad oggetto danni che l’impugnazione, se
proposta nel termine di decadenza, avrebbe consentito di scongiurare”.
La soluzione, come ben chiarito dalla pronuncia, coerente al
diritto comunitario, “come interpretato
dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso dell’autonomia
processuale delle due tecniche di protezione, assume un rilievo pregnante nel
nostro ordinamento alla luce dell’art. 1 del codice del processo amministrativo
che richiama espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo
volti ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva”.
Il massimo organo della giustizia amministrativa poi ha messo
efficacemente in luce il “superamento
della centralità della tutela di annullamento ove siano percorribili altre e più appropriate
forme di tutela, che l’art. 21 octies,
comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 della legge
11 febbraio 2005, n. 15, ha statuito che il provvedimento amministrativo non è
suscettibile di annullamento ove sia affetto da vizi procedimentali o formali
che non abbiano influito sul contenuto dispositivo dell’atto finale”,
richiamando anche il ruolo dell’art.
34, comma 3, del codice, il quale stabilisce che "quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento non
risulti più utile per il ricorrente il giudice accerta l’illegittimità
dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori".
Invocando la recente giurisprudenza costituzionale in tema
rapporti tra giudice amministrativo e ordinamento sportivo (sent. n. 49 dell’11
febbraio 2011), la pronuncia osserva quindi che “si supera così l’impostazione
tradizionale che vedeva l’annullamento quale sanzione indefettibile a fronte
del riscontro di un vizio di legittimità, dandosi vita ad un sistema delle
tutele duttile, che consente un accertamento non costitutivo
dell’illegittimità, a fini risarcitori”e rileva che, ad avviso
dell’adunanza plenaria, “l’analisi dei
rapporti sostanziali debba essere svolto, piuttosto che sul piano
dell’ingiustizia del danno valorizzato dalle pronunce in esame, su quello della
causalità giuridica”.
Viene a tal fine richiamato il già ricordato art. 1227, comma 2, c.c., “alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt.
1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito
dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una
lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche
nella fase patologica dell’inadempimento, il creditore, ancorché vittima
dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad
evitare o a ridurre il danno”.
Correttamente peraltro la sentenza dà conto dell’orientamento
interpretativo prevalente nel senso che “il
comportamento operoso richiesto al creditore non comprenderebbe l'esperimento di
un'azione giudiziaria, sia essa di cognizione o esecutiva, trattandosi di
attività per definizione complessa e aleatoria, come tale non esigibile in
quanto esplicativa di una mera facoltà, dall'esito non certo”. Ma il massimo consesso
giurisdizionale amministrativo ritiene che “tale
indirizzo laddove fissa, con affermazione perentoria ed astratta, il principio
dell’inesigibilità ex bona fide di condotte
processuali, meriti rivisitazione” anche alla stregua della più recente giurisprudenza della
Corte di cassazione sul divieto di abuso delle posizioni soggettive, che
concerne, oltre che la fase fisiologica del rapporto, anche quella patologica:
“il creditore, cioè, deve cooperare col
debitore non solo per agevolare l’adempimento, ma anche per non aggravare la
sua posizione una volta che si è verificata la violazione dell’impegno
obbligatorio. E tanto si ricava proprio dal secondo comma dell’art. 1227 c.c.,
il quale impone a colui che abbia subito l’inadempimento (o il fatto illecito)
di porre in essere in base a buona fede anche comportamenti attivi, entro i
limiti del sacrificio non apprezzabile, per evitare l’aggravamento del danno”.
Per concludere che “il
divieto di tenere condotte contrarie a buona fede ha un ancoraggio
costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost.” (principio di solidarietà),
che “costituisce canone di valutazione
anche delle condotte processuali ed opera anche nella fase patologica del
rapporto obbligatorio” e che “si deve
allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità
delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più
duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in
materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è
espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche
processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto”.
Applicando detto criterio interpretativo al rapporto azione
risarcitoria dei danni da lesione di interessi legittimi - azione di
annullamento dell’atto o di accertamento dell’illegittimità del silenzio,
l’Adunanza plenaria ne ricava che “si
deve allora reputare la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non
(comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste
dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente
che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo
di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il
risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente
alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno
che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende
configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il
canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di
auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la
non risarcibilità del danno evitabile”.
Ad evitare il rischio di un’apparente sostanziale
riproduzione della pregiudiziale di annullamento, la sentenza chiarisce che “A diversa conclusione si deve invece
pervenire laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio
sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto
l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in
generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si consideri, a
titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia stato
immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o
quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di
praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o,
ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge
(cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo
confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo), il
mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione
al conseguimento del bene della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al
soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso
del giudizio in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda
sul solo profilo del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale
prima ricordata, oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo
amministrativo”.
Nella parte conclusiva, il supremo consesso giurisdizionale
amministrativo affronta anche il delicato tema dei profili probatori della
buona fede, ponendo in luce la necessità di adattare l’applicazione della regola iuris sottesa all’art. 1227,
comma 2, del codice civile alle peculiarità del processo amministrativo
imperniato sul metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio
dispositivo (ribadito dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11 febbraio 2011 n.
924 e tradotto dall’art. 63, comma 2, c.p.a.), tenendo peraltro conto “della specificità del tema probatorio in
esame, il quale impinge in buona misura su quaestiones iuris - quelle relative all’individuazione degli strumenti giuridici di tutela
praticabili, al plausibile esito del ricorso per annullamento ed agli sbocchi
degli ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali - che soggiacciono al
principio iura novit
curia”.
Viene dunque in definitiva affermato, con un principio guida
che dovrà orientare la successiva giurisprudenza, che “si deve allora ritenere che, sulla base di principi già desumibili dal
quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del codice
del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato a valutare,
senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli
elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di
annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe,
secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica
che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in
parte mitigare o ridurre il danno”.
La lettura della sentenza, confermando la piena e consapevole
adesione del Consiglio di Stato, nella sua massima espressione, al quadro
normativo delineato al c.p.a. in sostanziale coerenza alle tesi espresse dalla
Corte di Cassazione, offre – finalmente – un elemento di “sincerità” sulle
regole del sistema: la “pace tra le magistrature superiori è fatta”, si
potrebbe più semplicisticamente osservare, con l’auspicata cessazione di un
ingiusto quadro di incertezza sull’effettiva garanzia dell’azione risarcitoria nei
confronti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati o
comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo (art.
7 c.p.a.).
Come spesso accade, per una singolare coincidenza,
contestualmente alla pubblicazione della surrichiamata sentenza dell’Adunanza
plenaria, il rapporto tra le due giurisdizioni subisce tuttavia una nuova
importante “scossa” da parte della Corte regolatrice.
Pur partendo dalle surriferite premesse storiche
sull’evoluzione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo (e
dunque ricordando che, con l’art. 35 d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito
dall’art. 7 l. n. 205 del 2000, peraltro incompletamente richiamato nella sola
parte relativa alla giurisdizione esclusiva, il legislatore ha inteso rendere
piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione,
concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo
di legittimità dell’azione amministrativa, ma anche, ove configurabile, quella
della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando
per esso la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi
al giudice ordinario) con tre “parallele” decisioni depositate il 23 marzo 2011
(con i nn. 6594, 6595 e 6596), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione
affrontano il delicato tema della risarcibilità delle posizioni soggettive
conferite/riconosciute dalla pubblica amministrazione attraverso un
provvedimento “favorevole” (ma la regola vale evidentemente anche per il
silenzio nelle attività di controllo, così ulteriormente complicando il quadro
degli effetti della s.c.i.a.[9]) successivamente
annullato.
Secondo le Sezioni Unite, “in questo caso, intervenuto l’annullamento d’ufficio o giurisdizionale per
la riscontrata illegittimità” del provvedimento favorevole i titolari del
diritto ad edificare o a eseguire l’appalto, venendone “giustamente privati (..) non possono invocare, adducendo la perdita di
tale facoltà, il risarcimento del danno”. In particolare, “sulla base di questa situazione non possono
invocare né la tutela demolitoria di qualche atto (a meno che non si ritenga di
impugnare il provvedimento di ufficio, che, una volta riconosciuto legittimo,
non consente più di invocare lo jus aedificandi (e il discorso vale anche per quello ad eseguire l’appalto) quale
fondamento di una ulteriore tutela), né quella risarcitoria alla possibilità di
quel tipo di tutela strettamente legata”.
Proprio perché la tutela risarcitoria non integra una
autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma una forma di tutela dell’interesse
ingiustamente leso dall’esercizio del potere amministrativo, la legittima
privazione del diritto conseguente ad un provvedimento illegittimamente
favorevole (o esercitabile sulla base di quest’ultimo), non consentendo la
tutela demolitoria, non consentirebbe neppure di azionare dinanzi al giudice
amministrativo la tutela risarcitoria ad essa consequenziale.
Una volta annullato, il provvedimento continuerebbe a
rilevare per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio “esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno
provveduto al suo rilascio, integrando così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di
un atto illecito per violazione del neminem laedere, imputabile alla
pubblica amministrazione in virtù del principio di immedesimazione organica,
per avere tale atto, con la sua apparente legittimità, ingenerato nel suo
destinatario l’incolpevole convincimento (avendo questo il diritto di fare
affidamento sulla legittimità dell’atto amministrativo e, quindi, sulla
correttezza dell’azione amministrativa) di poter legittimamente procedere alla
edificazione del fondo” (o all’esecuzione dell’appalto).
L’unica tutela invocabile sarebbe così quella risarcitoria
fondata sull’affidamento, relativa a un danno “che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere
pubblico, fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto certamente non dipende dalla natura
privatistica o pubblicistica del soggetto che ne è responsabile, atteso che
anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a
rispettare nell’esercizio dell’attività amministrativa principi generali di
comportamento quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza”.
Tale tutela, quindi, non sarebbe riconducibile alla sfera di
giurisdizione del giudice amministrativo, che, a norma degli artt. 103 e 113
Cost., sarebbe “ordinata ad apprestare
tutela – cautelare, cognitoria ed esecutiva – contro l’agire della pubblica
amministrazione, manifestazione di poteri pubblici, quale si è concretato nei
confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere è stato
esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio
interesse sostanziale o la sua fruizione”, senza potersi estendere alle
ipotesi (come quelle considerate nelle pronunce in commento) in cui la parte
ricorrente non lamenta un esercizio illegittimo del potere, consumato in suo
confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma “la colpa che connota un comportamento
consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per
pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella
loro legittimità ed orientato una corrispondente successiva condotta pratica,
poi dovuta arrestare”.
La possibilità di quest’unica, e dunque autonoma, tutela,
porterebbe ad escludere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
ma anche quella generale di legittimità, stante la consistenza di diritto
soggettivo della situazione (affidamento) fatta valere, con conseguente riserva
della relativa cognizione al giudice ordinario.
La soluzione, indubbiamente suggestiva, prospettata dalla
Suprema Corte, se ha sicuramente il pregio di aprire la porte alla tutela del
c.d. “legittimo affidamento” riposto dagli amministrati nell’operato (attivo od
omissivo) dei pubblici poteri (offrendo nuovi elementi a sostegno della già
rappresentata esigenza di una loro massima “sincerità” nell’esercizio dei
compiti di amministrazione attiva e di controllo), non sembra però – a prima
lettura – condivisibile sul piano dell’effettività (e della correlata
concentrazione) della tutela.
Il percorso compiuto in questi termini dalla giurisprudenza
costituzionale (dalla sentenza 204 del 2004 alle sentenze 77 e 140 del 2007) e
dalle surrichiamate pronunce della stessa Corte di cassazione in tema di translatio iudicii e di giudicato
implicito sulla giurisdizione (percorso coerentemente confermato dallo stesso
legislatore nella redazione delle nuove regole del processo civile ed
amministrativo) osta invero ad una lettura così riduttiva del legame
potere/risarcimento.
Il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque
espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso arreca deve
essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla
cognizione del giudice amministrativo: tanto più se esso ha già conosciuto in
sede cognitoria della sua legittimità (su ricorso del terzo leso nel suo
interesse oppositivo o del destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio).
Resta indubbiamente il problema della natura della posizione
soggettiva di affidamento[10] e della conseguente
spettanza all’uno o all’altro plesso giurisdizionale della sua cognizione fuori
dalle materie attribuite alla giurisdizione amministrativa esclusiva.
Ricostruendo l’affidamento in termini di diritto soggettivo, non vi sarebbe
infatti nelle ipotesi considerate una lesione di interessi legittimi da
tutelare in via risarcitoria: da ciò l’estraneità delle relative controversie
alla giurisdizione amministrativa di legittimità.
Nell’attesa di conoscere l’esito nel merito delle
controversie portate all’esame della Suprema Corte e la risposta che i giudici
amministrativi vorranno eventualmente dare alle predette pronunce, non si può
dunque che segnalare, con i necessari limiti della primissima lettura, la
massima rilevanza del tema e la probabile apertura di un nuovo epocale
dibattito dottrinario e giurisprudenziale, nel cui ambito saranno
prevedibilmente riaccese anche le più classiche questioni legate alla c.d.
occupazione acquisitiva a valle della dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni sulla c.d. acquisizione sanante[11].
[1] Si rinvia alle osservazioni svolte in Finalmente “definitiva” certezza
sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d.
“pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena
tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e
13911 del 2006), in Riv. Giur. Edil.,
2006, 880 e in
[2] Cfr. in particolare la
sent. n. 191 del 2006, sulla quale mi sia consentito rinviare a Riparto di giurisdizione atto secondo:
[3] Mi sia consentito richiamare in proposito i rilevi svolti in I recenti interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione sulla translatio iudicii, in www.federalismi.it, 2007 e in Riv. Giur. Edil., 2007, I, 487.
[4] Cfr. CGA 4 novembre 2010 n. 1368 e Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271, 21marzo 2011 n. 1739 e 24 marzo 2011 n. 1796 e Sez. IV, 2 marzo 2011n. 1335.
[5] M.A. Sandulli, Dopo la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 24883 del 2008 e sui suoi possibili riflessi sulla doppia giurisdizione sui contratti pubblici), in www.federalismi.it, 2008.
[6] In argomento, M.A. Sandulli, La s.c.i.a. e le nuove regole sulle tariffe incentivanti per gli impianti di energia rinnovabile: due esempi di 'non sincerità' legislativa. Spunti per un forum, in www.federalismi.it, 22 marzo 2011.
[7] Cfr. le considerazioni
svolte nelle Conclusioni al Convegno
su Il ruolo del giudice: le magistrature supreme svoltosi presso l’Università degli studi “Roma Tre” il 18 e
19 maggio
[8] L’iter di formazione del c.p.a. è assai utilmente ricostruito, con i testi a fronte, nel volume di Ro. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2011.
[9] Sui quali si rinvia alle riflessioni citate supra alla nota 6.
[10] L’argomento, sul quale merita sempre richiamare la fondamentale monografia di F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, Giuffrè, 1970, ora in Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli “anni trenta” all’ “alternanza”, Milano, Giuffrè, 2001, e gli scritti di F. Trimarchi Banfi, L’annullamento d’ufficio e l’affidamento del cittadino, in Dir. amm. 2005, 843 e La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa. Questioni attuali, Torino, UTET, 2009 è stato affrontato da ultimo da M. Gigante, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto interno, Milano, Giuffrè, 2008, Il principio di affidamento e la sua tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Dell’albero e del ramo, in Dir. e soc., 2009, 403 e Il principio di tutela del legittimo affidamento in M.A. Sandulli (a cura di), Il codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2010, 130 ss. e ivi ampi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.
[11] Sul tema, cfr. F. Patroni
Griffi, Prime impressioni a margine della
sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, in tema di espropriazione
indiretta, in www. federalismi.it,
ottobre 2010 e G. Mari, L’espropriazione
indiretta: la sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010
sull’acquisizione sanante e le prospettive future, in Riv.Giur. Edil. fasc. 5/2010.