Le azioni di accertamento, adempimento, nullità ed annullamento nel codice del processo amministrativo

 

Giulio Veltri

Magistrato Tar

Pubblicato il 24 febbraio 2011*

 

* Intervento al seminario di studi su: “Prospettive e problemi nell’applicazione delle norme del primo libro del Codice del processo amministrativo” – Reggio Calabria,  8 febbraio 2011.

 

SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Le singole azioni di cognizione; 3. L’azione di accertamento mero o autonomo; 4. In particolare, l’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di contestazioni; 5. L’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di silenzio assenso; 6. L’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di provvedimento lesivo; 7.  Azione di adempimento in materia di “silenzio”; 8. L’azione di adempimento in relazione al silenzio è estensibile anche all’attività provvedimentale o, più in generale, c’è una via interpretativa all’azione di adempimento? 9. Pregiudizialità sostanziale dell’azione di adempimento rispetto a quelli condanna al danno di ritardo: sussiste? 10. L’art 34 comma 1 lett. c) contempla un’azione di condanna atipica? 11. L’azione di nullità: profili problematici; 12. Azione di annullamento e vizio di incompetenza

                                                     

 

1. Premessa

La parte del codice del processo amministrativo dedicata alle azioni è invero innovativa poiché diverge sensibilmente dalla sistematica tradizionale dei codici.

Nel diritto civile il codice sostanziale individua i diritti, ed in genere, le posizioni giuridiche meritevoli di tutela, oltre che le note peculiari di alcune delle relative azioni (presupposti, legittimazione, prescrizione, decadenza). Il codice di procedura civile disciplina, invece, i modi di instaurazione del processo ed i riti attraverso i quali l’azione proposta giunge ad essere valutata e decisa. In altri casi, le azioni sono semplicemente ricavabili dalla disciplina della fattispecie. I poteri del giudice, in assenza di norme di privilegio per una delle parti, sono in via generale ricavabili dal contenuto della norma sostanziale, salvo che per quelli aventi effetto costitutivo che sono invece espressamente previsti e disciplinati.

Nel codice del processo amministrativo, ed ancor più vistosamente nelle bozze che hanno segnato le tappe della sua genesi, probabilmente a causa della delimitazione dell’area disciplinabile in forza della delega,  si è dettato il principio della tutela piena ed effettiva, ma poi si è scelto di individuare le singole azioni esperibili secondo una logica di tendenziale tipicità e, soprattutto, in assenza di previe norme che descrivessero sufficientemente lo spessore delle posizioni giuridiche attribuite agli amministrati ed all’amministrazione. Essendo, le azioni prospettate, prive di un solido aggancio sostanziale già sufficientemente disciplinato, né è derivato che l’eliminazione  - durante l’iter di affinamento e approvazione del progetto di codice – di alcune delle disposizioni più innovative, ha inevitabilmente provocato il venir meno o quanto meno l’incertezza delle coordinate della tutela (il riferimento è in particolare l’azione di accertamento autonomo ed all’azione di adempimento).

 

2. Le singole azioni di cognizione

Ripristinando l’ordine logico dei fattori, e dunque, anteponendo l’analisi delle posizioni e dei rapporti giuridici nei quali le prime vivono, rispetto agli strumenti di tutela ed ai modi e termini del relativo esperimento, può dirsi che al momento dell’entrata in vigore del codice le uniche fattispecie sostanziali chiaramente disciplinate dalla legge 241/90 e dalla legge 205/2000 secondo lo schema tradizionale (ossia fattispecie sostanziale – azione – poteri del giudice), dalle quali potevano trarsi posizioni giuridiche in via generale azionabili in giudizio, erano: a) l’annullamento di atti amministrativi (art. 21 octies comma 2), b)  la nullità di atti amministrativi (art. 21 septies), c) il risarcimento del danno (derivante da illegittimità o da ritardo, art. 7 legge 205/2000; art. 2 bis l. 241/90), d) l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso (art. 2), e) l’obbligo di consentire l’accesso ai documenti amministrativi, f) l’obbligo di ottemperare alle pronunce del giudice (legge TAR e TU CdS).

Dalla norma che afferma l’annullabilità degli atti amministrativi poteva, cioè, ricavarsi la consistenza della  posizione giuridica di colui che è pregiudicato dall’atto illegittimo nel godimento o nella pretesa ad un bene della vita, idem per quella sulla nullità. Dall’affermazione della risarcibilità dei danni prodotti dall’esercizio del potere amministrativo, poteva ricavarsi il diritto al ristoro dei pregiudizi subiti, e così via.

Conseguentemente (in modo secondo me corretto) la versione finale del codice del processo ha disciplinato le caratteristiche peculiari della generale azione di annullamento e di condanna regolandone i relativi rapporti. Ha altresì disciplinato specifiche ipotesi di azioni di accertamento o adempimento in tema di nullità degli atti amministrativi ed inerzia della PA, poiché relative a fattispecie già compiutamente delineate dal punto di vista sostanziale (art. 2 e 21 septies l. 241/90).

Non ha invece disciplinato l’azione di accertamento mero e quella generale di adempimento, poichè queste ultime richiedevano una previa disciplina sostanziale, che avrebbe  dovuto naturalmente risiedere nella legge 241/90 e che invece non c’era e non c’è ancora.

Tanto premesso sul piano positivo, è necessario comprendere se possa comunque ragionevolmente profilarsi una via interpretava all’azione di accertamento mero e di adempimento, alla luce del complesso quadro normativo e dei principi generali costantemente affermati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa.

 

3. L’azione di accertamento mero o autonomo

La dottrina processualcivilistica insegna come pur sussistendo un rapporto di continenza logica tra l’attività di accertamento e la condanna nell’ambito della cognizione giudiziale, lo stesso non possa predicarsi per le azioni di mero accertamento e di condanna.

La prima, atipica, ha presupposti diversi dalla seconda, invece tipica. In particolare, è esperibile un’azione di mero accertamento quando è in essere una contestazione che rende dubbia l’esistenza e la consistenza della posizione giuridica. Autorevole dottrina ha spiegato che l’azione di mero accertamento è preordinata alla rimozione dell'incertezza determinata «dalla contestazione (esplicita o implicita) di un diritto dell'attore o (il che è in gran parte lo stesso) dall'affermazione di un diritto nei confronti dell'attore», in modo che «questi senza l'accertamento giudiziale dell'esistenza del suo diritto o dell'inesistenza del diritto altrui non potrebbe eliminare quel danno consistente negli effetti pregiudizievoli della contestazione o affermazione del convenuto»[1].

La giurisprudenza ha poi chiarito, in tema di interesse ad agire con un'azione di mero accertamento, che non è necessaria l'attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva, anche non preesistente rispetto al processo, sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, non superabile se con l'intervento del giudice[2].

E invece esperibile un’azione di condanna quando la posizione giuridica è stata lesa e se ne chiede la reintegrazione o la riparazione.

Ne deriva, quanto meno secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, che se v’è stata lesione, non può, il linea teorica, esperirsi azione di mero accertamento, non essendo apprezzabile il relativo interesse ad agire,  a fortiori, se lesione non v’è stata non può proporsi azione di condanna. Osta il principio del necessario interesse all’azione. Se v’è stata lesione, infatti, il mero accertamento che il diritto è stato leso a prescindere dall’eliminazione o dal ristoro della lesione sarebbe un’inutile impegno della macchina giudiziaria.

E’ fin troppo ovvio che la condanna presupponga un’attività giudiziaria tesa all’accertamento dei presupposti e degli esatti termini del rapporto, ma essa, in ragione di quanto sopra chiarito, è strumentale alla condanna, non è conseguenza di un’autonoma azione di accertamento. Diverso, quando è in essere una semplice contestazione del rapporto, che non si  sia ancora affacciata alla soglia della lesività. Qui v’è solo necessità di chiarezza nella forma incontrovertibile del giudicato di accertamento, così che per il futuro il rapporto non possa più essere messo in dubbio[3]

Non v’è, tra l’altro, necessità di alcuna norma che preveda il previo ed esaustivo accertamento degli esatti termini del rapporto fra le posizioni giuridiche dei litiganti, non sussistendo, nell’ambito del diritto civile, autorità private alle quali solo è riservata la definizione del rapporto.

Volendo trasporre questi principi generali sul piano dei rapporti amministrativi, si dovrebbe concludere che, di accertamento mero possa, a rigore, parlarsi: a) nell’ambito della giurisdizione esclusiva, quando la posizione giuridica di diritto soggettivo è stata contestata attraverso atti o comportamenti; b) nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, quando la posizione giuridica di interesse legittimo sia stata contestata in via di fatto dalla PA,  ma non anche quando sia stata lesa attraverso l’emanazione di un atto amministrativo.

Mentre nel caso del diritto soggettivo l’atto amministrativo ha valenza paritetica, non è cioè espressione di autorità, ponendosi quale mera contestazione[4], nel caso dell’interesse legittimo esposto all’intermediazione del potere, l’atto amministrativo ha valenza lesiva e, se non rimosso, è idoneo a regolare il rapporto con carattere di definitività.

E’ su questo punto che si innestano i principali profili problematici, poiché molti, all’indomani del varo del codice del processo, dinanzi allo stralcio governativo dell’azione di accertamento ed avendo smarrito le coordinate della tutela assicurabile per mezzo della stessa, hanno in generale sovrapposto siffatto tema a quello dell’accertamento del rapporto da parte della giudice  (che è cosa diversa), esprimendo profonda delusione per gli esiti finali del processo di codificazione.

In realtà le cose non stanno proprio così. Ciò che la Commissione incaricata della redazione del codice aveva previsto non era un’azione di accertamento esperibile anche in presenza di atti lesivi, ma un’azione di accertamento mero basata sugli stessi presupposti che da tempo la giurisprudenza civile ed amministrativa aveva delineato, ossia un’azione in via generale esperibile a tutela delle posizioni giuridiche di diritto soggettivo nell’ambito della giurisdizione esclusiva, e di interesse legittimo nelle sole ipotesi in cui non venisse in rilievo un atto espresso autonomamente impugnabile[5].

 

 

4. In particolare, l’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di contestazioni

La bozza licenziata dalla Commissione prevedeva, senza distinguo tra la giurisdizione esclusiva e di legittimità, che “chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative”. Fra le disposizioni dedicate alle  sentenze di merito prevedeva poi il potere del giudice  di “dichiarare l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto giuridico”.

La previsione (che non ha mai visto la luce) è stata da subito salutata (ed ora rimpianta) come l’agognato ingresso di un’azione finalizzata all’accertamento del rapporto, a prescindere dal contenuto dell’atto amministrativo che autoritativamente lo ha definito. Si è cioè sostenuto che a mezzo della descritta azione, finalmente, il giudice amministrativo avrebbe potuto accertare se, nell’area degli interessi pretensivi e della connessa attività autorizzativa vincolata, il privato avesse o meno diritto al bene della vita.

A mio avviso il contenuto della norma non autorizzava siffatte conclusioni né avrebbe potuto farlo, poiché, a tacer d’altro, così intesa avrebbe determinato la definitiva trasformazione dell’interesse legittimo in diritto, con conseguente crisi del criterio costituzionale di riparto. Essa, piuttosto, riferiva l’accertamento unicamente a due condizioni assolute (esistenza o inesistenza) di un rapporto giuridico per il sol caso di contestazione, ossia di  comportamenti   non sfocianti in  atti autoritativi lesivi.

Si pensi, in primis, al caso della DIA contestata dal terzo per carenza di presupposti. Qui non essendovi un atto da impugnare, ma una concreta attività soggetta a controllo amministrativo, iniziata sulla base di autocertificazioni, alla quale l’amministrazione non si è formalmente opposta, il terzo può agire per far accertare l’inesistenza del rapporto giuridico, ipotizzato invece come esistente dal denunciante che ha intrapreso l’attività. Non è praticabile nè occorre tutela costitutiva.

La giurisprudenza, del resto, aveva già affermato la percorribilità dell’azione atipica di accertamento a tutela di interessi legittimi connessi alla DIA, evidenziando come, tra l’opzione  di costringere il terzo ad impugnare un atto che non c’è, e quella del silenzio-rifiuto teso ad obbligare l’amministrazione all’esercizio del controllo, si imponesse, quale terza via, l’esperibilità dell’azione di accertamento mero[6]

La norma proposta in senso al codice del processo dava, dunque, veste positiva a quanto la giurisprudenza aveva da poco affermato in ordine, tuttavia, ad una ben limitata area in cui il rapporto fra libertà ed autorità era ed è risolto dal legislatore dando sfogo immediato alla libertà “responsabile” (il denunciante dichiara e certifica di avere i requisiti previsti dalla legge) e conservando all’amministrazione il potere eventuale e successivo di inibizione per il caso di carenza di presupposti. L’attività del denunciante si esercita cioè in carenza ed a prescindere da un provvedimento espresso, ergo la contestazione può solo dirigersi direttamente al rapporto affermandone l’inesistenza o l’esistenza.

L’accertamento mero, in siffatti casi, è soluzione che rinviene nel sistema generale della piena tutela il suo fondamento, così come insegna la compiuta evoluzione registratasi in sede civile. Non averla espressamente prevista non significa averla esclusa, come del resto dimostra di ritenere la IV sez. del Consiglio di Stato nella recentissima ordinanza con la quale chiede alla Adunanza Plenaria, anche alla luce del codice del processo, di fornire preliminarmente una ricostruzione sostanziale della DIA (ora SCIA), e di chiarire se il rimedio giurisdizionale effettivo, comprenda anche la eventuale ammissibilità, in tale fattispecie, dell’ azione di accertamento da parte del terzo, e ancora, più in generale, se siffatta azione sia in via generale esperibile “dinanzi a fattispecie che modificano i confini tra pubblico e privato e che esigono, a fini di liberalizzazione e semplificazione, un intervento solo eventuale e successivo dell’amministrazione pubblica nel rapporto tra autorità e libertà”[7]

 

5. L’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di silenzio assenso

La questione appare un pò più complessa  per l’area del silenzio assenso. Qui l’inerzia è ex lege equiparata, dal punto di vista effettuale, ad un tacito atto di assenso, talchè la giurisprudenza ha sempre considerato quest’ultimo quale manifestazione provvedimentale tacita suscettibile di gravame, analogamente al provvedimento espresso.

Non si delineano in questa fattispecie vuoti di tutela poiché il terzo ha a disposizione un potente strumento di tutela costitutiva e maglie di legittimazione ben più larghe rispetto all’attore nell’azione di accertamento mero in sede civile.

Il problema è piuttosto di coerenza delle forme rispetto alla sostanza della valutazione giudiziale, atteso che il giudice, formalmente investito del giudizio di impugnazione, verifica, al fine di vagliare l’ammissibilità dell’impugnazione, se sussistono tutti i presupposti di legge perché possa dirsi formato il tacito accoglimento, in sostanza ricostruendo ed accertando i termini del rapporto. La sentenza costitutiva finale ha così un innegabile contenuto di accertamento, analogo a quello che avrebbe avuto se il giudizio fosse stato introdotto in forza di un’azione di accertamento: se il giudice annulla, egli non fa altro che accertare e dichiarare che il rapporto giuridico non esiste, se non annulla, accerta che il rapporto invece esiste.

La tutela demolitoria appare in particolare anomala quando il terzo deduce non già vizi propri dell’atto tacito (sul presupposto implicito della sua esistenza) ma la sussistenza dei presupposti per il venir in essere dello stesso. In questo caso è infatti evidente che il giudice, come accennato, debba solo accertare quale sia  l’esatta  risposta da dare ad un semplice interrogativo (l’atto c’è o non c’è?) in guisa da somministrare una tutela meramente dichiarativa, risultando  invero abbastanza singolare che egli debba anche  annullare un atto che non è mai venuto in essere.

 

 

6. L’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto in caso di provvedimento lesivo

Le cose non stanno invece così quando, fuori dai casi di DIA e silenzio assenso, un provvedimento amministrativo lesivo sia stato effettivamente emesso dall’amministrazione. L’atto definisce espressamente il rapporto decidendo con carattere di stabilità se l’interesse al bene della vita  cui aspira il privato possa essere  o meno accordato, così cagionando una lesione alla quale potrà porsi riparo solo attraverso la tutela costitutiva di annullamento o quella risarcitoria.

Una tutela di mero accertamento, in questi casi, non sarebbe sorretta da un sufficiente ed apprezzabile interesse poiché il suo contenuto non eliminerebbe dal mondo giuridico l’atto di regolazione della fattispecie, autoritativamente posto in essere dall’amministrazione, che continuerebbe ad essere lesivo; a meno di sostenere che lo stesso sia disapplicabile dal Giudice amministrativo così come previsto per i diritti soggettivi, inaugurando quella osmosi totale da diritti ed interessi cui sopra si accennava, tale da metterebbe in crisi l’attuale criterio di riparto tra le giurisdizioni.

E’ pur vero che in questo caso può discutersi se il giudice possa o meno conoscere del rapporto o, in altri termini, se possa vagliare la fondatezza della pretesa al bene della vita in vista della totale conformazione dell’attività amministrativa successiva, ma questa è questione che attiene non all’azione di accertamento, ma ai poteri del giudice  che decide sull’azione di annullamento, a loro volta  correlati al pieno accesso del giudice al fatto nella sua interezza.

Non si pone cioè un problema di mero accertamento in senso proprio, ma di contenuto di accertamento di una sentenza costitutiva o di condanna[8].

Intendo cioè dire che, se si vuole, come tutti vogliono, disciplinare il potere/dovere del giudice di accertare la fondatezza della pretesa, ossia di stabilire non semplicemente se l’amministrazione ha sbagliato ma se il privato ha ragione nella “sostanza”, non si deve agire forgiando nuove ed inesplorate azioni, ma occorre piuttosto costruire l’azione di annullamento, l’unica esperibile (in relazione ai principi generali come sopra ricostruiti) in modo che il giudice possa, non solo annullare l’atto, ma rapportare la pretesa al bene della vita al quadro normativo, indi accertare se quel bene della vita sia o meno ottenibile.

Occorre cioè una norma generale  che, senza trasformare il potere in obbligo e gli interessi legittimi in diritti soggettivi, imponga per il caso di interessi pretensivi (perché è lì che il problema si pone) che l’amministrazione, nel rigettare l’istanza del privato, ed ancor prima, nel formulare il preavviso di diniego, debba valutare ed esternare tutte le ragioni che ostano all’accoglimento, nessuna esclusa.

Sarebbe sufficiente questo ed il correlativo ed esplicito obbligo del giudice di non assorbire i motivi di ricorso (quest’ultimo probabilmente già ricavabile dall’attuale impianto normativo), per avere pieno accesso al rapporto ed accertarne la corretta dinamica, talchè quando tutti e proprio tutti i motivi per negare il bene della vita appaiono infondati, l’annullamento di atti vincolati non possa che avere un oggettivo contenuto di accertamento: ciò che non si può negare non può che essere accordato.

Così procedendo il giudice conoscerà del rapporto non perché la legge gli assegna determinati poteri ma perché il rapporto nella sua interezza è dinanzi ai suoi occhi.

Ed allora davvero cessa ogni ostacolo dogmatico frapponibile all’azione di adempimento: una volta accertata la spettanza del bene del vita, il giudizio d’ottemperanza non avrebbe più alcuna valenza cognitiva e potrebbe tranquillamente trasformarsi in giudizio di esecuzione avente ad oggetto l’obbligo di adempiere, se del caso esperibile unitamente all’azione di annullamento.

In conclusione non è necessaria né la trasformazione del rapporto amministrativo in un rapporto contrattuale, né la previsione dell’azione generale di accertamento e adempimento per garantire quella tutela piena ed effettiva presupposta dall’art.24 della Costituzione e promessa ed assicurata dall’art. 2 del codice del processo amministrativo.

Per garantire l’accertamento del rapporto e l’adempimento  dell’amministrazione sarebbe sufficiente una minuta norma sostanziale che si limitasse ad affermare: “l’amministrazione, in sede di preavviso di rigetto e di definitivo rigetto dell’istanza deve espressamente indicare tutti i motivi che ostano all’accoglimento, non escludendone alcuno[9]. Nient’altro.

 

7.  Azione di adempimento in materia di “silenzio

Considerato, dunque, de iure condito, che un’azione di mero accertamento è in via tendenziale possibile solo  nelle aree in cui il rapporto tra cittadino ed amministrazione è regolato da fattispecie che non contemplino la previa emanazione di un atto autorizzativo espresso, è pur vero che una norma generale che consente, rectius, impone al giudice di conoscere del rapporto e della fondatezza dell’istanza esiste già per l’ipotesi del silenzio rifiuto.

La dottrina ha attribuito significatività e rilevanza di sistema alla norma, ricavandone il fondamento del potere generale del giudice di scrutare sino in fondo il rapporto. A mio avviso, invece, essa, sebbene costituisca un rimarchevole indice di evoluzione dell’ordinamento, non è ancora sufficiente a sorreggere le conclusioni predette.

Il comma 3 dell’art. 31 prevede che, in caso di inerzia della PA, il giudice oltre ad accertare e dichiarare il generico obbligo di provvedere “può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari  adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.

La formulazione, nel richiamare il disposto della norma sostanziale di cui all’art. 2 della legge 241/90, lo arricchisce di contenuti in ordine ai limiti del potere del giudice, recependo l’orientamento prevalente della giurisprudenza che su tale prudente posizione si era attestata.

Il dibattito, in particolare, in assenza di indicazioni normative chiare, aveva visto prevalere una posizione che ammetteva la pronuncia del giudice sulla fondatezza dell’istanza (sulla quale l’amministrazione aveva omesso di provvedere)  solo in ipotesi di attività vincolata e comunque quando non fossero necessari accertamenti istruttori, incompatibili con la celerità del rito. Inoltre, sul piano della doverosità della pronuncia rispetto alla domanda, l’esegesi ante codice affidava a quel “può” (riferito alla pronuncia sulla fondatezza) il ruolo di lasciare al giudice la decisione di addentrarsi o meno nei meandri  della pretesa sostanziale a seconda delle valutazioni, al medesimo riservate, in relazione al caso concreto (non specificando, l’art. 2 della legge 241/90, alcunché in ordine alle caratteristiche dell’attività amministrativa omessa o rifiutata).

Il citato approccio ermeneutico non ha più adesso il necessario sostegno normativo, essendo individuati tutti i presupposti perché possa essere accolta l’azione di adempimento (di questo trattasi) tesa all’ottenimento dell’atto favorevole. Se essi ricorrono il giudice deve, ovviamente nei limiti del potere dispositivo della parte, ordinare all’amministrazione di dare soddisfazione alla pretesa sostanziale del ricorrente.

E’ vero, residua quel “può” che nessuno si è sentito di togliere dalla formulazione normativa, ma ad esso deve darsi l’unica valenza in grado di dare ragionevolezza alla norma, ossia:  nel caso di inerzia protratta della PA, il giudice, a differenza dei  casi in cui un provvedimento anche illegittimo è stato emesso, ha anche il potere di scrutinare la fondatezza della pretesa affidata (vanamente) alla decisione della PA ed ovviamente deve esercitarlo nel caso in cui si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari  adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.

Dunque, traslando l’esame sul piano delle azioni può concludersi che, sicuramente in tutti i casi in  cui l’amministrazione  ometta di esercitare attività amministrativa di carattere vincolato la tutela è particolarmente forte e penetrante potendosi esperire, in deroga ai consueti principi, un’azione di adempimento avente ad oggetto, oltre che l’obbligo di provvedere espressamente anche (a questo punto) l’obbligo di provvedere favorevolmente al ricorrente (ovviamente qualora il giudice, richiestone, dovesse, in sede di valutazione ravvisare l’infondatezza dell’istanza, non vi sarebbe luogo per nessun ordine, neppure generico, all’amministrazione).

E’ evidente che il potere dispositivo del ricorrente possa plasmare l’azione  in modo da confinarla al solo adempimento dell’obbligo generale e primario di provvedere così escludendo il potere del giudice di spingersi sino all’accertamento della fondatezza dell’istanza, la cui valutazione finale resterà così all’amministrazione. Tuttavia, persino in questo caso lo scrutinio dell’ (in)fondatezza dell’istanza potrebbe trovare spazio nell’alveo del sindacato giudiziario per il tramite dell’eccezione delle parti resistenti, tesa a stigmatizzare la mancanza di interesse  del ricorrente ad ottenere un provvedimento di sicuro rigetto. 

In passato, infatti, il giudice amministrativo ha mostrato di condividere siffatta opzione processuale addivenendo a pronunce di inammissibilità dell’azione.

La strada oggi, però, non sembra più percorribile, non solo perché, in astratto, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici impone all’amministrazione di provvedere anche se negativamente (e specularmente il giudice di condannare la medesima a farlo) ma soprattutto perché, l’obbligo di provvedere e l’inesattezza dal punto di vista temporale del relativo adempimento è fonte di responsabilità della PA a prescindere dalla spettanza del bene della vita, sicchè ben potrebbe - il ricorrente – avere interesse al mero accertamento dell’obbligo di provvedere ai fini della successiva azione risarcitoria, interesse di per sé sufficiente a sorreggere processualmente il ricorso.  Si versa, a ben vedere, in una situazione molto simile a quella descritta e disciplinata dall’art. 34 comma 3 a proposito della (diversa) fattispecie avente ad oggetto il sopravvenuto difetto di interesse all’annullamento dell’atto impugnato: “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.

La norma, ricorrendo identità di ratio, meriterebbe di essere estesa anche al caso del silenzio, essendo ragionevole prevedere che “quando nel corso del giudizio finalizzato all’adempimento dell’obbligo di provvedere emerga l’infondatezza dell’istanza, il giudice accerta comunque l’obbligo di provvedere se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.

 

8. L’azione di adempimento in relazione al silenzio è estensibile anche all’attività provvedimentale o, più in generale c’è una via interpretativa all’azione di adempimento?

La domanda sorge spontanea: ma perché se c’è inerzia, l’azione di adempimento in ordine alla pretesa sostanziale è esperibile, per giunta sfruttando la snellezza del rito camerale, e se invece v’è stato un illegittimo diniego, no?

Questa domanda ha suscitato l’attenzione di tutti gli studiosi, ma una valida risposta non è stata ancora trovata.

I sostenitori dell’ingresso dell’azione di adempimento nell’ordinamento amministrativo hanno sostenuto che la norma è ricognitiva dei poteri del giudice per il  caso di attività vincolata, evidenziando, sul piano logico ancor prima che giuridico, che se tale potere è esercitabile nel caso di terreno “vergine” non ancora interessato dalla valutazione di competenza dell’amministrazione, a fortiori dovrebbe esserlo nell’ipotesi in cui l’amministrazione abbia inteso illegittimamente provvedere.

La tesi ha il pregio della ragionevolezza ma non della coerenza sistematica.

Non deve infatti trascurarsi che l’azione di adempimento è stata disciplinata dal legislatore nell’ambito del cd silenzio rifiuto, comportamento profondamente ingiusto e lesivo attraverso il  quale l’amministrazione di fatto nega all’istante l’utilità pretesa, senza nulla affermare in ordine alla sua spettanza, ed in assenza di qualsivoglia norma che equipari quell’inerzia ad un provvedimento di assenso.

L’amministrazione così viene meno al suo dovere primario che è quello di provvedere. Tutti i precetti sono violati, quello di legalità, quello di buona fede, quello di buona amministrazione ed efficienza dell’azione amministrativa, e ciò, spesso, senza fornire giustificazione alcuna dei motivi per i quali le legittime aspettative degli istanti sono condannate al limbo.

Il fenomeno è odioso  a tal punto che il legislatore lo ha aggredito da più parti, prevedendo termini suppletivi di definizione del procedimento amministrativo, introducendo nell’ordinamento una responsabilità per il danno da violazione colposa o dolosa del termine procedimentale, prevedendo la responsabilità dei dirigenti che quei termini non fanno rispettare, istituendo meccanismi che equiparano il silenzio ad un provvedimento di accoglimento, introducendo un’azione collettiva per l’efficienza della PA (cd class action) e, aggiungerei …. prevedendo il potere del giudice di ordinare, quando l’attività non necessiti di valutazioni discrezionali e risulti accertata la spettanza, l’emanazione dell’atto favorevole.

E’ questa un’ottica molto simile a quella del silenzio assenso. In quel caso è lo stesso ordinamento che, per l’ipotesi di inerzia della PA, considera validamente formato un tacito titolo di assenso sulla richiesta avanzata dal cittadino, collegando l’effetto a due presupposti: a) l’esistenza di un procedimento ad istanza di parte (con dell’eccezioni per materia) e, 2) il mero decorso del termine massimo.

L’azione di adempimento per l’ipotesi di silenzio ha la medesima logica giustificatrice  della tipizzazione legislativa del silenzio, con la differenza che, in quest’ultimo caso la tutela del cittadino è garantita dal semplice decorso del termine massimo, mentre nel primo la tutela passa attraverso il  conferimento al giudice del potere di vagliare il fondamento della pretesa sostanziale e, se del caso, di ordinare l’emanazione dell’atto favorevole.

Il giudice, in sostanza, non fa altro che attivare un ulteriore meccanismo di contrasto dell’inerzia predisposto dall’ordinamento, imponendo l’adozione dell’atto.

La logica è quindi, secondo la tesi qui sostenuta, affatto peculiare poichè strettamente legata al silenzio. Come tale non è de plano esportabile nel campo dei provvedimenti vincolati illegittimi.

Le possibilità esegetiche ad effetto “creativo”, del resto, appaiono drasticamente ridotte dalla codificazione. Mentre prima del codice, la costruzione delle azioni e dei poteri del giudice era opera della giurisprudenza, in presenza di una trama normativa scarna ed essenziale, ora vige un testo completo ed articolato che, recependo la giurisprudenza, ha enucleato e disciplinato le singole azioni ammissibili.

Rimane - è vero - la clausola generale di cui all’art. 2 in ordine alla pienezza e l’effettività della tutela, ma non v’è dubbio che l’approccio all’effettività debba essere sistematico e che la stessa sia parimenti assicurata dall’azione di annullamento e dagli effetti conformativi del giudicato, visti alla luce dell’azione ottemperanza.

L’azione generale di adempimento è frutto di una scelta di fondo che tocca il modo di concepire l’amministrazione ed il suo rapporto con gli amministrati, da un lato, e con la giurisdizione dall’altro, involgendo problemi di consistenza e qualificazione delle posizioni giuridiche con conseguenti ripercussioni sulla tenuta del sistema alla luce dei criteri costituzionali di riparto, secondo la ricostruzione fornita dalla Corte Costituzionale nel 2004. Come tale, necessita la ponderazione e l’intermediazione del legislatore.

E’ infatti evidente che l’azione di adempimento, i cui effetti possono comunque tranquillamente e gradualmente ottenersi attraverso la semplice formulazione normativa sopra suggerita (onere dell’amministrazione di esaminare tutti i motivi che ostano all’accoglimento, nessuno escluso), avrebbe effetti rilevantissimi soprattutto sui rapporti tra giurisdizione ed amministrazione.

L’amministrazione non è uno dei tanti soggetti dell’ordinamento dotati di capacità giuridica, ma è il soggetto che presiede istituzionalmente alla cura in via amministrativa degli interessi pubblici affidatigli dal legislatore, e ciò fà avvalendosi non (solo) di comuni manifestazioni negoziali, ma utilizzando poteri idonei a modificare unilateralmente le posizioni giuridiche degli amministrati. La basilare e banale constatazione giova a far luce sulla circostanza, rilevante dal punto di vista generale, che essendo unico il soggetto, estremamente vasto il suo campo d’azione e unilaterale la relativa capacità di incisione, è verosimile, in un ottica di sistema, che il giudice della legittimità finisca per diventare giudice del riesame dell’istanza, ossia autorità che provvede alla nuova valutazione dell’istanza, nel contraddittorio fra le parti valorizzato ed arricchito dal patrocinio legale. Ovviamente è scelta del tutto plausibile, suscettibile, certo, di alimentare il già vivace dibattito sul ruolo del giudice e sulle diverse filosofie che stanno a base della giurisdizione amministrativa così come quello sulla sufficienza delle risorse umane ed economiche per far fronte al carico della descritta prospettiva di riesame, ma senz’altro praticabile senza catastrofiche tensioni per l’ordinamento.

Ciò che in questa sede  si vuol rimarcare è semplicemente che non può esservi una via meramente interpretativa all’azione di adempimento. Occorre un nuovo intervento del legislatore e lo strumento tecnico potrebbe essere quello in questo sede suggerito.

 

 

9. Pregiudizialità sostanziale dell’azione di adempimento rispetto a quelli condanna al danno di ritardo: sussiste?

L’unica azione di adempimento prevista e disciplinata dal codice del processo è quella in materia di silenzio. È interessante l’analisi dei suoi rapporti con l’azione di condanna

Com’è noto, il legislatore, sul diverso versante dei rapporti tra azione di annullamento e condanna,  sgombrato il campo dalla pregiudizialità formale, ha fissato fra le stesse un rapporto da molti definito di pregiudizialità sostanziale.

In sostanza ha optato per l’autonoma proponibilità dell’azione risarcitoria, ma lo ha fatto in un contesto chiaramente ispirato ad una logica di compromesso, abbracciando un’opzione ermeneutica già proposta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, tesa valorizzare ai fini del merito (e non dell’ammissibilità) la mancata impugnazione del provvedimento.

Secondo l’art. 30 del cpa il giudice “comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela”.

La formulazione normativa contiene una implicita equiparazione dell’impugnazione ad un comportamento dovuto, secondo l’ordinaria diligenza, per evitare i danni. Anche se non esplicitato, il riferimento è da intendersi al n.2 e non al n. 1 dell’art. 1227 cc. anche se l’assunto, ossia l’equiparazione dell’impugnazione ad un comportamento dovuto, non costituisce  recepimento di principi giurisprudenziali[10].

Il descritto schema dei rapporti tra azione di annullamento ed azione di condanna induce a compiere qualche riflessione sull’ulteriore versante dei rapporti tra azione di adempimento ed azione di condanna, anche al fine di comprendere se quest’ultima sia in qualche modo concepita come sussidiaria nel quadro generale delle tutele.

In particolare la norma sulla valutazione del comportamento colposo del ricorrente sembrerebbe di carattere generale e dunque applicabile anche al caso di danno da ritardo. Si potrebbe cioè sostenere, e qualcuno lo ha già fatto, che avendo il codice previsto uno strumento agile e veloce per stigmatizzare il silenzio della PA e costringerla a provvedere, il mancato esperimento dell’azione di adempimento possa essere valutato come comportamento colposo assorbente, deponendo per una sorta di tolleranza del ritardo.

A mio avviso, per le ragioni alle quali accennavo in relazione all’intollerabilità del silenzio e per altre ragioni di carattere testuale, siffatta tesi non può sostenersi.

Innanzitutto perché il provvedere costituisce obbligazione primaria svincolata dall’interesse al bene della vita di cui è portatore il singolo, indissolubilmente collegata all’interesse pubblico allo stesso funzionamento dell’istituzione, come tale insuscettibile di creare (salvi i casi di silenzio significativo) situazioni potenzialmente consolidabili in mancanza di tempestiva impugnazione. Non v’è, cioè, una presunzione di legittimità che possa in qualche modo giustificare l’onere di tempestiva contestazione in capo al privato leso dal ritardo. Il ritardo rimane, anche in assenza di contestazioni,  un illecito permanente.

Inoltre, il termine per esperire l’azione di adempimento è di un anno dalla scadenza del termine procedimentale, e ciò a fronte di un  termine per l’azione di condanna per il  danno da ritardo di poco più lungo (un anno + 120 gg.)

Ora, se l’azione di adempimento è proponibile entro un anno ciò significa che, nell’arco temporale appena indicato, è rimesso alla libera valutazione del ricorrente quando effettivamente proporla, e di certo, non potrebbe dirsi che egli è in colpa per non averla proposta immediatamente. In ogni caso non potrebbe allo stesso negarsi il danno subito entro l’anno.

Tutte considerazioni che depongono per un’assenza di pregiudizialità, finanche nelle larvate  forme “sostanziali” previste dall’art. 30 del codice per l’azione risarcitoria da lesione di interessi legittimi in relazione all’impugnazione dell’atto lesivo. 

 

 

10. L’art 34 comma 1 lett. c) contempla un’azione di condanna atipica così ampia da ricomprendere anche la condanna all’emanazione di un atto amministrativo?

Alcuni autori ritengono che si possano rinvenire indizi per la sopravvivenza di un’azione atipica di adempimento[11] nel disposto dell’ art, 34  co. 1, lett. c), secondo il quale, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice, nei limiti della domanda, può condannare l’amministrazione “all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.

Per gli autori citati, in forza di questa norma il ricorrente potrebbe spingersi sino a chiedere la condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto e denegato

In altri termini, l’ampia formula utilizzata dal legislatore nonché il contesto sistematico in cui essa è inserita, volto a garantire l’effettività della tutela giudiziaria, dovrebbe consentire al giudice di disporre, su domanda di parte veicolata a mezzo di un’azione di condanna proposta contestualmente all’azione di annullamento, ogni misura idonea a garantire il concreto soddisfacimento della posizione giuridica ivi compreso la condanna ad una facere pubblicistico specifico.

Secondo questa tesi non opererebbe la preclusione di cui all’art. 34, co. 2 in ordine ai poteri amministrativi non ancora esercitati, poiché essa, in quanto finalizzata ad evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa pro futuro, sarebbe da ritenere attinente alle sole ipotesi in cui l’amministrazione non abbia ancora provveduto e sia ancora in corso il termine per provvedere. Nel caso di specie l’azione dovrebbe invece essere proposta unitamente a quella di annullamento del provvedimento illegittimo.

A parte ogni considerazione sulla consapevolezza del legislatore in ordine alla sopravvivenza ed alla portata della norma a seguito dell’operazione di profonda revisione del libro primo del codice, da ultimo operata in sede governativa (essa era coerente con l’impianto progettuale originario del codice che specularmente prevedeva e disciplinava l’azione di adempimento), ciò che suscita perplessità è che in un impianto dichiaratamente ispirato (non so quanto opportunamente) alla previa enucleazione e disciplina delle azioni ed al principio dispositivo,  si giunga  a ricavare l’ammissibilità dell’azione da una norma che riguarda il contenuto della sentenza: se l’azione non è disciplinata, se lo spessore della posizione giuridica tutelata non è altrove sufficientemente delineato, e se il giudice non può attribuire ciò che ad egli non può essere chiesto, ritenere che l’azione di adempimento che da anni interessa ed infuoca il dibattito dottrinale possa trovare ingresso attraverso un così sibillino varco appare invero una forzatura.

La norma dispone che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda….condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile

Innanzitutto, in generale può rilevarsi come essa sia inserita in un contesto specifico che ha riguardo a misure non reintegrative ma risarcitorie (pagamento di somme, risarcimento per equivalente o in forma specifica…) e - come è stato ampiamente e brillantemente spiegato[12] - mentre le misure risarcitorie concernono prestazioni diverse e succedanee rispetto a quello oggetto dell’originaria obbligazione, l’adempimento si caratterizza e distingue proprio perché riguarda solo ed esclusivamente l’esecuzione della prestazione (in questo caso pubblica) dovuta.

In particolare, nel testo della disposizione, la previsione dell’adozione di “misure idonee” è calata tra la misura risarcitoria per equivalente e quelle risarcitoria specifica,  come a rappresentare una possibile tappa intermedia nel percorso della tutela risarcitoria che trova la sua possibilità “estrema”, appunto, nel risarcimento in forma specifica.  

Il riferimento a quest’ultimo strumento di tutela porta alla mente il dibattito accesosi all’indomani della legge 205/200.  Pur in quadro giurisprudenziale molto incerto, il Consiglio di Stato[13] e la dottrina maggioritaria[14] hanno concordemente ritenuto che il risarcimento in forma specifica non vada confuso con l’adempimento dell’obbligo di provvedere derivante dall’effetto conformativo della sentenza, poiché, quest’ultimo costituisce conseguenza del dovere originario di provvedere, illegittimamente e vanamente esercitato, mentre, il risarcimento in forma specifica costituisce obbligazione scaturente dall’illecito ex art. 2043 Cc e strumentale alla  riparazione del danno non altrimenti eliso dall’adempimento dell’obbligo di provvedere. Trattasi, in sintesi, di tecnica risarcitoria che trova tipicamente applicazione per il caso di interessi oppositivi, in relazione ad un  danno con il carattere della "concretezza" o della "realtà", e cioè che comporti una lesione materiale all'integrità di una cosa determinata o di una persona fisica[15].

Se tanto è predicabile per il risarcimento in forma specifica, ossia per una prestazione materiale succedanea rispetto a quella violata dalla quale è scaturito il danno da riparare,  a fortiori deve esserlo per le “misure idonee”  che appaiano strumentali o comunque utili a garantire proprio il risarcimento in forma specifica o, in ogni caso, a tutelare la posizione giuridica dedotta in giudizio attraverso modalità atipiche non coincidenti con il mero pagamento di somme.

Si può pensare, ad es., all’ordine di pubblicare l’estratto della sentenza sulla stampa, o ancora, alla fissazione giudiziale di termini[16], ossia, a obbligazioni atipiche di facere non provvedimentale strettamente connesse all’illecito, ma non, giusto quanto sopra osservato, al dovere di dare una corretta regolazione alla fattispecie amministrativa.

 

11. L’azione di nullità: profili problematici

Il codice ha anche disciplinato l’azione di nullità. Essa è una peculiare azione di accertamento avente ad oggetto immediato la patologia strutturale o comunque grave di un atto amministrativo e, sullo sfondo, la sussistenza di un rapporto giuridico contestato dall’amministrazione a mezzo di un provvedimento che, in quanto nullo, dovrebbe essere privo di effetti.

La posizione giuridica sostanziale è definita dalla norma di cui al 21 septies della legge 241/90.

La disciplina dell’azione è invece dettata dal codice del processo, in modo, in verità molto scarno. Sono, in particolare, previste due cose tra l’altro in apparente contrasto tra loro: il termine di decadenza e la possibilità di rilievo d’ufficio del giudice.

Qui il rilievo del giudice attiene alla nullità sostanziale. Il giudice può cioè rilevare che un atto amministrativo del quale si discute in giudizio è affetto da una patologia così profonda da non poter sortire alcun effetto.

Il termine di decadenza impone invece di impugnare l’atto entro il termine di 180 giorni, trascorso il quale l’atto si consolida divenendo inoppugnabile.

A prescindere dall’opportunità della scelta legislativa, invero serratamente criticata dalla dottrina, circa la possibile definitiva e stabile efficacia ad un atto che appaia gravemente in contrasto con il paradigma normativo, l’interrogativo che istintivamente l’operatore è indotto a porsi è se, in un giudizio di annullamento tardivamente instaurato, la questione di nullità possa porsi d’ufficio.

La norma in particolare consente che la nullità dell’atto “può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Nulla quaestio dal punto di vista ermeneutico per il caso dell’eccezione della parte resistente, anche perché essa, provenendo dalla parte che ha interesse al rigetto della domanda, non pone problemi di coordinamento con i termini di impugnazione. Qualche dubbio si profila invece per il rilievo d’ufficio.

Occorre qui tenere separato il piano sostanziale da quello processuale. Com’anzi detto, la nullità sostanziale dell’atto è questione valutativa di merito mentre la decadenza dall’azione per decorso del termine è questione processuale, sub specie di ammissibilità della domanda.

Dovendosi coordinarsi il rilievo d’ufficio “sostanziale” con quello d’ufficio “processuale”  relativo al termine di decadenza (come noto le questioni di ammissibilità sono conosciute d’ufficio dal giudice amministrativo), ne deriva come  conseguenza che la norma sui poteri ufficiosi non potrà “salvare” le azioni intempestive. Infatti il giudice che rilevasse d’ufficio la tardività dell’azione di annullamento dovrebbe emettere pronuncia in rito, senza poter arrivare al rilievo della nullità sostanziale che è comunque questione attinente al merito.

Il rilievo d’ufficio del giudice non pare neanche possibile nell’ipotesi in cui siano contestati atti o comportamenti posti in essere sulla base di un atto nullo. Il giudice non potrebbe, cioè, nell’ambito di un giudizio di annullamento di atti esecutivi, rilevare d’ufficio, in favore del ricorrente, la nullità dell’atto presupposto, poiché finirebbe per rimetterlo in termini rispetto all’azione di nullità.

In conclusione, il rilievo d’ufficio parrebbe esercitabile solo in favore dell’amministrazione nel caso in cui la declaratoria di nullità dell’atto presupposto conduca al rigetto dell’azione intentata dal ricorrente.  Ciò, evidentemente, non può che aprire il dibattito sui profili di ragionevolezza della scelta – dibattito – i cui termini non è possibile in questa sede approfondire.

Ulteriore profilo problematico sembrerebbe quello relativo alla divaricazione della scelta del legislatore in ordine al regime della nullità per violazione o elusione del giudicato.

La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La norma prevede che “le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.

Le disposizioni del Titolo I del libro IV tuttavia non contengono alcun riferimento all’azione di nullità ma si limitano a disciplinare l’ottemperanza. Indi, dovrebbe derivarne che il termine di decadenza vige solo per le nullità strutturali e per il difetto assoluto di attribuzione, essendo invece esperibile, per il caso di elusione o violazione del giudicato, l’azione di esecuzione nel termine di prescrizione ordinaria.

 

12. Azione di annullamento e vizio di incompetenza

Qualche riflessione merita, infine, la circostanza che le nuove norme non facciano più riferimento, per il caso in cui il ricorso è accolto per motivi di incompetenza, alla necessaria rimessione dell’affare all’Autorità competente.

Secondo alcuni ciò è sintomatico di come il giudice adesso ben possa scrutinare le censure sostanziali senza arrestarsi alla competenza. Nell’ottica sostanzialistica cui il codice è ispirato al fine di assicurare l’effettività della tutela, dovrebbe cioè ritenersi che la fondatezza della censura di incompetenza non esima il giudice dal vagliare le eventuali ulteriori censure dedotte, afferenti al contenuto dell’attività amministrativa posta in essere dall’organo o dall’Autorità incompetente, così da conformare il successivo esercizio del potere da parte dell’organo o dell’Autorità competente.

Di contro – altri, valorizzando il tenore dell’art. 34, co. 2, ove è precisato che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” assumono che, nel caso di vizio di incompetenza, non essendo stato il potere amministrativo esercitato dall’Autorità o dall’organo che ex lege avrebbe dovuto esercitarlo, si rientri nella citata preclusione.

Probabilmente l’analisi dev’essere differenziata a seconda della natura dell’attività amministrativa posta in essere dall’organo  incompetente.

E’ infatti dubbio che la fondatezza del solo vizio di incompetenza possa essere sufficiente a determinare l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’atto, ove, nel caso di attività vincolata, emerga dall’esame del rapporto controverso che l’amministrazione o l’organo competente al riesercizio del potere non possano che emettere un provvedimento con lo stesso contenuto del provvedimento viziato da incompetenza. D’altra parte, già a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 21 octies l. 241/1990, aggiunto dall’art. 14 l. 15/2005, parte della giurisprudenza ha ritenuto che il provvedimento viziato da incompetenza non è annullabile qualora, per la natura vincolata dell’atto, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

L’eliminazione dell’espresso obbligo di rimettere l’affare all’autorità competente potrebbe allora significare che il legislatore ha fatto proprio il cennato orientamento giurisprudenziale, lasciano al giudice del caso concreto la valutazione dell’incidenza del vizio di incompetenza e delle sue conseguenze in relazione al grado di discrezionalità che l’attività implica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Così Proto Pisani, La tutela di mero accertamento, in Id., Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 73 ss., spec. 76 e 100;

[2] Da ultimo cfr. Cassazione civile , sez. lav., 21 febbraio 2008, n. 4496;  Cassazione civile, sez. lav., 04 luglio 2008, n. 18501

[3] La fattispecie è definita quale “lite da pretesa contestata”  da F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, 151

[4] Il Consiglio di Stato ha infatti nell’affermare  che «nel processo amministrativo le azioni di mero accertamento non sono in via generale consentite in materia di tutela di interessi legittimi», ha però chiarito  che «allorché si chieda la tutela di diritti soggettivi, anche non patrimoniali, l'azione di mero accertamento è ammessa nel processo amministrativo negli stessi limiti in cui essa sarebbe ammissibile in un processo civile, avente ad oggetto situazioni soggettive similari, e cioè quando sussista un interesse ad eliminare una situazione di incertezza». Ad. Plen. n. 25 del 1979.  Già in precedenza, Cons. St., sez. IV, 26 settembre 1980, n. 952.

 

[5] Già il disegno di legge delega n. 788, approvato alla Camera il 12 ottobre del 1989, prevedeva che, al fine di realizzare «l'attuazione integrale, coordinata e coerente, dei principi costituzionali in ordine alla tutela del cittadino, singolo o associato, nei confronti della pubblica amministrazione», fosse «assicurato un completo sistema di strumenti idonei a consentire l'effettiva tutela degli interessi legittimi e, nelle materie di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi», regolando «organicamente il sistema delle pronunce sul ricorso in relazione al loro contenuto, rispettivamente, di accertamento, costitutivo e di condanna».In questo quadro, si prevedeva di «disciplinare autonomamente il processo di accertamento prescrivendo: 1) che la declaratoria relativa fosse idonea a soddisfare l'interesse fatto valere dal ricorrente; 2) che la pronuncia del giudice contenesse, ove occorra, l'affermazione degli obblighi della pubblica amministrazione» (art. 1, comma 3, lett. e). Fu sottolineato, dal Consiglio di Stato in sede di parere, che la disposizione avrebbe consentito l'introduzione nel processo amministrativo di legittimità di un'azione di mero accertamento in senso proprio.

Nel parere sul disegno di legge, Cons. St., Ad. gen., 8 febbraio 1990, n. 16, in Foro amm., 1990, 270 ss., spec. 298, aveva affermato che la «introduzione di un'azione di accertamento in materia appare diretta a consentire ai privati di agire in giudizio per la declaratoria della sussistenza e consistenza dei propri interessi legittimi in via preventiva e, cioè a dire, prima che sia possibile farlo per il tramite dell'impugnazione del provvedimento che abbia loro cagionato concreta lesione». In proposito B. Tonoletti, op. cit.

[6] Consiglio Stato, sez. VI, 09 febbraio 2009, n. 717 “Il terzo controinteressato rispetto all'attività edilizia iniziata sulla base di una denuncia di inizio di attività ha la possibilità di chiedere al giudice amministrativo l'accertamento dell'inesistenza dei presupposti per intraprendere l'attività in base alla d.i.a. medesima”

[7] Consiglio di Stato, Sez. IV - ordinanza 5 gennaio 2011 n. 14, in Lexitalia.it, n. 1/2011.

[8] Si veda E. Ferrari, Decisione giurisdizionale amministrativa, in Dig. disc. pubbl., IV, Torino, 1989, 533 ss., rispettivamente 542 ss. e 539 ss.

 

[9] L. Torchia, Le nuove pronunce nel codice del processo, in Giornale Dir. Amm., 2010, 12, 1319, sottolinea come  sempre più la giurisprudenza si va orientando ad affermare che il preavviso di rigetto comporta, per l'amministrazione, l'obbligo di dichiarare tutti i motivi ostativi alla soddisfazione della istanza del privato, in modo che, per un verso, il privato sia messo in condizione di controdedurre compiutamente e, per altro verso, l'amministrazione non possa opporre ragioni sempre nuove e non dichiarate, e quindi non sottoposte a contraddittorio nel procedimento”. La citata tendenza giurisprudenziale da valorizzare e recepire deve tuttavia essere cristallizzata in un norma che riferisca chiaramente l’obbligo di esaustività anche al provvedimento finale, così da dare forza e sostanza al potere del giudice di conoscere del rapporto a prescindere dal funzionamento degli strumenti partecipativi.

[10] La giurisprudenza ha sempre sostenuto esattamente l’opposto: da ultimo,  Cassazione civile , sez. I, 05 maggio 2010, n. 10895, per la quale “L'obbligo di diligenza gravante sul creditore, che rappresenta espressione del più generale dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, tendendo a circoscrivere il danno derivante dall'altrui inadempimento entro i limiti che rappresentino una diretta conseguenza dell'altrui colpa, non comprende anche l'obbligo di esplicare una straordinaria o gravosa attività, nella forma di un "facere". Il comportamento operoso richiesto al creditore, improntato all'ordinaria diligenza, non ricomprende, per sua stessa definizione, attività tali da comportare sacrifici, esborsi, o assunzione di rischi, quale può essere l'esperimento di un'azione giudiziaria, sia essa di cognizione o esecutiva, che rappresenta esplicazione di una mera facoltà, dall'esito non certo”.

[11] In questo senso sembrano schierati, tra gli altri, M. Clarich, Il nuovo codice del processo amministrativo, in Giornale Dir. Amm., 2010, 11, 1117; M. Protto, commento agli art. 30 e ss, in Codice del nuovo processo amministrativo, 2010; L. Torchia, op. cit.               

[12] C.M. BIANCA, Diritto civile, La responsabilità, Milano, 1994, 186

[13]  Per tutte Consiglio di Stato , 15 Marzo 2004, n. 1280 sez. V

[14] A. Travi, processo amministrativo e azioni di risarcimento del danno: il risarcimento in forma specifica, in Dir. proc. amm. 2003, 4, 994

 

[15] Mostra di condividere l’assunto, A. Travi, op.cit.

[16] Quest’ultima è ipotesi considerata plausibile  da A. Zito  nell’ambito di un approccio teso alla valorizzazione dell’atipicità dell’azione. Atti del convegno, Prospettive e problemi nell’applicazione delle norme del libro primo del Codice del processo amministrativo, Reggio Cal., 8 febbraio 2011, in corso di pubblicazione.