L’ISTRUTTORIA E L’ACCERTAMENTO DEL FATTO

NEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO *

di

Raffaele Greco

 

Consigliere di Stato

 

Pubblicato sul sito il 3 gennaio 2011

 

Fin dal varo del testo normativo che è oggi divenuto il Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, nr. 104), uno dei settori della nuova disciplina processuale che ha più attratto l’attenzione degli studiosi è stato quello relativo all’attività istruttoria e probatoria.[1] Ad avviso di chi scrive si tratta di un’attenzione pienamente giustificata, dal momento che quella relativa ai poteri istruttori e di accertamento del giudice è una delle parti della nuova normativa maggiormente suscettibili, anche al di là della portata delle specifiche norme in essa contenute, di aprire scenari innovativi e potenzialmente dirompenti rispetto a concezioni del processo amministrativo consolidate e fino a oggi date per pacifiche.

Tanto per cominciare, è evidente già ad un semplice esame delle norme codicistiche in subiecta materia come siano ormai definitivamente alle nostre spalle i dubbi e la riluttanza che, per una lunga fase della vita del processo amministrativo, hanno accompagnato il riconoscimento in capo al giudice di poteri e strumenti idonei a conoscere del “fatto” sotteso al giudizio. Naturalmente, non è che si negasse che il giudizio amministrativo avesse a oggetto anche un fatto storico, ossia una “vicenda” umana prima ancora che amministrativa, ma tuttavia la connotazione fortemente “cartolare” e documentale che si riteneva costituisse la caratteristica peculiare del giudizio amministrativo portava a svalutare la rilevanza di tale vicenda; come osservato da acuta dottrina, la centralità del provvedimento amministrativo, connessa sia alla tradizionale struttura impugnatoria del processo sia alla sua stessa genesi come “prolungamento” dell’attività di amministrazione (sia pure in sede contenziosa), faceva sì che l’atto costituisse uno “schermo” tale da frapporsi tra il giudice e la vicenda su cui l’atto medesimo incideva, precludendo o rendendo ardua ogni indagine su di essa.[2]

Il progressivo superamento di questa visione originaria costituisce solo un aspetto di quella più generale evoluzione che ha interessato la normativa sul processo amministrativo e la giurisprudenza che ne ha fatto applicazione, e alla quale oggi ci si riferisce con la nota formula del passaggio dal “giudizio sull’atto” al “giudizio sul rapporto”.[3] Malgrado ciò, è interessante notare come nemmeno in occasione dei passaggi più rilevanti di questa evoluzione – si pensi, ad esempio, alla legge 21 luglio 2000, nr. 205, notoriamente fondamentale anche nell’ampliamento dei poteri istruttori del giudice amministrativo – il legislatore abbia mai ritenuto di procedere a una riflessione generale sul tema, con la conseguenza che la disciplina dei mezzi di prova e di istruzione è rimasta fino a oggi composta da una pluralità di norme frammentaria e disorganica.[4] è solo con il Codice del processo amministrativo che tale condizione è stata definitivamente superata, ciò che – come meglio si vedrà appresso – costituisce un ulteriore passo verso la svalutazione, se non verso l’abbandono, del classico modello impugnatorio del giudizio,[5] nonché in direzione di una sempre maggiore attenzione alle esigenze di tutela piena ed effettiva dei cittadini.[6]

Ciò premesso, se si esamina la nuova disciplina codicistica in materia di mezzi di prova, due sono le principali novità che balzano agli occhi. Innanzi tutto, per la prima volta viene analiticamente e compiutamente regolamentata l’attività istruttoria nel processo amministrativo, con un sistema di norme (quelle contenute nel Titolo III del Libro Primo del Codice) largamente ricalcate su quelle del codice di procedura civile e punteggiate da richiami a quest’ultimo, specie con riguardo ai singoli mezzi di prova e alle modalità della loro assunzione; in secondo luogo, vi è una generalizzazione di tale disciplina, che è oggi applicabile a tutti i tipi di giudizio (di legittimità, di merito e di giurisdizione esclusiva), così superandosi definitivamente gli indirizzi – riaffermati dalla giurisprudenza ancora in tempi relativamente recenti[7] – secondo cui i mezzi di prova previsti nel processo civile, con la sola eccezione della consulenza tecnica, non sarebbero stati mai ammissibili nel giudizio amministrativo di legittimità.[8]

Proprio questa marcata assimilazione della disciplina in esame a quella processualcivilistica rende quello dell’istruttoria il terreno privilegiato su cui si manifesta la tendenza – per vero evidente anche sotto molti altri aspetti del nuovo testo normativo – alla “civilizzazione” del processo amministrativo;[9] una tendenza che è stata salutata favorevolmente da una parte della dottrina, ma alla cui portata e ai cui effetti occorre prestare estrema attenzione.

Sotto un primo profilo, bisogna tener conto delle ricadute pratiche e organizzative che produrrebbe l’affermarsi di una visione dell’istruttoria nel giudizio amministrativo sempre più modellata sugli schemi del processo civile. Ed invero, se i primi commentatori hanno escluso che il legislatore del Codice processuale abbia inteso introdurre nel giudizio dinanzi ai TT.AA.RR. e al Consiglio di Stato una autonoma fase di istruzione della causa, analoga a quella disciplinata dal codice di procedura civile,[10] non manca però chi rileva che, al di là delle questioni formali e definitorie, sarà la logica stessa a cui è ispirato il “nuovo” processo a determinare una profonda metamorfosi nella struttura del giudizio: in particolare, si sottolinea che non è soltanto la necessità di provvedere all’ammissione dei mezzi di prova richiesti dalle parti, ma anche l’esigenza di valutare una serie di altre questioni preliminari – l’eventuale sussistenza di questioni rilevabili d’ufficio da sottoporre alle parti ai sensi del terzo comma dell’art. 73 cod. proc. amm., ovvero di questioni relative alla competenza territoriale (oggi inderogabile) etc. – a porre il problema di prevedere un’udienza, non coincidente con quella di discussione e non identificabile con quella camerale in cui si esaminano le solo eventuali istanze cautelari, in cui avvenga un primo “contatto” tra il giudice e le parti, idoneo a evitare inutili lungaggini e ritardi.[11] Il che, se non deve necessariamente indurre a reazioni preoccupate per il pericolo di un’estensione al giudizio amministrativo di alcuni “mali” del processo civile, quale è del dilatarsi dei tempi connesso alla “litania” delle udienze istruttorie,[12] non può non imporre un ripensamento sui limiti e le modalità con cui seguiterà a operare nel processo amministrativo il principio, tradizionalmente ritenuto immanente a tale processo, della concentrazione dei poteri istruttori e decisori,[13] nonché sulle scelte organizzative più idonee ad assicurare il rispetto del principio costituzionale di ragionevole durata del processo.[14]

Ma tutto sommato tali questioni, pur indubbiamente degne di considerazione, non costituiscono il vero “nucleo” delle preoccupazioni che – almeno ad avviso di chi scrive – l’ipotizzato processo di “civilizzazione” del processo amministrativo può suscitare per le sue possibili ricadute sul versante dei fondamenti stessi della giurisdizione amministrativa e della sua ragion d’essere sociale e istituzionale.

Per comprendere appieno quest’ultima affermazione, è opportuno prescindere dall’esame analitico e di dettaglio della disciplina che il Codice dedica ai singoli mezzi di prova[15] per concentrarsi sulle novità sostanziali che il nuovo articolato normativo ha introdotto al livello dei principi generali in materia di istruttoria e cognizione del fatto. Sotto tale profilo, si vedrà che dietro l’apparente conferma di assunti da tempo pacifici in dottrina e giurisprudenza è possibile cogliere spunti evolutivi dalle potenzialità inaspettate.

In linea generale, se non proprio dalle origini della giustizia amministrativa, è da quando si è acquisita piena contezza della natura sostanzialmente giurisdizionale dell’attività svolta dai suoi organi che la dottrina più attenta ha manifestato un atteggiamento cauto verso la tendenza a una meccanica trasposizione delle norme del diritto processuale civile al processo amministrativo.[16] Tale atteggiamento da un lato scaturiva dalla resistenza “culturale” ad accettare l’idea, sottesa alla tendenza meccanica suindicata, che il processo civile costituisse un modello generale sul quale costruire la disciplina degli altri tipi di processo; per altro verso, in esso era possibile cogliere l’intuizione dell’esistenza di uno “specifico”, di peculiarità proprie dell’attività giurisdizionale amministrativa e, quindi, in nuce l’idea che la giurisdizione amministrativa avesse una propria dignità autonoma, tale da non renderla relegabile al rango di una specie di “sottoprodotto” della giurisdizione civile. è quest’idea che si è affermata in tempi recenti con ben altra maturità e consapevolezza, al punto di costituire una delle basi teoriche dell’odierna codificazione, fra i cui tanti intenti vi è anche quello di segnare il definitivo abbandono della concezione del giudice amministrativo come giudice “speciale” in favore di una sua visione come “giudice ordinario” delle situazioni giuridiche sottoposte alla sua cognizione, posto su di un piano di pari dignità col giudice ordinario e con esso destinato a cooperare in vista della più piena ed effettiva tutela giurisdizionale.[17]

Incidentalmente, è proprio quest’idea a essere oggi consacrata all’art. 7 del Codice, laddove, per individuare l’oggetto della giurisdizione amministrativa, più che sul tradizionale criterio di riparto (pur richiamato dalla norma) fondato sulla diversa natura di diritto soggettivo o interesse legittimo delle situazioni giuridiche controverse, si insiste sul fatto che debba trattarsi di controversie “concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”.[18]

Dall’atteggiamento sopra richiamato, tra l’altro, discendono anche gli indirizzi a lungo sostenuti dalla giurisprudenza, secondo cui l’applicabilità al giudizio amministrativo delle disposizioni del codice di procedura civile non era automatica, ma subordinata a che esse fossero espressione di principi generali e comunque compatibili con la struttura e la funzione di detto giudizio, o addirittura circoscritta alle sole ipotesi di richiamo espresso.[19] Il primo orientamento risulta apparentemente recepito dall’attuale art. 39 cod. proc. amm., il quale dispone che: “...Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”. Tuttavia, malgrado la disposizione sembri riprodurre una apposita prescrizione contenuta nella legge-delega, la dottrina ha immediatamente evidenziato come, laddove quest’ultima si limitava a richiedere un “coordinamento” con le norme processualcivilistiche, l’art. 39 si spinge ben oltre, introducendo un vero e proprio “rinvio esterno” di portata generale;[20] in altri termini, esso si atteggia a vera e propria norma “di chiusura” del sistema, accentuando quel processo di “civilizzazione” cui si è più volte accennato.

Tornando comunque alle peculiarità del giudizio amministrativo, non è fuori luogo richiamare un indirizzo dottrinale sia pure minoritario il quale, se non disconosceva il carattere di “processo di parti” del processo amministrativo, ne coglieva una profonda affinità col processo penale proprio sul terreno dell’istruttoria e delle prove, laddove si ravvisava (e si ravvisa tuttora) l’esistenza di incisivi poteri acquisitivi e officiosi del giudice.[21] Tale opinione è rimasta isolata, anche perché i postulati da cui implicitamente muoveva potevano accreditare una costruzione del giudizio amministrativo come giudizio finalizzato alla verifica della legalità dell’azione amministrativa, piuttosto che a dirimere controversie tra soggetti, e pertanto rischiavano di aprire la strada a una possibile evoluzione di tale giudizio verso forme di giurisdizione di diritto oggettivo: ciò che la dottrina prevalente, malgrado il progressivo ampliamento dell’effettività della tutela e la crisi del tradizionale modello impugnatorio, continua a escludere possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento.[22]

Tuttavia, l’opinione richiamata aveva il pregio di cogliere un dato reale dell’originario impianto normativo del processo amministrativo, e cioè il fatto che in esso alla quasi totale mancanza di disposizioni sugli oneri probatori incombenti al ricorrente e all’amministrazione intimata – con la sola parziale eccezione della giurisdizione esclusiva, laddove si affermò, ancorché faticosamente, la regola del rinvio ai mezzi di prova disciplinati dal cod. proc. civ., con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento[23] – faceva riscontro effettivamente la previsione di estesi poteri officiosi in capo al giudice: ci si riferisce, innanzi tutto, al disposto dell’art. 44, comma 1, r.d. 26 giugno 2004, nr. 1054, che consentiva al giudice di sopperire a eventuali lacune istruttorie chiedendo all’amministrazione “nuovi schiarimenti o documenti” (oltre che di disporre verificazione), e che per lungo tempo l’unica disposizione espressa in materia di istruzione nel giudizio di legittimità. Questa particolare situazione, con tutta evidenza, dipendeva dalla centralità attribuita al provvedimento amministrativo di cui il ricorrente lamentava la lesività, che costituiva oggetto dell’impugnazione e della successiva verifica giudiziale di legittimità; tale costruzione del processo come “reazione” del privato a un atto della p.a. non poteva non comportare la necessità di prendere atto della peculiare posizione dell’amministrazione evocata in giudizio la quale, oltre a essere il soggetto titolare del potere la cui legittimità era messa in discussione, si trovava in un’evidente posizione di vantaggio rispetto al ricorrente anche quanto alla disponibilità dei documenti istruttori idonei a disvelare la legittimità (o l’illegittimità) del suo operato.

Proprio muovendo da tale dato di partenza, e giovandosi della successiva elaborazione giurisprudenziale, la dottrina che maggiormente si è occupata dei problemi afferenti all’istruttoria nel giudizio amministrativo è giunta a elaborare una concezione che, fermo restando il suo inquadramento nello schema del “processo di parti”, assoggetta tale processo a principi affatto peculiari in materia di acquisizione probatoria. In sostanza, di pari passo con l’evoluzione del sistema – attraverso il già evidenziato trapasso dal giudizio sull’atto a quello sul rapporto – verso un modello di giurisdizione “a tutto tondo”, conforme ai principi di terzietà e imparzialità del giudice e di parità delle parti (principi oggi consacrati nel novellato art. 111 Cost.), l’attività di cognizione del giudice acquistava sempre maggior rilevanza rispetto all’originaria mera verifica documentale; e, man mano che ciò avveniva, appariva sempre più evidente la tensione tra l’attuazione dei predetti principi e l’assetto originario del rapporto sostanziale su cui incideva il processo amministrativo: un rapporto non paritario, ma connotato dalla posizione di superiorità di una delle parti la p.a., che era titolare di quello che un tempo si definiva imperium o potere di supremazia generale, e che oggi si qualificherebbe come “potere autoritativo”.[24] Tale ontologica disparità di posizioni si rifletteva anche sul piano processuale, come già sottolineato, sotto il profilo della disponibilità dei mezzi di prova, quasi mai agevole per il ricorrente e ben più ampia per l’amministrazione convenuta.

La dottrina più autorevole ha colto proprio in questo dato di partenza la giustificazione del peculiare assetto del processo amministrativo, che comunemente si dice essere governato dal principio “dispositivo con metodo acquisitivo”: in estrema sintesi, mentre al livello dei principi generali in materia di prova valgono in toto le regole del processo di parti (e, quindi, il giudice è tenuto a decidere sulla base delle allegazioni delle parti, alle quali incombe la prova dei fatti da ciascuna di esse affermati), diverso è il discorso quanto al metodo di formazione della prova, laddove il giudice può sopperire alla disparità tra le posizioni sostanziali delle parti, acquisendo d’ufficio documenti ed elementi di prova di cui gli sia stata prospettata (ed eventualmente dimostrata) l’esistenza.[25] Si tratta di un’operazione di “riequilibrio” dell’originaria diseguaglianza tra le parti, peraltro non ignota al nostro ordinamento, essendo stato osservato che analoghi meccanismi il legislatore introduce anche nel processo civile, nell’ambito di riti speciali caratterizzati dalla presenza di una parte “debole”, come il processo del lavoro.[26]

Questa attenuazione dei caratteri comuni del principio dispositivo, per cui al giudice sono bensì riconosciuti poteri inquisitori ma questi sono comunque limitati all’acquisizione delle prove di fatti allegati dalle parti, si traduce nella formula per cui nel giudizio amministrativo sulle parti incombe non l’onere della prova, ma l’onere del c.d. principio di prova.[27] Si è parlato anche di un principio della “vicinanza alla prova”, nel senso che il rigore dell’onere della prova può subire deroghe laddove una delle parti risulti oggettivamente più agevolata delle altre nell’accesso ai mezzi di prova.[28]

è questo lo scenario su cui è intervenuto il Codice del processo amministrativo, la cui disciplina in materia di mezzi di prova è stata ritenuta dai primi commentatori del tutto in linea con i principi sopra richiamati, i quali risultano anzi esplicitati agli artt. 63, comma 1, e 64, comma 3.[29] Tuttavia, a uno sguardo appena più attento a detta disciplina emergono alcuni dati di notevole interesse. Innanzi tutto, è curioso constatare che il legislatore, nel “trapiantare” definitivamente nel giudizio di legittimità – come detto – la prova testimoniale e altri istituti del codice di procedura civile, non si è fatto carico di dettare alcuna disposizione atta a calarli adeguatamente su una realtà ontologicamente diversa, quale si è visto essere quella del giudizio amministrativo e dei rapporti sostanziali di cui questo si occupa; per dirne una, un osservatore poco attento ai profili sistematici, leggendo unicamente le norme in tema di istruttoria, potrebbe ritenere che il Codice consenta di provare per testimoni fatti contrari a quelli sui quali la p.a. ha fondato le determinazioni impugnate (p. es., che non è vero che un certo immobile abusivo è stato realizzato in data successiva a quella stabilita dalla legge per poter fruire di una sanatoria). Si può replicare che è dal sistema nel suo complesso che è possibile inferire i limiti all’utilizzabilità dello strumento testimoniale, che nel processo amministrativo potrà essere impiegato bensì per provare fatti estranei al provvedimento oggetto di impugnazione (e che tuttavia si assuma essere rilevanti per disvelarne l’illegittimità), ma non certo per far emergere circostanze contrarie a quelle attestate in atti “fidefacenti”; ma con ciò si tocca un’ulteriore criticità dell’assetto codicistico, che ha conservato alla cognizione del giudice ordinario la querela di falso (art. 77), ciò che verosimilmente ridimensionerà alquanto la portata dell’apparente novità costituita dalla previsione dei mezzi di prova civilistici.

Gli esempi proposti servono a evidenziare una sorta di ambiguità di fondo presente nella normativa del Codice, che appare ancora più chiara ove le norme in materia di prove vengano poste in rapporto al principio di parità delle parti affermato in via generale dall’art. 2 dello stesso articolato. Tale principio, ovviamente, altro non è che la riaffermazione di uno dei principi fondamentali che l’art. 111 Cost. detta per qualsiasi tipo di processo, e dunque il suo inserimento nella disciplina del processo amministrativo non dovrebbe costituire una novità per nulla sconvolgente; tuttavia, va affacciandosi in dottrina un’interpretazione “sostanzialistica” del concetto di “parità delle parti”, assumendosi che con esso il legislatore del 2010 avrebbe inteso affermare un principio destinato a travalicare l’ambito della semplice dialettica processuale per estendersi all’assetto generale dei rapporti tra p.a. e privati. In particolare, si assume che col Codice processuale si sarebbe compiuta nel senso più pieno la trasformazione del processo amministrativo in “processo di parti”, potendosi ormai affermare la totale equipollenza a latere judicis degli interessi contrapposti nel giudizio (alla stessa stregua di quanto accade nel giudizio civile); alla base di tale affermazione c’è l’idea che, una volta che la p.a. abbia esercitato il proprio potere autoritativo nei confronti del privato, verrebbe meno quella disparità del rapporto inter partes di cui si è detto con effetti irreversibili, destinati a proiettarsi anche nell’ulteriore fase del riesercizio del potere pubblico in esito a eventuale annullamento giurisdizionale. Tale risultato sarebbe oggi reso possibile dal fatto che la disciplina del procedimento amministrativo, avendo predeterminato il luogo in cui la p.a. è tenuta a esaminare, ponderare e valutare una volta per tutte gli interessi pubblici e privati implicati nel suo agire, comporterebbe sempre la definitiva consumazione col provvedimento conclusivo delle prerogative autoritative del soggetto pubblico.[30]

Non è questa la sede per esaminare i numerosi corollari che questa impostazione può avere (ad esempio, in materia di ampliamento dei poteri del giudice in sede di ottemperanza). Quel che qui interessa è sottolineare le potenzialità “eversive” di un approccio fondato su una visione “osmotica” di procedimento e processo, per la quale si parte dalla affermazione del valore della parità delle parti nel processo, per desumerne che siffatta parità investirebbe anche il rapporto sostanziale tra p.a. e privato per buona parte della sua vicenda (con esclusione, in sostanza, della sua fase genetica e iniziale). Ma con ciò – come sembra aver intuito qualche acuto studioso[31] – si oblitera che l’amministrazione interviene nel processo quale portatrice di un interesse non omogeneo a quello privato che le si contrappone, un interesse di matrice pubblicistica al cui perseguimento essa è istituzionalmente proposta e di cui conserva la titolarità durante il processo medesimo e anche dopo, nella divisata ipotesi di riesercizio del potere a seguito di sentenza di annullamento. Insomma, una cosa è il piano degli strumenti processuali (sul quale deve essere assicurata la piena parità tra le parti), altra cosa è il piano dei rapporti sostanziali tra p.a. e amministrati (laddove di regola e con rare eccezioni – p.es. in caso di attività vincolata – sopravvive la disparità delle posizioni e la disomogeneità degli interessi in gioco).

Il tema evocato, come è evidente, non si esaurisce nello stretto ambito dell’istruttoria e dell’acquisizione probatoria, ma investe un po’ tutta la portata innovativa del Codice processuale, nel quale si vuole cogliere un approdo che va ben oltre il settore dei poteri di cognizione e accesso al fatto: è come se l’ormai avvenuta conquista del pieno potere del giudice amministrativo di superare lo “schermo” del provvedimento, per conoscere direttamente del rapporto tra amministrazione e privato, debba produrre l’effetto di una sorta di “degradazione” di tale rapporto, equiparabile in tutto per l’organo giudicante a un rapporto di natura paritetica. Ed invero, in svariati punti del Codice, e non solo nelle norme sulle prove, sembra potersi intravedere il presupposto non esplicitato di una concezione dei rapporti tra p.a. e privati alquanto diversa da quella tradizionale che, ancora in tempi abbastanza recenti, è stata autorevolmente ribadita (basti pensare alle affermazioni contenute nella nota sentenza della Corte Costituzionale nr. 204 del 6 luglio 2004 sul potere autoritativo come fondamento e limite della giurisdizione amministrativa).

In altra sede, si è sottolineato come non sia solo il Codice, ma prima ancora la più generale evoluzione della disciplina del giudizio amministrativo, ad aver ingenerato il diffuso timore che un’eccessiva estensione dei poteri di accesso diretto al fatto finisca per trasformare il giudice in una specie di “super-amministratore” con invasione della sfera riservata al potere amministrativo.[32] Tale preoccupazione, lungi dall’essere contraddetta dalla concezione “sostanzialista” testé richiamata, si salda  con essa: a ben vedere, più che essere il giudice a trasformarsi in un “super-amministratore”, è la p.a. che, una volta assunta la qualità di parte processuale, perciò stesso dismetterebbe la propria veste di soggetto istituzionalmente deputato al perseguimento dell’interesse pubblico, potendo essere trattata dal giudice al pari della parte privata.

Ma a questo punto occorre chiedersi se la nuova normativa processuale autorizzi le conclusioni appena riassunte. Se è vero che una certa lettura di essa porta a intravedere una “trama” dei rapporti tra p.a. e amministrati del tutto originale e innovativa, e tale da indurre a un profondo ripensamento di nozioni e concezioni consolidate (in tema di riserva di amministrazione, di immanenza dell’interesse pubblico al giudizio amministrativo, di poteri conformativi del giudice, e così via), è allora lecito chiedersi se sia plausibile che una tale “rivoluzione copernicana” si realizzi per tramite della disciplina del processo, anziché di quella sostanziale. è fuori dubbio che il legislatore coltivi “l’idea che attraverso la disciplina processuale si possano risolvere problemi di natura sostanziale”,[33] ma francamente non pare accettabile – anche in considerazione dei precisi limiti posti al Codice dalla delega legislativa[34] - che una trasformazione radicale del diritto amministrativo avvenga con tali modalità “oblique”.

In effetti, anche in occasione delle più recenti e audaci riforma in materia di azione della p.a. e procedimento amministrativo, il legislatore non è mai giunto al punto di affermare la piena e integrale fungibilità tra attività amministrativa e attività privata. La migliore dottrina ha sottolineato come, pur con la decisa opzione a favore del ricorso a forme e strumenti privatistici per il perseguimento delle finalità pubbliche – evidente, ad esempio, nella novella del 2005 che ha interessato la legge generale sul procedimento –, non si sia mai smarrita la linea distintiva tra dette finalità e quelle private, rappresentata dalla presenza dell’interesse pubblico come fattore di irriducibilità della logica pubblicistica a quella privatistica;[35] nella stessa prospettiva, la giurisprudenza ha manifestato un atteggiamento cauto nella concreta applicazione di alcune recenti scelte normative che prima facie sembravano scardinare il tradizionale limite della separazione tra i poteri, attribuendo al giudice amministrativo poteri in scelte per solito riservate alla p.a. in vista del perseguimento di interessi collettivi.[36] Se tutto ciò è vero, altrettanta cautela occorre adottare nel valutare la praticabilità e l’opportunità di “fughe in avanti” ermeneutiche del tipo di quelle sopra ipotizzate.

Al di là di ciò, in questa sede non può non ribadirsi l’inauspicabilità di una totale omogeneizzazione tra le norme che regolano l’azione dei poteri pubblici e quelle applicabili ai rapporti interprivati; trattasi di uno sbocco che, a tacere di altri inconvenienti evidenziati dalla dottrina, suscettibile – esso sì! – di ridurre la funzione giurisdizionale amministrativa a una mera species di quella ordinaria e pertanto di avallare la deprecata idea dell’inesistenza di una reale “specificità” della giurisdizione amministrativa, tale da legittimarne e giustificarne la sopravvivenza come istituzione autonoma e separata dalla giurisdizione ordinaria. Sotto tale aspetto, la recente prospettazione da parte di autorevoli esponenti della Corte di Cassazione di interpretazioni “estensive” del giudizio di legittimità della S.C. sulle sentenze del Consiglio di Stato, anche al di là dell’ambito delle “questioni di giurisdizione” come delimitato in modo apparentemente rigoroso dall’art. 111, comma 8, Cost.,[37] dimostra che chi scrive è stato facile profeta allorché osservò che, ove mai alla codificazione del processo amministrativo si fosse inteso assegnare il compito di risolvere definitivamente le annose tensioni tra le giurisdizioni, tale aspirazione si sarebbe rivelata illusoria.[38]

Non è questa, invece, la sede per individuare con certezza la strada che bisognerà seguire per evitare di incorrere nei rischi evidenziati e per sciogliere l’equivoco di fondo che sembra permeare la disciplina del Codice. Forse, come segnalato da taluno, è giunto il momento di aprire anche in Italia una riflessione sulla nozione di “rapporto amministrativo” presente in altre esperienze continentali, e quindi di approfondire sul piano teorico i profili e le peculiarità di quel particolare rapporto giuridico che si instaura tra p.a. e amministrati, allorché la prima esercita i propri poteri pubblicistici;[39] forse, proprio a seguito di ciò, il Codice del processo produrrà un ulteriore effetto “a cascata”, avviando quel processo di codificazione del diritto amministrativo sostanziale che fino a ieri era considerato impensabile, e del quale oggi invece qualcuno comincia a parlare.[40] Senza attendere che si realizzi un tale ambizioso obiettivo, sarebbe senz’altro opportuno quanto meno un riordino organico della disciplina del processo amministrativo, oggetto negli ultimi anni di ripetuti e non sempre coerenti e meditati interventi di riforma.[41]

Sia come sia, è comunque auspicabile che medio tempore la giurisprudenza continui a mostrare l’apprezzabile self-restraint manifestato nell’applicazione di altre rilevanti novità normative, facendo della nuova disciplina processuale e della sua esegesi l’uso attento e oculato che si conviene a un giudice consapevole della propria “specificità” (se proprio non si vuole più parlare di “specialità” del giudice amministrativo),[42] che consiste nell’essere il giudice culturalmente e professionalmente più attrezzato a intervenire su controversie nelle quali è in gioco un interesse della collettività, secondo il modello di “giustizia nell’amministrazione” ricavabile dalla moderna interpretazione dell’art. 100 Cost.[43] L’ottimismo è lecito, conoscendo la lunga e consolidata tradizione che assiste la produzione della giurisprudenza amministrativa, e se si ha la consapevolezza che il Codice processuale, lungi dal costituire un punto di arrivo nella sua più che secolare vicenda, dovrà rappresentare per essa piuttosto una base da cui muovere verso nuovi approdi e obiettivi nella realizzazione della più piena ed effettiva tutela del cittadino.[44]

 



* Il presente contributo costituisce elaborazione e sviluppo dell’intervento svolto al convegno “Il Codice del processo amministrativo – Una prima analisi dei profili problematici” tenutosi a Roma il 4 novembre 2010 presso il TAR del Lazio.

[1] Sul punto, sia consentito rinviare a R. GRECO, I poteri istruttori e di accertamento del giudice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it (giugno 2010).

[2] Cfr. G. ABBAMONTE, L’ingresso del fatto nel processo amministrativo, in www.giustamm.it (maggio 2002).

[3] Cfr., ad esempio, P. DE LISE, Le prospettive della giustizia amministrativa tra federalismo ed esigenza di efficienza, in www.giustizia-amministrativa.it (novembre 2008).

[4] Per una analitica ricostruzione della normativa in materia, cfr. C. LAMBERTI, L’attività istruttoria nel processo amministrativo, in F. CARINGELLA – M. PROTTO, Codice del nuovo processo amministrativo, Roma, 2010, 69 ss.

[5] Cfr. L. FERRARA, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell’azione amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento: verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm., 2006, 3, 591 ss.

[6] Sul punto, cfr. P. DE LISE, Verso il codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it (aprile 2010). In ordine al rapporto tra effettività della tutela giurisdizionale e poteri istruttori del giudice, cfr. anche M. LIPARI, I principi generali dell’istruttoria nel processo amministrativo dopo la legge n. 205/2000. Le trasformazioni del giudizio e gli indirizzi della giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 2003, 1, 55).

[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2006, nr. 1534; Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2004, nr. 3772.

[8] Cfr. A. MEZZOTERO – P. MAZZA, Commento all’art. 63, in R. GAROFOLI – G. FERRARI, Codice del processo amministrativo, Roma, 2010, 1006 ss.

[9] L’espressione è di G. VERDE, Sguardo panoramico al Libro Primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in Dir. proc. amm., 2010, 3, 807.

[10] Cfr. A. MEZZOTERO – P. MAZZA, op. cit., 1002.

[11] Così G. VERDE, op.e loc.  cit., il quale auspica l’introduzione di una udienza analoga a quella prevista dagli artt. 183 e 350 cod. proc. civ., pur esprimendo l’opinione che allo stato il giudice amministrativo non sia “culturalmente attrezzato” per un’evoluzione in questo senso del suo processo.

[12] L’espressione è di G. PALEOLOGO, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 18.

[13] In tema, cfr. A. MEZZOTERO – P. MAZZA, op. e loc. cit.

[14] Cfr. A. PAGANO, Norme procedurali e di organizzazione dei TTAARR, in www.giustizia-amministrativa.it (ottobre 2010).

[15] Per tali aspetti, molteplici sono le trattazioni già disponibili, fra cui quelle, già citate, curate da R. Garofoli e G. Ferrari e da F. Caringella e M. Protto.

[16] Cfr., ad esempio, S. ROMANO, Le giurisdizioni speciali amministrative, in Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, diretto da  V.E.  Orlando, vol. III, Milano, 1901, 615 ss.; E. CAPACCIOLI, In tema di ricorso incidentale nel giudizio amministrativo, in Giur. compl. cass. civ., 1951,  1014 ss.

[17] Cfr. P. DE LISE, op. cit., il quale richiama il pensiero di Mario Nigro al riguardo.

[18] Non è questa la sede per soffermarsi sull’esegesi dell’art. 7 cod. proc. amm.: in tema, cfr. N. PAOLANTONIO, Commento all’art. 7, in R. GAROFOLI – G. FERRARI, op. cit., 75 ss.

[19] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2006, nr. 2374; id., 29 luglio 2005, nr. 4115).

[20] Cfr. E. FOLLIERI, La natura giuridica dell’articolato provvisorio denominato codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it (aprile 2010).

[21] Cfr. G. ABBAMONTE, Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 2, 315 ss.

[22] [22] Su questi temi, cfr. C. CONTESSA, Tendenze evolutive del processo amministrativo tra disponibilità delle parti e controllo della legalità, in www.giustamm.it (marzo 2008).

[23] A tale risultato si pervenne, alfine, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale nr. 146 del 23 aprile 1987. Su questi aspetti, cfr. C. LAMBERTI, op. cit., 615-616.

[24] Cfr. E. CANNADA BARTOLI, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, Milano, 1956, 169.

[25] Cfr. F. BENVENUTI, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 102 ss. e 202 ss.; A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 376.

[26] Cfr. A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2002, 246.

[27] Cfr. L. PERFETTI, Prova (diritto processuale amministrativo), in Enc. dir. – Annali, I, Milano, 2008, 934.

[28] Sul punto, cfr. D. ZONNO, I poteri del giudice amministrativo in tema di prove: intervento del giudice nella formazione della prova, in www.giustizia-amministrativa.it (febbraio 2010).

[29] Cfr. A. MEZZOTERO – P. MAZZA, op. cit., 1005.

[30] è questo, in sintesi, il pensiero di G. VERDE, op. cit., 798 ss. Alle medesime conclusioni previene V. CERULLI IRELLI, Federalismo e giustizia amministrativa, in www.federalismi.it (settembre 2010), anche richiamando l’assetto costituzionale e il progressivo scolorire, in giurisprudenza, della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, a partire dal profilo della tutela risarcitoria.

[31] Cfr. P. PORTALURI, Le “macchine pigre” ed un Codice ben temperato, in www.giustizia-amministrativa.it (novembre 2010), secondo cui l’interesse pubblico “esprime sempre un plusvalore mayeriano rispetto a quello privato”.

[32] Cfr. R. GRECO, op. cit.

[33] Cfr. G. VERDE, op. cit., 805.

[34] Come è noto, l’art. 44, comma 1, della legge 18 giugno 2009, nr. 69, lungi dal parlare di “codificazione” delegava al Governo il “riassetto” delle norme sul processo amministrativo, al fine – tra l’altro – di “coordinarle” tra loro e “adeguarle” alla giurisprudenza costituzionale: su questi temi, cfr. M. MAZZAMUTO, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 1, 143 ss.

[35] Su questi temi, cfr. S. GIACCHETTI, Giurisdizione amministrativa e legge n. 15/2005: verso la riscoperta dell’unitarietà dell’interesse pubblico o verso una riserva indiana? in Cons. St., 2005, II, 395 ss.; P. CARPENTIERI, La razionalità complessa dell’azione amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro amm. Tar, 2005, 7-8, 2652.

[36] Cfr. R. GRECO, op. cit.

[37] Sul punto, cfr. F. MANGANARO, Il giudizio di Cassazione nel sistema delle impugnazioni nel processo amministrativo, in www.giustamm.it (novembre 2010).

[38] Cfr. R. GRECO, Le ragioni di un Codice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it (febbraio 2010).

[39] Cfr. R. CAPONI, La riforma del processo amministrativo: primi appunti per una riflessione, in www.giustamm.it (agosto 2010).

[40] Cfr. B. GIULIANI, Per un Codice amministrativo sostanziale. Riflessioni minime, in www.giustamm.it (ottobre 2010).

[41] Sul punto, sia consentito rinviare a R. GRECO, La riforma della legge 241/90, con particolare riguardo alla legge 69/2009: in particolare, le novità sui termini di conclusione del procedimento e la nuova disciplina della conferenza dei servizi, in www.giustizia-amministrativa.it (dicembre 2009).

[42] Il riferimento è ai rilievi, in larga parte condivisibili, di P. QUINTO, La “specialità” della Giustizia Amministrativa ed il nuovo Codice del processo, in www.giustamm.it (dicembre 2010).

[43] Su questi aspetti, cfr. R. GRECO, Le ragioni di un Codice amministrativo, cit.

[44] Al riguardo, si condividono le osservazioni di P. DE LISE, La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, in www.federalismi.it (settembre 2010) e R. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.giustamm.it (luglio 2010).