L’estinzione del processo per inattività, con particolare riferimento al giudizio amministrativo

di

Aniello Cerreto

Consigliere di Stato

Pubblicato il 18 febbraio 2011

 

Sommario: 1.Rilevanza del decorso del tempo; 2.L’esigenza di una rapida conclusione dei processi; 3.L’estinzione del processo per  mero decorso del tempo nel diritto romano; 4.Caratteristiche dell’estinzione del giudizio per decorso di un triennio dalla litis contestatio nel periodo giustinianeo; 5.La perenzione d’istanza; 6.Estensione della regola della perenzione d’istanza; 7.La perenzione nel giudizio amministrativo prima dell’istituzione dei TAR; 8. L’estinzione del giudizio secondo il codice di procedura civile approvato con R.D. n.1443/1940 e le  successive modificazioni; 9.La perenzione nella legge n.1034/1971, istitutiva dei TAR. 10.La nuova perenzione di cui all’art. 9 legge n.205/2000, come modificato dall’art. 54 D. L. n.112/2008 (convertito dalla L. n.133/2008) e ulteriormente integrato dall’art. 57 L. n.69/2009; 11. Le perenzioni nel Codice del processo amministrativo, approvato con il D. L.vo n.104/2010; 12.Osservazioni conclusive.

1.Rilevanza del decorso del tempo.

L’ordinamento giuridico non può tollerare, tra l’altro, che un diritto (disponibile) venga esercitato per un tempo indeterminato (V. art. 2934 c.c. sull’estinzione dei diritti per prescrizione) ; che un reato venga perseguito all’infinito (V. art. 157 c.p. sulla prescrizione dei reati) o che una condanna alla pena della reclusione e della multa o dell’arresto e dell’ammenda venga eseguita con eccessivo ritardo (V. artt. 172 e 173 c.p. sull’estinzione delle relative pene); che la carcerazione preventiva abbia una durata indefinita (V. art.13, ultimo comma, Cost. ed art. 297 c.p.p. sui termini di durata massima della carcerazione preventiva); che un  processo, qualunque sia la natura degli interessi o dei diritti in esso dedotti, abbia  una durata irragionevole (V. artt.24[1] e 111, Cost., in coerenza con l’art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché la  legge 24 marzo 2001, n. 89); che l’inattività delle parti  nel processo si protragga all’infinito (V. art. 307 c.p.c. sull’estinzione del processo civile per inattività delle parti ed art. 40 R. D. 20 giugno 1924 n.1034 sulla perenzione dei ricorsi davanti al Consiglio di Stato per mancanza di un atto di procedura nel termine prescritto).

 

2.L’esigenza di una rapida conclusione dei processi.

 

Un efficace sistema processuale tende a tutelare non solo il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia ma anche la certezza dei rapporti giuridici ed è aspirazione di ogni ordinamento. Invero nessuna posizione giuridica di vantaggio può dirsi pienamente ed effettivamente tutelata se al  suo titolare non è riconosciuto il diritto alla tempestività di una decisione sul merito della propria domanda giudiziale.

Il processo, fisiologicamente destinato a svolgersi nel tempo, è “giusto” solo se si definisce tempestivamente, ad opera di un  giudice terzo e nel rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio.

Costituisce indiscutibile acquisizione comune della attuale cultura giuridica, economica e politica, la valutazione per la quale la lunghezza dei processi condiziona pesantemente l’equilibrio della società civile, il suo sviluppo economico e la possibilità di attenuare le diseguaglianze sociali.

Il problema della eccessiva durata dei processi non è solo un fatto italiano nonostante la presenza di diverse norme sollecitatorie[2], benché in  Italia assuma particolare drammaticità[3].

Se appare indispensabile individuare meccanismi di riduzione dei tempi di svolgimento del processo, il perseguimento dell'obiettivo di celerità della giustizia- valore fondamentale, espressamente tutelato dall'articolo 111 della Costituzione italiana- non deve, tuttavia, portare all'indiscriminato sacrificio dell'istanza, virtualmente confliggente, di un approfondito vaglio giurisdizionale dell'oggetto del giudizio.

Peraltro, la eccessiva durata dei processi ha conseguenze che vanno ben al di là dei costi, e degli sprechi, di un servizio inefficiente e si estendono alla fiducia dei cittadini, alla credibilità delle Istituzioni democratiche, allo sviluppo e alla competitività del Paese.

La sfiducia mette in discussione proprio i caratteri fondamentali della Giustizia che sono: la necessarietà della funzione, la natura di servizio essenziale, la capacità di funzionare come un sistema aperto che sia parte integrante dello sviluppo e della crescita della collettività[4].

Se viene a mancare la convinzione che si possa ottenere Giustizia in tempi certi, con modalità trasparenti ed efficienti, in misura eguale su tutto il territorio, il rischio è una pericolosa “fuga” verso forme di giustizia “diverse”, che nel migliore dei casi sono più vantaggiose per chi dispone di più mezzi e svantaggiano, invece, il cittadino comune.

La crisi si riflette, poi, inevitabilmente, sui suoi operatori, che invece di essere visti come tecnici e professionisti che assicurano un servizio essenziale, vengono percepiti come titolari di un potere autoreferenziale, chiuso alle ragioni dei cittadini e della comunità e responsabili di gravi sprechi di risorse, che il Paese, oggi più che in precedenza, non si può permettere.

Infine, se la Giustizia si atteggia e viene percepita come un sistema chiuso e autoreferenziale, viene meno anche la sua capacità di crescere e svilupparsi insieme alla collettività ed essa appare, al contrario, come un ostacolo ai processi di crescita, sviluppo e modernizzazione dei quali il Paese ha bisogno per mantenere il benessere raggiunto, per migliorare la vita di ciascuno, per garantire la piena attuazione dei diritti e ampliare le possibilità di scelta individuali e collettive.

Un allungamento dei tempi dei processi si traduce in un vulnus all’idea stessa di imparzialità, nel pericolo di dissolvimento di questo fattore di legittimazione, in ultima analisi in un ulteriore indebolimento della democrazia, accrescendo a dismisura l’impatto disgregante di singoli episodi patologici.

In un contesto di inefficienza della giustizia può intervenire anche il passaggio verso l’abuso del processo, per il raggiungimento di scopi diversi dalla soluzione della lite[5].

Si assiste sempre più spesso, infatti, ad un fenomeno di distorsione nell’utilizzo del processo, non più come strumento per risolvere una controversia ed accertare la regola applicabile al caso concreto, ma piuttosto come strumento di dilazione dei tempi nell’adempimento di obbligazioni e, ancor peggio, di strumento volto ad assicurare utilità del tutto estranee alla funzione del processo stesso. Se la tutela dell’interesse sostanziale è la ragione della attribuzione della potestas agendi e ne segna il confine, l’esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela attribuita configura abuso del processo e lede il principio del giusto processo, inteso come risposta alla domanda[6].

L’abuso della situazione sostanziale, in quanto attuata nel e tramite il processo si risolve in abuso dello stesso e viola il precetto dell’art. 111 Cost. .

Viceversa un efficiente funzionamento del sistema giudiziario è idoneo a realizzare un naturale effetto deflattivo in quanto la preventiva conoscenza di una tale situazione rende più prevedibile l’esito del processo e scoraggia le iniziative avventate o temerarie.

 

3.L’estinzione del processo per  mero decorso del tempo nel diritto romano.

In tutti i tempi si è avvertita la necessità di disciplinare i processi in modo da garantirne una sollecita definizione, essendo un danno sociale che le situazioni giuridiche restino a lungo incerte e non definite e non potendosi impegnare a lungo gli organi giurisdizionali sul loro dovere di rendere giustizia.

Lo strumento maggiormente utilizzato per tentare di ridurre i tempi processuali è stato quello dell’estinzione del processo per inattività[7], che però ha subìto una lunga e complessa evoluzione, di cui si tenterà di enunciare le tappe fondamentali.

Nelle fonti romane già si parlava di mors litis o expiratio judicii, in conseguenza di un limite di tempo posto alla durata del processo, determinato originariamente per gli iudicia legittima in 18 mesi e per gli iudicia imperio continentur in dodici mesi in relazione alla durata annuale dell’elezione del pretore[8].

Originariamente, l’azione concessa dal Pretore terminava con lo scadere dell’anno dei suoi poteri e ciò comportava l’estinzione delle  relative azioni[9]. Ma poi se il Pretore successivo continuava a promettere la medesima azione nel suo editto, la doveva facilmente consentire a coloro che l’avevano acquisita nel corso dei poteri del predecessore[10].

Nell’età imperiale tutti i giudizi divennero imperio continentia, ma i magistrati venivano nominati dall’Imperatore a vita, non più eletti dal popolo annualmente, e inoltre la litis contestatio perpetuava l’azione. La lex Iulia del 17 a.C., che aveva disciplinato l’expiratio iudicii, non trovò più applicazione nel processo dell’età imperiale (cognitiones extra ordinem). Ne derivò la conseguenza che le parti, una volta intentata l’azione, potevano protrarre all’infinito la durata del processo (anche se per il compimento di alcuni atti furono stabiliti termini di decadenza, quale il dies fatalis, collegato all’obbligo imposto all’attore di comparire alla prima udienza, altrimenti causa labitur).

Teodosio  II stabilì il principio per cui, dopo la litis contestatio, la prescrizione dell’azione si sarebbe compiuta allo scadere dei trent’anni. Ne derivava una significativa innovazione, anche se non esplicitata dal legislatore: la litis contestatio acquistava efficacia meramente interruttiva della prescrizione, che riprendeva il suo decorso in caso di abbandono della lite. Peraltro, la disposizione, se regolava in modo pressoché esaustivo la materia delle prescrizioni, unificandole, non affrontava, però, in maniera specifica il diverso problema della durata delle liti, e dunque della ‘perenzione d’istanza’.

Alcuni anni dopo, Valentiniano III, con una Novella del 452, negò alla litis contestatio l’effetto interruttivo sancito da Teodosio: ratio della norma era evidentemente quella di evitare che, per esempio, l’interessato promuovesse l’azione nel corso del ventiquattresimo anno senza poi coltivarla, e che avesse a disposizione altri trent’anni per riproporla. Si dispose, perciò, che il processo, se veniva cominciato entro i venticinque anni dalla spettanza dell’azione, doveva comunque essere portato a termine entro il trentennio, mentre, se aveva inizio dopo i venticinque anni, si accordava una proroga quinquennale (oltre il trentennio), affinché fosse definito.

La problematica fu affrontata con maggiore organicità da Giustiniano al fine di realizzare il contenimento dei tempi processuali, da perseguire mediante una efficace azione di contrasto nei confronti della tradizionale funzione preminente rivestita dall’attore nello svolgimento del processo, e della corrispondente «limitatezza del ruolo del giudice relativamente alla determinazione della litispendenza».

Giustiniano volle innanzitutto garantire la serietà delle domande, scoraggiando le citazioni meramente emulative e calunniose; impose, perciò, all’attore l’assunzione dell’obbligo, nei confronti del convenuto, di addivenire entro due mesi alla litis contestatio; operò la diversificazione tra prescrizione dell’azione e perenzione (o estinzione) della causa. Nel 528 l’Imperatore emanò una importante disposizione, relativa alla prescrizione delle azioni reali: il decorso del tempo trentennale o quarantennale, qualificato sia dall’inerzia del titolare che dalla longa possessio del convenuto, conduceva all’estinzione dell’azione.

Ancora con riguardo ai giudizi di primo grado, Giustiniano, nel 529, modificò la legge di Teodosio, elevando a quarant’anni il termine per la prescrizione delle azioni abbandonate in corso di giudizio. Poi, un anno dopo, nel 530 d.C., con la celebre costituzione Properandum (definita «una specie di summa legislativa dei problemi inerenti all’inattività») affrontò il problema della protrazione dei procedimenti, ponendo la regola che i giudizi dovessero chiudersi perentoriamente nell’arco del triennio. La disposizione aveva di mira la restituzione al processo della sua funzione di difesa della certezza del diritto, mediante la rapida eliminazione delle controversie. Si era constatato, infatti, che la protrazione delle liti produceva una inaccettabile situazione di incertezza. Più in particolare, con la lex Properandum l’Imperatore dispose una durata massima triennale per tutte le cause civili (ad eccezione dei giudizi in materia fiscale e pertinenti alle funzioni pubbliche), stabilendo il decorso dei tre anni dalla litis contestatio, con l’espressa finalità di evitare il rischio che le cause superassero la durata della vita umana, ‘divenendo quasi eterne’ (fiant paene immortales)[11]. La scaturigine di questa grave disfunzione era da collegarsi alla possibilità, che fino a quel momento avevano avuto le parti in causa, di regolare i tempi del procedimento, senza che un concreto potere di direzione del giudice intervenisse per sventare tali manovre dilatorie. Giustiniano volle quindi introdurre un sistema idoneo a provocare una rapida decisione della lite, mediante accorgimenti quali la condanna della parte assente alle spese processuali, o disposizioni di carattere coercitivo nei confronti del convenuto contumace.

Giustiniano non affermò chiaramente in che senso il decorso del termine triennale comportasse l’estinzione del giudizio, ma la maggioranza della dottrina ritiene che comunque non si verificava l’estinzione del diritto di azione[12], salva l’operatività della prescrizione.

Invero, la conseguenza dell’abbandono della lite da parte dell’attore era costituita dall’assoluzione del convenuto dall’osservanza del giudizio, (con condanna dell’attore alle spese), quando cioè gli elementi acquisiti si rivelavano insufficienti a fondare una pronuncia nel merito; e, in questo caso, è possibile che all’attore fosse riconosciuto il diritto di riproporre l’azione. La perdita del diritto di riproporre l’azione si verificava invece, solo quando l’attore abbandonava la lite e il convenuto veniva assolto a seguito di un processo contumaciale. Tale provvedimento era da intendersi come definitivo, in quanto l’attore non poteva riproporre l’azione, né interporre gravame[13].

 

4.Caratteristiche dell’estinzione del giudizio per decorso di un triennio dalla litis contestatio nel periodo giustinianeo.

 

L’estinzione del giudizio di primo grado per decorso del triennio non aveva carattere generale, in quanto non riguardava le cause penali, per le quali inizialmente nel diritto romano non era prevista neppure la prescrizione del reato[14], e non si estendeva neppure a tutti i giudizi civili, essendone escluse le cause  fiscali e  quelle pertinenti alle funzioni pubbliche; per l’appello  poi vi erano termini più brevi;

 

L’estinzione del giudizio era collegata  non a qualche specifica inattività delle parti o dell’organo giudicante  ma al semplice fatto obiettivo che la lite non era terminata nel triennio, anche se di fatto le parti e/o il giudice non erano rimasti inerti;

 

L’estinzione del giudizio non comportava  normalmente la perdita dell’azione, che poteva riproporsi nei limiti della prescrizione del diritto, che all’epoca era di durata trentennale o quarantennale.

 

In quella prima forma l’estinzione del giudizio si presenta come istituto politico-sociale, piuttosto che giuridico, come sottolineato da Lodovico Mortara, che ne evidenziò “l’aspetto grossolano e primitivo ed inconciliabile con le condizioni posteriori di svolgimento del processo civile e dei rapporti tra l’organo giurisdizionale ed i litiganti”[15].

 

Giudizio negativo aveva espresso in precedenza anche Luigi Borsari, rilevando che

“ è fra i più gravi doveri del legislatore preordinare in guisa gli eventi del processo da occupare il minor tempo possibile; ma non potrebbe fare di più senza premere di troppo sulla libertà, mettendo in pericolo i più grandi interessi della giustizia”[16] .

 

Invero, una volta che lo Stato assume come funzione propria ed esclusiva quella di rendere giustizia (assunzione che avviene nelle società sviluppate gradualmente, vietandosi nel contempo ai privati di farsi giustizia da sé con il ricorrere a vie di fatto[17]) ne consegue anche il dovere degli organi giurisdizionali (sanzionato penalmente, disciplinarmente e civilmente[18])  di concludere i relativi giudizi, per cui una loro eventuale estinzione per decorso del tempo  non può che essere connessa all’inattività delle parti protratta per un congruo periodo di tempo in modo da desumerne il tacito abbandono e non a quella degli organi giurisdizionali cui competa il dovere di procedere d’ufficio.

Per cui è da condividere l’affermazione di S. Satta che considera “inverosimile” l’imposizione a carico del Giudice di decidere la controversia entro un certo termine pena l’estinzione del processo[19].

 

5.La perenzione d’istanza.

 

A seguito della sistemazione giustinianea, i legislatori successivi si ispirarono in qualche modo  alla lex Properandum ponendo limiti di tempo, anche più brevi del triennio, per la conclusione dei giudizi, ma erano termini non sempre osservati, ritenendosi che le parti potessero di comune accordo prorogarli[20].

Incominciò quindi a delinearsi l’istituto della “perenzione d’istanza”, che comportava la decadenza dal giudizio per inattività triennale delle parti, introdotta in Francia da un’ordinanza del 1539 e poi seguita da altri provvedimenti di identico contenuto[21], finchè non fu recepita nel codice di procedura civile francese del 1806, ove fu precisato che la perenzione concerneva tutti indistintamente  gli atti del procedimento perento  e non aveva luogo di diritto.

I redattori di quel codice ritennero di adeguarsi al diritto giustinianeo, ma in realtà costruirono un istituto nuovo in quanto considerarono la perenzione come effetto dell’abbandono tacito dell’istanza da parte dell’attore (che ne doveva sopportare le spese) purchè il convenuto manifestasse la propria volontà conforme mediante la domanda diretta a far dichiarare la perenzione. Per cui il codice di procedura civile francese non ammise che la perenzione operasse di diritto ed al concetto giustinianeo del limite di tempo imposto al giudice per la definizione del giudizio sostituì una specie di sanzione per l’inattività delle parti protratta per un triennio, esigendosi solo che uno dei litiganti facesse sapere al giudice, almeno una volta ogni tre anni, che intendeva mantenere vivo il processo [22].

Il modello francese fu seguito dagli Stati italiani prima dell’unificazione (con la sola eccezione del codice di procedura civile toscano che riprodusse sostanzialmente la lex Properandum), ma se ne discostò il codice ginevrino, che prescrisse l’operatività di diritto della  perenzione, subordinandola però all’eccezione di parte e con le spese a carico di entrambi i litiganti [23].

I codici sardi seguirono il codice ginevrino e lo stesso fece il codice di procedura civile italiano del 1865, che dedicò alla perenzione d’istanza “se nel corso di tre anni non siasi fatto alcun atto di procedura” gli articoli 338-342, con riduzione del periodo di tempo della metà per giudizi commerciali (art. 887), ad un anno per i giudizi davanti al pretore (art. 447) e  a sei mesi per quelli davanti al conciliatore (art. 464), precisandosi che la perenzione non estingueva l’azione, né gli effetti delle sentenze pronunciate, né le prove che risultassero dagli atti, ma rendeva nulla la procedura, su eccezione della parte che intendeva approfittarne purchè avanzata espressamente prima di ogni altra difesa.

Il Mortara rilevò che la perenzione d’istanza colpisce il processo e non l’azione che può essere riproposta nei limiti della prescrizione (soggetta all’epoca nell’art. 2135 cod. civ.. del 1865 ad un periodo di trenta anni); che la perenzione opera di diritto e di conseguenza può essere opposta sia dall’attore che dal convenuto; che la perenzione ha origine dalla volontà delle parti, per cui non possono rientrare nella perenzione gli intervalli di tempo e fasi di giudizio in cui alle parti non è richiesto di eseguire alcun atto per attestare la loro volontà di tenere in vita l’istanza, nonchè gli intervalli che per necessità di legge sono assegnati all’opera del giudice (con la conseguenza che non vi poteva essere perenzione nel giudizio di Cassazione e nel processo fallimentare); che gli atti di procedura che interrompono la perenzione comprendono tutti gli atti delle parti che per la loro funzione siano idonei a mantenere pendente la causa, mantenendo in attività il rapporto processuale senza distinguere  dal punto di vista della loro validità o nullità (salvi i casi di nullità non sanabile)[24].

6.Estensione della regola della perenzione d’istanza.

L’estensione avvenne  inizialmente con la legge 26 maggio 1887  n.4501,  per le istanze davanti alla Corte dei conti nei casi in cui per il corso di tre anni non fosse stata presentata domanda di fissazione di udienza o non sia stato fatto alcun altro atto di procedura, con esclusione dei giudizi di conto la cui presentazione costituiva l’agente dell’amministrazione in giudizio[25] e perciò vi è il dovere del giudice di procedere d’ufficio.

Istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato con la legge 31 agosto 1889 n. 5992, coerentemente  non fu prevista la perenzione d’istanza nel relativo giudizio (all’epoca ritenuto di carattere contenzioso e non giurisdizionale) in quanto l’udienza di discussione del ricorso doveva essere fissata d’ufficio una volta scaduti i termini per la costituzione delle parti  e per la  presentazione delle memorie e dei documenti, ai sensi dell’art. 35 del Regolamento del 1889 di procedura dinanzi alla IV Sezione del consiglio di Stato [26].

Successivamente, con la legge 7 marzo 1907 n. 62, nell’istituire la V Sezione del Consiglio di Stato, vennero qualificate giurisdizionali sia la Sezione IV che la Sezione V e fu prescritto l’obbligo delle parti di domandare la fissazione dell’udienza per la discussione dei ricorsi e nel contempo si stabilì l’abbandono dei ricorsi se nel corso di tre anni non fosse stato fatto alcun atto di procedura [27]. Con il regolamento di esecuzione di cui al R. D. 17 agosto 1907 n.642 fu poi precisato nell’art.44 che la perenzione del ricorso opera di diritto e può essere rilevata d’ufficio, con compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

La perenzione fu estesa poi anche ai giudizi avanti al Tribunale delle acque con l’art. 36 del  Regolamento di procedura 24 gennaio 1917 n.85 che la fissava inizialmente nel periodo di un anno[28].

7.La perenzione nel giudizio amministrativo prima dell’istituzione dei TAR.

Il principio processuale civile secondo cui la perenzione non estingue l’azione, fermo restando la prescrizione del diritto da far valere, è applicabile anche nel giudizio amministrativo ma con adeguamento alle caratteristiche di esso, considerando che  le posizioni soggettive tutelate in tale processo sono normalmente di interesse legittimo e solo eccezionalmente di diritto soggettivo (pur dovendosi riconoscere che progressivamente le situazioni di diritto soggettivo si sono notevolmente incrementate con l’estensione delle materie di giurisdizione esclusiva). Per cui, se il diritto non è prescritto, il ricorso può essere riproposto nei limiti della prescrizione, ma se si tratta di interesse legittimo l’azione di annullamento è comunque consumata in quanto dichiarato perento il giudizio il ricorso non può essere ripresentato per decorrenza del termine perentorio di impugnativa[29].

La particolarità della perenzione nel giudizio amministrativo (il cui periodo venne ridotto da tre anni a due anni dall’ art. 8 L. n. 1018/1950 ed ora è di un anno ex artt. 81 del Codice del processo amministrativo) è che essa (oltre che operare di diritto) può essere rilevata anche d’ufficio[30], come confermato dall’art. 83 del Codice del processo amministrativo, e perciò produce i suoi effetti dal momento stesso in cui si verifica limitandosi la pronuncia del giudice all’accertamento dell’intervenuta perenzione[31]

Di conseguenza, viene a mancare il principale argomento che era stato addotto dai fautori della teoria soggettiva della perenzione nel processo civile (che ne rinvenivano il  fondamento nella presunzione di una concorde volontà delle parti di abbandono della causa), essendo  comunque prevalente nel processo amministrativo la teoria oggettiva che riconduce la perenzione all’interesse pubblico ad una sollecita definizione del giudizio, al fine di evitare che le controversie in questa materia si protraggano senza limiti temporali[32].

Inoltre, anche se a fatica, è stato chiarito che la perenzione non può essere ammessa in quei procedimenti nei quali non competa alle parti lo svolgimento di qualche attività per la prosecuzione del processo, per essere nelle competenze esclusive dell’organo giudiziario l’impulso processuale. Invero, in un primo tempo l’orientamento del Consiglio di Stato era stato nel senso che il termine di perenzione decorresse dal giorno di presentazione della domanda di fissazione di udienza  da parte del ricorrente per l’ipotesi in cui nel prescritto triennio (poi biennio) non avesse compiuto alcun atto di procedura  e non fosse intervenuto da parte dell’organo giurisdizionale il provvedimento di fissazione dell’udienza[33]. Tale restrittivo orientamento venne immediatamente criticato da parte della dottrina, la quale evidenziò che ammettere la perenzione anche quando la parte avesse compiuto tutti gli atti di procedura richiesti dalla legge (presentando anche la domanda di fissazione di udienza) e l’inerzia fosse solo dell’organo giurisdizionale significherebbe creare un istituto simile a quello giustinianeo rimettendo all’arbitrio del giudice la cessazione del processo, che assolutamente contrasterebbe con quello voluto dal nostro legislatore[34]. Per cui oggi è pacifico che in tanto la domanda di fissazione di udienza perde la propria efficacia ed inizia  a decorrere un nuovo termine di perenzione in quanto l’udienza venga fissata con le prescritte modalità, occorrendo che siano stati consumati gli effetti dell'istanza di fissazione d'udienza presentata [35], pur in mancanza  di  ulteriori atti procedurali[36].

Peraltro, una volta tenuta l’udienza, va presentata una nuova domanda di fissazione di udienza nel caso di cancellazione della causa dal ruolo o nel caso di decisione istruttoria, della cui esecuzione (o  mancata esecuzione) la Segreteria deve dare comunicazione alle parti per l’inizio del nuovo termine di perenzione [37].

Diversa deve ritenersi invece l’ipotesi del rinvio della causa a data da destinarsi, la quale lascia intatta la domanda di fissazione precedente e solo ne rinvia la discussione ad altra data[38]. Tale conclusione è implicitamente confermata dall’art. 71,comma 1, del Codice del processo amministrativo, che prescrive la presentazione di una nuova domanda di fissazione di udienza solo per l’ipotesi della cancellazione della causa dal ruolo.

E’ stato invece fin dall’inizio ben chiaro che non potevano essere assoggettati a perenzione i ricorsi da trattarsi in camera di consiglio[39] (ad es., ricorsi avverso il diniego di autorizzazione a stare in giudizio per gli enti morali ed in materia di spedalità e ricoveri ed ora  v. art. 87 del Codice del processo amministrativo)[40] o per  i quali vi era impulso d’ufficio non sussistendo, dopo il deposito del ricorso, alcun atto di procedura da compiere dalle parti (V. ora artt.119 per speciali controversie e art 129 per il contenzioso elettorale del codice del processo amministrativo).

Ad evitare la perenzione nel giudizio davanti al Consiglio di Stato è sufficiente (fino all’introduzione del Codice del processo amministrativo) il susseguirsi di un atto di procedura almeno ogni due anni (oltre la sospensione feriale di cui alla L. n.742/1969[41]), ma per la definizione effettiva del giudizio è indispensabile la domanda di fissazione di udienza, salvi i casi di fissazione d’ufficio[42].

Per il concetto di atto di procedura idoneo ad interrompere il periodo di perenzione, la giurisprudenza amministrativa e la dottrina, sia pure con tentennamenti, si sono sostanzialmente allineate a quelle ordinaria sull’analogo istituto del codice di procedura civile del 1865, sottolineando che in quanto atti diretti al giudice e influenti sul corso dell’azione potevano considerarsi atti di procedura il deposito di documenti attinenti alla causa[43] o la presentazione di una memoria o di un mandato ad altro avvocato in considerazione dei criteri di larghezza ed equità sempre applicati in materia[44], nonchè il deposito di un ricorso incidentale, l’istanza per la notifica per pubblici proclami, la richiesta di mezzi istruttori, gli atti procedurali posti dall’interveniente[45]. Mentre non sono tali la richiesta di un certificato alla Segreteria[46]e la domanda di ammissione al gratuito patrocinio presentata in corso di causa[47]. Per quanto concerne la domanda cautelare proposta separatamente dal ricorso, è da riconoscerle la natura di atto procedura[48], ma essa non può equivalere a domanda di fissazione di udienza essendo l’incidente cautelare una fase autonoma e distinta rispetto al giudizio principale[49].

Relativamente alle formalità della domanda di fissazione di udienza è stato precisato che essa può essere presentata da qualunque parte costituita (anche dall’interventore) ma non è idonea quella formulata nel contesto dell’atto introduttivo, occorrendo invece un’autonoma e separata istanza[50], la quale deve contenere segno di ricezione da parte dell’Ufficio ai sensi dell’art. 51 R. D. n.642/1907[51].

8. L’estinzione del giudizio secondo il codice di procedura civile approvato con R.D. n.1443/1940 e le successive modificazioni.

All’epoca in cui la dottrina andava maturando la riforma del codice procedura civile del 1865, l’istituto della perenzione continuava ad avere sempre più numerosi avversari, perché il modo come era regolato, richiedendo la produzione di un semplice atto di procedura ogni tre anni, aveva provocato notevoli ritardi nella conclusione dei processi civili in considerazione del deplorevole abuso dei rinvii a ripetizione concordati tra le parti e quindi concessi dal Giudice. Fu perciò avvertita dal nuovo legislatore la prevalenza dell’interesse pubblico alla sollecita definizione del giudizio verso la sua meta naturale, che è la sentenza; non consentendosi più alle parti di ritardare con la loro inerzia il corso del procedimento, anche se in caso di controversia su diritti disponibili non può essere loro negato il diritto di farlo cessare per rinunzia o inattività delle parti[52].

Per cui all’istituto della perenzione d’istanza del codice procedura civile del 1865 subentrò l’estinzione per inattività delle parti di cui all’art. 307 del c.p.c. del 1940, il quale nel prevedere le specifiche cause di inattività (per mancata rinnovazione, prosecuzione, riassunzione e integrazione del giudizio), attribuiva al Giudice il potere di dichiarare anche d’ufficio l’estinzione del processo, in coerenza con la tendenza di quel legislatore a rafforzare i poteri di direzione del Giudice sull’andamento del processo civile[53] .

Peraltro, nell’impostazione del codice di procedura civile del 1940, il sistema dell’estinzione era alquanto rigido, poiché essa si verificava immediatamente in seguito alla omissione di determinati atti ed era rilevabile d’ufficio.

Ciò ebbe a suscitare vivaci proteste specie nella pratica forense, poiché in sostanza fin dal suo nascere il processo era esposto alla continua minaccia della prematura fine, essendo sanzionabile qualsiasi svista o ritardo[54].

Per cui con la legge 14 luglio 1950, n. 581, nota come “novella del ‘50” vennero introdotti notevoli temperamenti, modificando così, sotto vari aspetti, le norme disciplinatrici dell’istituto ed in particolare fu sottratta la dichiarazione di estinzione all’officium judicis, facendone oggetto di una eccezione che la parte interessata doveva sollevare prima di ogni altra difesa.

Ma poi con l’art. 46, comma15 lett. c,  legge 18 giugno 2009, n.69, i poteri di direzione del Giudice sul processo civile sono stati di nuovo intensificati e vi è stato sostanzialmente un ritorno alla formulazione del 1940, prevedendosi che “l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio”.

9.La perenzione nella legge n.1034/1971, istitutiva dei TAR.

Nonostante le critiche mosse alla perenzione d’istanza nel processo civile, tale istituto è stato mantenuto fermo dalla legge n.1034/1971, che però si è limitata a ridisciplinarlo soltanto nel giudizio di primo grado, statuendo negli 23, 25 e 29 quanto segue:

-“la discussione del ricorso deve essere richiesta dal ricorrente ovvero dall’amministrazione o da altra parte costituita con apposita istanza da presentare entro il termine massimo di due anni dal deposito del ricorso”;

-l’istanza di fissazione dell’udienza deve essere rinnovata dalle parti o dall’amministrazione dopo l’esecuzione dell’istruttoria”;

-“i ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura”;

-“al giudizio di appello si applicano le norme che regolano il processo davanti al Consiglio di Stato”.

Viene introdotta, perciò, una disciplina parzialmente differenziata per il giudizio di primo grado, dal momento che l’art. 23, comma 1°, della legge TAR ricollega la perenzione direttamente alla mancata presentazione della domanda di fissazione nel biennio dal deposito del ricorso, ancorchè in tale periodo di tempo vengano compiuti degli atti di procedura[55]. Peraltro, la legge istitutiva dei TAR, nel prevedere una nuova domanda di fissazione di udienza dopo l’esecuzione dell’istruttoria, non ha precisato che la rinnovazione debba avvenire nel biennio, con la conseguenza che riprende vigore dopo l’esecuzione dell’istruttoria in primo grado, in considerazione dell’eccezionalità delle norme che stabiliscono decadenze, il principio vigente in sede di appello, riconfermato dall’art. 25 legge TAR, in base al quale è sufficiente ad impedire la perenzione qualsiasi atto di procedura infrabiennale[56] .

Peraltro il principio ex art. 25 legge TAR (abbandono dei ricorsi se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura) in tanto può operare in quanto  non sia presente anche il dovere delle parti di presentare domanda di fissazione di udienza entro il biennio, che una volta assolto trasferisce l’impulso processuale nella disponibilità del Giudice. Con la conseguenza che la perenzione
ex art. 25 Legge TAR può intervenire nei  soli casi  in cui, esauriti gli effetti della domanda di fissazione originaria (come nell’ipotesi  di cancellazione della causa dal ruolo), l’impulso processuale torni alle parti, che hanno l'onere, per evitare la perenzione, di attivarsi mediante "nuovi atti di procedura"[57]

10.La nuova perenzione di cui all’art. 9 legge n.205/2000, come modificato dall’art. 54 D. L. n.112/2008 (convertito dalla L. n.133/2008) e ulteriormente integrato dall’art. 57 L. n.69/2009.

L’art. 9, 2° comma, della L. n. 205/200 ha disposto quanto segue:

A cura della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell'udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell'avviso medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di cui all'ultimo comma dell'art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo”.

 

E’ stata prevista, perciò, per la prima volta, ferma restando la tradizionale perenzione biennale, una particolare forma di perenzione di carattere misto, prendendo in considerazione da una parte il decorso di un determinato periodo di tempo dal deposito del ricorso (dieci anni, poi ridotto a cinque anni dall’art. 54 D.L n.112/2008, convertito dalla L. n.133/2008), che prescinde dall’eventuale attività sollecitataria svolta delle parti (alla stregua della perenzione giustinianea), e dall’altra la mancata presentazione a cura delle parti ricorrenti di una nuova domanda di fissazione di udienza, con la firma delle parti stesse, nel termine perentorio di sei mesi dalla notifica di apposito avviso a cura della Segreteria.

 

Mentre il periodo di perenzione tradizionale (biennale dal 1950 ed ora annuale) è pacificamente sottoposto alla sospensione feriale di cui alla L. n.742/1969[58], invece il decennio (poi quinquennio) di pendenza del ricorso, che costituisce  il presupposto per l’invio dell’avviso di perenzione da parte della Segreteria, fuoriesce dalla nozione di termine processuale, in quanto la norma prende in considerazione un determinato lasso di tempo in sè senza richiedere l’intervento di un particolare atto di procedura[59]. L’istituto della sospensione feriale ritorna poi applicabile al periodo semestrale concesso alle parti ricorrenti per il rinnovo della domanda di fissazione di udienza[60] , che abbisogna della sottoscrizione anche del difensore[61].

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Nonostante la norma parli di “notifica”, l’avviso di Segreteria (che deve recare l’indicazione del ricorso e l’avvertenza che entro sei mesi, tenuto conto della sospensione feriale, deve essere rinnovata la domanda di fissazione di udienza) può essere spedito -come per il decreto di fissazione di udienza (art. 23 l. n. 1034 del 1971)- con lettera raccomandata o con biglietto di segreteria che offra la certezza della data.

Occorre sottolineare che il requisito (mero decorso di un determinato periodo di tempo, sufficientemente lungo, dal deposito de ricorso) non potrebbe costituire il presupposto unico per l’estinzione del giudizio[62], in quanto in tal modo verrebbe ad essere violata  la garanzia del diritto di azione ex art.24 Cost., che non si esaurisce al momento dell’accesso al processo, ma va configurato, anche in virtù dell’art.111 Cost. che  ne assicura la ragionevole durata, come diritto ad ottenere una tutela effettiva in tempi ragionevoli mediante  una pronuncia sul merito della controversia[63].

Correttamente perciò è stato individuato un secondo requisito che ricollega sostanzialmente all’inattività delle parti ricorrenti protratta per sei mesi, a seguito di specifico avviso della Segreteria, l’estinzione per perenzione del giudizio. Il che appare conforme agli orientamenti della Corte costituzionale, la quale ha escluso l’esistenza in via di principio sul piano costituzionale di un divieto di introdurre nel processo un onere generalizzato di istanza di trattazione o fissazione di udienza, con comminatoria di estinzione del processo decorso un periodo ragionevole di inattività processuale, salvo a verificare se in concreto siano  stati introdotti adempimenti vessatori , di difficile osservanza o insidiose complicazioni processuali tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento di attività processuale, ovvero modalità assolutamente irragionevoli, tenuto conto dello specifico sistema processuale[64].

La disposizione appena citata delinea in sostanza un meccanismo generale di verifica della persistenza dell’interesse alla decisione ai fini dello smaltimento dell’arretrato, rimettendo al ricorrente la manifestazione di una rinnovata volontà di proseguire il processo, attraverso il deposito di una "nuova istanza" di fissazione dell'udienza di discussione, che rechi, oltre alla sottoscrizione del difensore (come per l'ordinaria domanda di fissazione dell'udienza), anche "la firma delle parti ricorrenti "[65].

Peraltro, la disposizione che richiede la sottoscrizione della nuova domanda di fissazione anche da parte del ricorrente ha destato nella dottrina dubbi di costituzionalità, in quanto verrebbe a gravare in modo vessatorio la parte, nel cui ricorso era già presente una domanda di fissazione di udienza, richiedendo inutilmente una conferma dell’interesse alla decisione, con aggravamento della difficoltà nei ricorsi collettivi in quanto con il passare degli anni si affievoliscono i rapporti tra il difensore ed i soggetti patrocinati[66].

La giurisprudenza ha chiarito che il legislatore ha voluto assicurare, per evidenti motivi di economia dei mezzi processuali, che gli strumenti di tutela non siano inutilmente forniti per la trattazione di cause per le quali non residua ulteriore interesse. Per cui, essendo presumibile che cause pendenti da lungo tempo abbiano perso incidenza sugli interessi delle parti, ha imposto di assicurare al giudice l'attuale utilità del suo intervento. Atteso peraltro che tale valutazione spetta in primo luogo alla parte sostanziale, che dispone dell'interesse dedotto in giudizio, ha imposto a quest'ultima di dichiarare personalmente la permanenza dell'interesse alla decisione, mediante una nuova domanda  di fissazione dell'udienza di trattazione[67]. Ha riconosciuto al difensore  di sottoscrivere personalmente la nuova domanda di fissazione di udienza almeno nel caso di procura speciale con il conferimento del relativo specifico potere, non essendo sufficiente il mandato difensivo originario [68].

Né appare condivisibile la enunciata preoccupazione con riferimento ai ricorsi collettivi, i quali costituiscono in effetti impugnative autonome tra loro connesse ex art. 103 c.p.c., che vengono riunite in  un solo ricorso solo per esigenze di economia processuale, ferma restando che per ciascun ricorrente debbono sussistere i presupposti per ottenere una decisione di merito. Invero, nel ricorso collettivo le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti rispetto all'atto impugnato o al rapporto controverso non si comunicano agli altri. È dunque possibile che alcuni ricorrenti abbiano interesse alla prosecuzione del giudizio e decidano quindi di firmare l'istanza di fissazione di udienza ex art. 9, secondo comma, L. n. 205 del 2000 ed altri, invece, di non coltivare più il giudizio[69].

Peraltro, nell’assicurare l’applicazione generalizzata della regola della esplicita manifestazione di interesse delle parti sostanziali, la giurisprudenza ha inizialmente affermato che per evitare la perenzione decennale (poi quinquennale) la nuova domanda di fissazione di udienza doveva essere sottoscritta dal rappresentante legale dell’Amministrazione pubblica ricorrente anche nel caso di soggetti istituzionalmente difesi dall’Avvocatura dello Stato[70]. Tale tesi è stata opportunamente rivista in considerazione del fatto che l’Avvocatura dello Stato espleta l’attività istituzionale di rappresentanza e difesa in giudizio senza alcun mandato specifico, per cui deve ritenersi legittimata a presentare una nuova domanda di fissazione di udienza allo scopo di evitare appesantimenti inutili[71].

 

La nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta dalle parti ricorrenti, per cui è inidonea quella con sottoscrizione dell’ interventore  o delle parti resistenti (compresa l’amministrazione pubblica nei cui confronti è rivolta l’impugnativa)[72]. Peraltro, occorre tener  conto del ricorso incidentale, il quale può assumere valenza autonoma nel giudizio amministrativo nel senso che può non essere  subordinato all’accoglimento del ricorso principale e quindi per lo meno in tal caso il ricorrente incidentale ha titolo a ricevere il preavviso di perenzione da parte della Segreteria, potendo presentare per proprio conto la domanda di fissazione di udienza[73]. A conferma della qualificazione di parte ricorrente del “ricorrente incidentale” va richiamata la recente normativa sul contributo unificato, che ha esteso il relativo onere contributivo anche a carico del ricorrente incidentale che introduca domande nuove ai sensi dell’art. 3, comma 11°, dell’allegato 4 del Codice del processo amministrativo, approvato con il D. L.vo n.104/2010.

Inoltre, nel caso che l’impugnativa sia proposta da una società,  la nuova domanda di fissazione di udienza va sottoscritta dagli attuali amministratori e non da quelli che hanno proposto l'originario ricorso, se nelle more non ne abbiano più la rappresentanza [74].

La giurisprudenza, con orientamento discutibile, aveva ritenuto che non poteva essere deciso un ricorso, per il quale era stata fissata l’udienza di merito, nel caso in cui esso fosse stato depositato da oltre 5 anni e non risultasse l’adempimento della nuova domanda di fissazione di udienza di cui all’art. 9 della legge n.205/2000[75]. Ma poi è intervenuto  l’art. 57 L. 18 giugno 2009, n. 69,  che modificando ulteriormente la disciplina della perenzione di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 205 del 2000, ha previsto che: "Se, in assenza dell’avviso di cui al primo periodo, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel merito, i ricorsi sono decisi qualora almeno una parte costituita dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere interesse alla decisione; altrimenti sono dichiarati perenti dal presidente del collegio con decreto, ai sensi dell’articolo 26, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.

Per cui deve ritenersi che, nel caso in cui il ricorso ultraquinquennale giunga alla discussione, non sia necessario attivare il procedimento diretto ad acquisire le dichiarazioni personali delle parti ricorrenti, ma sia sufficiente una manifestazione di interesse resa dalla difesa di una qualunque delle parti costituite.

11. Le perenzioni nel Codice del processo amministrativo, approvato con il D. L.vo n.104/2010.

Il Codice del processo amministrativo ha in qualche modo tenuto presente l’enorme contenzioso pendente in primo grado (circa 511.000 ricorsi) ed in appello (circa 23.000 ricorsi in Consiglio di Stato ed 8.000 in Consiglio giustizia amministrativa siciliana)[76] ed ha dettato misure di riduzione dell’arretrato, di cui alcune straordinarie nell’art. 16 dell’allegato 2 (per ora non ancora attuate), altre transitorie negli artt. 1 e 2  dell’allegato 3  ed altre ordinarie negli artt. 71, 81 e 82.dell’allegato 1.

Le misure ordinarie sono:

a)perenzione annuale

-prevista, implicitamente, per effetto del dovere a carico delle parti costituite di chiedere la fissazione dell’udienza con apposita istanza, non revocabile, da presentare entro il termine massimo di un anno dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo (art.71, comma1, del Codice);

-comminata espressamente se nel corso di un anno non  sia compiuto alcun atto di procedura su iniziativa delle parti costituite. Il termine non decorre dalla presentazione dell’istanza di cui all’ articolo 71, comma 1, e finché non si sia provveduto su di essa, salvo quanto previsto dall’ articolo 82 (art.81 del Codice).

Dette disposizioni, anche se ricalcano gli art. 23,1° comma, e 25 legge TAR, in sostanza introducono un istituto nuovo in quanto:

-vengono stabilite le medesime regole sia per il giudizio di primo grado  che per quello di appello per effetto del rinvio interno operato dall’art. 38 del Codice;

-per ottenere la pronuncia collegiale sulla domanda cautelare è indispensabile  la presentazione della domanda di fissazione di udienza (come già avveniva per prassi nel precedente regime) , salvo che essa debba essere fissata d’ufficio (art. 55, comma 4°, del Codice);

-viene preclusa la facoltà di revocare la domanda di fissazione di udienza (in quanto nel regime precedente tale revoca aveva provocato inconvenienti principalmente nel caso di accoglimento del’istanza cautelare);

-viene ridotto ad un anno il termine della presentazione della domanda di fissazione di udienza con decorrenza dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo (per adeguarlo al termine annuale di perenzione);

-viene precisato, in adesione alla giurisprudenza prevalente, che il termine annuale per il compimento di almeno un atto di procedura, non decorre una volta presentata la domanda di fissazione di udienza e finchè non si è provveduto su di essa, salva l’ipotesi della perenzione dei ricorsi ultraquinquennali di cui all’art. 82;

-non è riprodotta la disposizione che stabiliva il rinnovo della domanda di fissazione di udienza dopo l’esecuzione dell’istruttoria (art.23,comma 6° legge TAR) in quanto ora con norma applicabile a tutte le controversie è stabilito che in caso di ordinanza collegiale istruttoria occorre indicare contestualmente la data della successiva udienza (V. art. 65,comma 2°, del Codice).

Essendo un istituto che si fonda sulla mancanza per un anno di atti di procedura o della domanda di fissazione di udienza, la perenzione annuale non può che decorrere dal 16 settembre 2010 (entrata in vigore del Codice) e quindi si applica  solo ai ricorsi depositati da tale data in poi.

Inoltre, in tanto sussiste la perenzione annuale in quanto vi sia, come già avveniva nel precedente regime, il dovere delle parti di presentare la domanda di fissazione di udienza; il che comporta la sua inoperatività per i ricorsi che vanno decisi in camera di consiglio (V. art. 87 del Codice) e per quelli per i quali è prescritta la fissazione d’ufficio dell’udienza di merito (V art.85, comma 8°, art.120, commi 6° ed 11°, art.125, comma 1°, art. 129, commi 6° e 9°, art.130,comma 2°, art.131 ed art.132,, del Codice).

Il termine annuale di perenzione è dimezzato nei riti abbreviati di determinate materie (V. art.119 comma 2° , del Codice) e sia l’anno che il semestre, in quanto termini processuali,  sono  soggetti alla sospensione feriale.

Occorre infine rilevare che una volta presentata la domanda di fissazione di udienza entro un anno dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo ai sensi dell’art.71, 1° comma, del Codice, la regolazione dell’iter processuale è demandata all’iniziativa del Giudice e perciò non può intervenire perenzione annuale, che presuppone un’inattività imputabile alle parti.

Ma si innesta a questo punto il problema del coordinamento con l’art.81 del Codice, che sancisce la perenzione del ricorso per difetto di un atto di procedura infrannuale.

La problematica è analoga a quella emersa sotto il precedente regime con gli artt. 23,comma 1°, e 25 legge TAR.

La conclusione da preferire, al fine di evitare appesantimenti irragionevoli, è che la perenzione per mancanza di un atto di procedura nell’anno non può che valere per le ipotesi (con andamento anomalo dell’iter processuale) in cui l’iniziale domanda di fissazione dell’udienza esaurisca i suoi effetti e conseguentemente l’onere di impulso processuale viene di nuovo a ricadere sulle parti e non vi sia il dovere di presentare una nuova domanda di fissazione di udienza entro l’anno[77]. Tra tali ipotesi anomale non rientra più il caso della cancellazione della causa dal ruolo, la quale comporta ora per le parti la necessità di rinnovare la domanda di fissazione dell’udienza entro l’anno, che rende inutile l’obbligo di compiere un atto di procedura infrannuale.

b)perenzione per i ricorsi ultraquinquennali.

L’art. 82 del codice prevede quanto segue:

“1.Dopo il decorso di cinque anni dalla data di deposito del ricorso, la segreteria comunica alle parti costituite apposito avviso in virtù del quale è fatto onere al ricorrente di presentare nuova istanza di fissazione di udienza, sottoscritta dalla parte che ha rilasciato la procura di cui all’articolo 24 e dal suo difensore, entro centottanta giorni dalla data di ricezione dell’avviso. In difetto di tale nuova istanza, il ricorso è dichiarato perento.

2. Se, in assenza dell’avviso di cui al comma 1, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel merito, il ricorso è deciso qualora il ricorrente dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere interesse alla decisione; altrimenti è dichiarato perento dal presidente del collegio con decreto.”

Le citate disposizioni riproducono, con alcuni aggiustamenti, la perenzione dei ricorsi ultraquinquennali di cui all’art. 9, comma 2°, L. n.205/2000 e successive modificazioni. Per cui, è introdotta a regime nel Codice la verifica della persistenza dell’interesse alla decisione dei ricorsi depositati da oltre cinque anni ai fini dello smaltimento dell’arretrato[78].

Ferme restando le considerazioni di carattere generale formulate nel par.10, si segnalano i seguenti aspetti:

-l’avviso della Segreteria ex art.82 del Codice concerne i ricorsi che hanno maturato cinque anni dal deposito, che può essere intervenuto sia prima che dopo il 16 settembre 2010 (data di entrata in vigore del Codice). Invero l’art. 82 è senz’altro applicabile ai ricorsi depositati dopo il 16 settembre 2010 ma, avendo per presupposto unicamente la pendenza quinquennale di un ricorso, ciò vale anche per i ricorsi depositati prima dell’entrata in vigore del Codice, tenuto conto  anche della disposizione transitoria di cui all’art. 2 dell’Allegato 3 del Codice, la quale prevede che “per i termini che sono in corso alla data dell’entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”, tra cui appunto l’art. 9,comma 2°, L. n.205/2000 e successive modificazioni. Tanto è vero che detto art. 9 non rientra tra le ulteriori disposizioni abrogate dall’art.4 dell’Allegato 3 del Codice.

-è stato precisato che l’avviso è “comunicato”, alle parti costituite, mentre prima era stato adoperato impropriamente il termine “notifica”;

- è stato precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta dalla parte ricorrente “che ha rilasciato la procura di cui all’art. 24”, come riconosciuto dalla giurisprudenza intervenuta sul menzionato art. 9;

-è stato precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta anche dal “difensore”, in conformità all’orientamento prevalente della giurisprudenza precedente[79];

-è stato precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere presentata entro centottanta giorni dalla data di ricezione dell’avviso, invece dei sei mesi previsti precedentemente, ad evitare contestazioni sul calcolo del termine;

-è stato precisato, infine, che in caso di avvenuta fissazione dell’udienza di merito ed in assenza del’avviso della Segreteria, il soggetto legittimato a dichiarare l’interesse alla decisione, anche in udienza a mezzo del difensore, è solo la parte ricorrente, mentre prima la legittimazione era estesa in tale particolare ipotesi a tutte le parti costituite.

c)perenzione transitoria per i ricorsi ultraquinquennali pendenti alla data del 16 settembre 2010.

L’art. 1 delle norme transitorie dell’allegato 3 del Codice prevede quanto segue:

“1. Nel termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice, le parti presentano una nuova istanza di fissazione di udienza, sottoscritta dalla parte che ha rilasciato la procura di cui all’ articolo 24 del codice e dal suo difensore, relativamente ai ricorsi pendenti da oltre cinque anni e per i quali non è stata ancora fissata l’udienza di discussione. In difetto, il ricorso è dichiarato perento con decreto del presidente.

2. Se tuttavia, nel termine di centottanta giorni dalla comunicazione del decreto, il ricorrente deposita un atto, sottoscritto dalla parte personalmente e dal difensore e notificato alle altre parti, in cui dichiara di avere ancora interesse alla trattazione della causa, il presidente revoca il decreto disponendo la reiscrizione della causa sul ruolo di merito.

3. Se, nella pendenza del termine di cui al comma 1, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione, il giudice provvede ai sensi dell’articolo 82,comma 2, del codice.”

Tale perenzione transitoria è una novità del Codice in quanto vengono sottoposti a verifica di persistenza di interesse i ricorsi pendenti da oltre cinque anni alla data del 16 settembre 2010 e per i quali non è stata ancora fissata l’udienza di discussione, senza il previo avviso della Segreteria e perciò in via automatica.

La persistenza di interesse va manifestata almeno da una della parti costituite mediante una nuova domanda di fissazione di udienza, sottoscritta dalla parte e dal suo difensore, entro 180 giorni dal 16 settembre 2010 e cioè entro il 15 marzo 2011.

In difetto di tale nuova domanda al 16 marzo 2011, il ricorso va dichiarato perento con decreto monocratico.

Peraltro, in via recuperatoria è consentito solo alla parte ricorrente (principale ed incidentale con posizione autonoma) di dichiarare di avere ancora interesse alla decisione depositando, entro 180 giorni dalla comunicazione del decreto di perenzione, atto sottoscritto dalla parte medesima e dal suo difensore e notificato alle altre parti. La notifica è giustificata nell’ambito di detto procedimento dalla necessità di riaprire il giudizio e consentire alle altre parti di difendersi anche con riferimento alla validità della dichiarazione di persistenza di interesse.

In quest’ultimo caso il Presidente revoca (con altro decreto monocratico) il decreto di perenzione, disponendo la reiscrizione della causa nel ruolo di merito.

Se nella pendenza del termine della nuova domanda di fissazione di udienza è comunicato alle parti l’avviso di fissazione di udienza, si applica la regola di cui all’art. 82,comma 2, del Codice e perciò il soggetto legittimato a dichiarare l’interesse alla decisione, anche in udienza a mezzo del difensore, è solo la parte ricorrente.

d)perenzione biennale ad esaurimento.

Come è noto, prima dell’approvazione del Codice, la perenzione del ricorso già operava di diritto in base al dato fattuale del mancato compimento di atti di procedura per il periodo di due anni (artt. 40, secondo comma, del t.u. n. 1054/1924; 45 del r.d. n. 642/1907; 25 della legge TAR) o per la mancata presentazione della domanda di fissazione di udienza entro due anni dal deposito del ricorso (art.23, comma 1°, legge TAR) e poteva essere rilevata d’ufficio[80]. Con la conseguenza che i ricorsi  che si trovano in queste condizioni al 16 settembre 2010 sono comunque suscettibili di perenzione biennale sulla base della precedente disciplina, in considerazione del carattere dichiarativo del decreto di perenzione adottato successivamente a tale data.

e)perenzione transitoria per effetto della disposizione di cui all’art. 2 dell’Allegato 3 del Codice

Tale disposizione prevede che “per i termini che sono in corso alla data dell’entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”, per cui vanno dichiarati perenti tutti i ricorsi, per i quali il termine di perenzione, in corso al 16 settembre 2010, dovesse maturarsi dopo tale data, con applicabilità ai ricorsi suscettibili di perenzione biennale e di perenzione ultraquinquennale con i relativi periodi di tempo ancora incompleti.

12.Osservazioni conclusive.

Sono state delineate nel precedente paragrafo le varie ipotesi di perenzione previste dal Codice, per cui il problema che si pone in sede applicativa, principalmente in questa fase transitoria, è la sussistenza o meno di criteri di priorità nella loro scelta in caso di contemporanea presenza dei presupposti per procedere in un senso o nell’altro.

Occorre osservare che il Codice non fornisce alcun criterio di priorità, per cui si rende necessario procedere con criteri di logica e di semplificazione.

E’ evidente che se un ricorso è suscettibile di perenzione biennale, occorre procedere a tale forma di perenzione anche se dovessero essere presenti i presupposti per la perenzione ultraquinquennale ex art.82 o ex art.1 Allegato 3, in quanto solo nel primo caso vi è estinzione immediata della causa, intervenendo nelle altre ipotesi l’avviso della Segreteria o l’istanza di fissazione di udienza.

Più complessa è l’ipotesi di un ricorso suscettibile sia di perenzione ultraquinquennale ex art.82 sia di perenzione ex art.1 Allegato 3, in quanto pendente da oltre cinque anni al 16 settembre 2010.

In questo caso la Segreteria potrà indifferentemente scegliere sia di inviare l’avviso sia attendere il 15 marzo 2011 per il decreto di perenzione senza avvviso, ma una volta intrapresa la via dell’avviso, deve sottostare a tale opzione ed attendere la scadenza dei 180 giorni (oltre il periodo feriale) per procedere al decreto di perenzione. Qualora poi la parte ricorrente (principale o incidentale autonoma), con sottoscrizione anche del difensore, dovesse presentare nel periodo 16 settembre 2010-15 marzo 2011 nuova domanda di fissazione di udienza, ciò escluderà anche l’applicabilità della perenzione ex art. 1 allegato 3.

Comunque per evitare sorprese è opportuno che i difensori si affrettino a depositare in Segreteria in tempo utile (e comunque non oltre il 15 marzo 2011) nuova domanda di fissazione di udienza, sottoscritta da loro e dalla parte che ha rilasciato la procura, per i ricorsi depositati da oltre cinque anni alla data del 16 settembre e per i quali non hanno notizia dell’intervenuta fissazione di udienza.



[1] Il diritto alla tutela dei propri diritti ed interessi ex art. 24 Cost. implica una ragionevole durata del processo dal momento che il compimento del processo entro termini ragionevoli è in funzione del primario interesse alla realizzazione della giustizia, come affermato dalla Corte cost. nella sentenza 22 ottobre 1999 n. 388 nonché nella sentenza 29 ottobre 1987 n.345.

[2] V. E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, pubblicato in internet, che ricorda: il VI emendamento della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America del 17 settembre 1787, dove si afferma che “in ogni processo penale l’accusato avrà il diritto ad un procedimento pronto e pubblico,…”;  l’ordinamento tedesco, che prevede il dovere degli organi giurisdizionali di decidere entro uno spazio di tempo ragionevole e  riconosce che tale dovere  «è violato per esempio da un’omissione o da un ritardo ingiustificato specialmente in caso di omessa fissazione d’udienza, mancata assunzione di un mezzo di prova o omessa pronuncia, sebbene la causa sia matura per la decisione, tanto in fatto che in diritto», concedendo all’interessato vari rimedi oltre al risarcimento; l’art. 24, 2°comma, della Costituzione spagnola del 27 dicembre 1978,  che statuisce il diritto di ognuno ad un processo senza indebite dilazioni, inoltre, secondo l’art. 121 Cost., i danni conseguenti al funzionamento anomalo dell’amministrazione della giustizia attribuiscono, a norma di legge, il diritto ad un indennizzo a carico dello Stato; l’ordinamento francese ove i giudici hanno in più occasioni condannato lo Stato per la lentezza dei processi, stabilendo che in  tali casi sono lese più disposizioni ( l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’art. 4 del Code civil, secondo cui il giudice che si rifiuti di giudicare con il pretesto del silenzio, dell’oscurità o dell’insufficienza della legge, potrà essere perseguito come colpevole di diniego di giustizia, la L. 781-1 COJ, che obbliga lo Stato a riparare i danni causati per il funzionamento difettoso dei servizi giudiziari).

[3] Come sottolineato nella Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione (E. Lupo) sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2010 “Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella risoluzione del 2 dicembre 2010, ha rivolto per l’ennesima volta la sua attenzione al nostro Paese per ribadire che i tempi eccessivi nell'amministrazione della giustizia italiana costituiscono «un grave pericolo per il rispetto dello Stato di diritto, conducendo alla negazione dei diritti consacrati dalla Convenzione» europea dei diritti dell’uomo. In detta Relazione è stato poi precisato che “La realizzazione di una durata ragionevole dei processi, secondo le concordi prescrizioni dell’art. 111 della Costituzione italiana, dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è essenziale: per il rispetto di un diritto fondamentale di ogni persona, il diritto alla giusti-zia, che costituisce una sorta di pre-condizione per la tutela di ogni altro di-ritto, una sorta di “diritto ai propri diritti”; per l’immagine dell’Italia nel panorama europeo e internazionale; per gli effetti sull’economia e sulla competitività internazionale del sistema Italia.”

Invero, in Italia sono stati proposti dal 2002 ad oggi circa 40.000 ricorsi per equa riparazione per eccessiva durata dei processi , che a loro volta hanno generato altri processi per lentezza dei pagamenti dei relativi indennizzi, per un ammontare complessivo finora di circa 82 milioni di euro (V. l’articolo di Ignazio Marino, in Italia Oggi del 10 febbraio 2011.

[4]  V. Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione (V. Carbone) sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008.

[5] V. Relazione per il 2008, citata.

[6] V. Relazione per il 2008, citata.

[7] Altro strumento utilizzato negli ultimi tempi è quello del tentativo facoltativo o obbligatorio di conciliazione, che è stato introdotto nelle controversie di lavoro (v. art.410 c.p.c.) ed in materia di condominio, diritti reali, successioni ereditarie, ecc. ai sensi dell’art. 5 del D.L.vo 4 marzo 2010 n.28. Ma si tratta di espediente che finora non ha prodotto l’effetto sperato, per aver provocato solo un rinvio della controversia giudiziale.

[8] V. F. Serafini, Istituzioni diritto romano, vol. I., 1899, pag. 263, nota 2.

[9] Come è noto, nell’ordinamento giuridico romano l’actio conformò l’jus, che esisteva se e in quanto vi fosse uno strumento di tutela giudiziaria atto a garantirne la realizzazione . Dunque, il ‘diritto soggettivo’ costituiva un posterius, e non un prius, come ai nostri giorni, rispetto alla protezione processuale: V. P. Cogliolo, Filosofia del diritto privato, 1891, pag. 116.

[10] V. P. F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, traduzione italiana di C. Longo, 1909, pag. 741 e nota 2;

[11]. La lex in parola si limitava a disciplinare la durata dei processi civili di primo grado. Sussisteva anche un termine (oscillante, nelle fonti, tra un anno e due anni) entro il quale si doveva proporre (e, presumibilmente, anche concludere) il giudizio d’appello.

[12] V. V. Scialoja, Procedura civile romana, 1884, pag. 462; P. F. Girard, op. cit., pag. 1090; E. Costa, Profilo storico del processo civile romano, 1919, pag.184.

[13] V. L. Solidoro Maruotti, La perdita dell’azione civile per decorso del tempo nel diritto romano, 2010, pubblicato in internet.

[14] La prescrizione dei reati inizialmente non prevista in diritto romano, fu poi ammessa gradualmente, prima per il reato di adulterio e poi per alcuni “crimina publica”: V. P. Tuozzi, Corso di diritto penale, vol I, 1890, pag. 515.

[15] V. Commentario al Codice procedura civile, vol. III, 1905, pag.868.

[16] V. Codice di procedura civile annotato, parte I, 1869, pag. 442.

[17] V. F. Serafini, che ricorda i vari provvedimenti legislativi intervenuti in diritto romano sia in sede penale che civile per precludere l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e le relative deroghe, op. cit. pagg. 233-234.

[18] V. F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, vol.III, 1923, pagg. 429 e segg.

[19] V. S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, vol. I, 1966, pag. 430.

[20] V. E. Borselli, Voce “Perenzione”,  in Nuovo Digesto  Italiano, vol. IX, 1939, pag. 849.

[21] V. E. Borselli, op. cit., pag. 849.

[22] V. E. Borselli, op. cit. pagg. 849-850.

[23] V. L .Mortara, op. cit. pag. 869.

[24] V. L. Mortara, op. cit. pagg. 866-912.

[25] La disposizione è stata riprodotta nell’art.76 T. U. 12 luglio 1934 n. 1214, con la riduzione del periodo di perenzione da tre anni ad un anno. Recentemente è stato precisato che nel giudizio pensionistico successivo alla riforma D.L. n.453/1993, convertito dalla L. n.19/1994 è inapplicabile l'istituto dell'abbandono previsto dall'art. 75 del T.U. n.1214/1934 dato che l'art. 6 del medesimo d.l. n. 453 del 1996 pone a carico del Presidente della Corte il potere-dovere di fissare l'udienza di trattazione nonché l'onere di comunicarla alle parti costituite V. Cass. Sez. I, sent. n. 3782 del 21-02-2006.

[26] La dottrina parlò di lacuna deplorevole per non aver previsto la L. n.5992/1889 un periodo di tempo entro il quale il ricorrente avrebbe dovuto insistere per ottenere una decisione (V. V. E. Orlando, in Giustizia amministrativa , vol III, 1907, pagg.1032-1033, del Trattato di diritto amministrativo italiano), ma all’epoca era incerta la natura del giudizio davanti la Sezione IV del Consiglio di Stato ed inoltre nella legge del 1889 la fissazione dell’udienza non era prevista a domanda di parte.

[27] Sia consentito il richiamo del mio scritto “L’istituzione della V Sezione del Consiglio di Stato e le altre innovazioni introdotte dalla L. 7 marzo 1907 n.62, con accenno alle questioni fondamentali emerse nella giurisprudenza della V Sezione nel periodo 1907-1923”, pubblicato nel sito del Consiglio di Stato e in Giustamm (novembre 2007).

[28] Nei giudizi dinanzi ai Tribunali regionali e al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche l'art. 186 del  T.U di cui al R. D. n.1775/1933 prevede la perenzione in ipotesi di inattività protratta per sei mesi. Tuttavia in difetto di specifica previsione nel suddetto testo unico, l'eccezione di perenzione è soggetta alla disciplina prevista dall’art. 307 c.p.c.; Cass. Sez. U., sent. n. 45 del 08-02-2001 (orientamento che deve ritenersi superato per effetto della  recente modifica dell’art. 307 c.p.c. con l’art. 46 della legge n.69/2009).

[29] V. Cons. St. 30 aprile 1940 n.574, in Giustizia Amm. 1940, parte II, pagg. 398-401.

[30]V. Cons, St., sez. IV, 3 settembre 1911, n. 80, in Giustizia Amministrativa, 1911, I, pag.343.

[31] V. Cass. Sez. 1°, 20 maggio 1957, n. 1821, in Foro Amm. 1957, Parte II Sez.1°, col.526; Cons. St., Sez-VI, 23 febbraio 1982, n.90, ove si precisa che la successiva domanda di fissazione di udienza non è idonea ad evitare gli effetti della perenzione verificatasi.

[32] V. Cons. St., Sez. VI, 13 lugio1954, n.632; A. P.,  2 maggio 1955, n.11, in Rass. Cons. St, 1955, maggio, pagg. 562 e segg.; A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, vol.II, 1989, pag. 1480.

[33]  V. Cons. St., sez. IV, 22 giugno 1923, in G. I., 1923, III, 252, ove si apprende che era prassi della IV Sezione richiedere una nuova domanda di fissazione di udienza  se nel corso del triennio non fosse stato fatto dalle parti alcun atto di procedura.

[34] V. S. Lessona, Perenzione dei ricorsi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato,  in Riv. Dir. Proc. Civ. , 1924, II, pagg. 375-385;

[35] V. Cons. St., sez. VI, 10 maggio 1956, n. 620 e sez. V, 4 maggio 2004, n.2686, rispettivamente  in Rass. Cons. St. 1956, ottobre, pag 1250 e 2004, maggio, pag.997; Cons. St. Sez. IV, 19 maggio 2010, n. 3165.

[36] V. Cons. St. , Sez V, 21 maggio 1960 n.371 (in Foro Amministrativo, 1960, pag. 928); Sez.. IV, 19 maggio 2010, n.3165. In tal senso dispone ora espressamente l’art.81 del Codice del processo amministrativo.

[37] V. Cons. St. A.P. 18 aprile 1986,  n. 3 , in Rass. Cons. St. 1986, aprile, pagg.437-441.

[38] Favorevole a detta tesi è A. M. Sandulli, il Giudizio cit. pag 372, nonché Cons. St. Sez. IV,  2 dicembre 2003, n. 7864 e 13 marzo 2009, n. 1520 ; Cons. giust. Amm. Sic., 22 ottobre 2009, n.984, e implicitamente . Cass. S. U. 23 dicembre 2005, n. 28507. Di diverso avviso appare, invece, Cons. di St. Sez. V,  4 ottobre 2007 n. 5155, che accomuna con obiter dictum il rinvio a data da destinare alla cancellazione della causa del ruolo ma in una fattispecie in cui in effetti vi era stata quest’ultima ipotesi.

[39] La richiesta di sospensione del provvedimento impugnato non poteva considerarsi finora equivalente alla domanda di fissazione di udienza stante la diversità (per natura e finalità) dell’atto di accesso alla tutela cautelare rispetto all’impulso di parte richiesto per evitare la perenzione ( V. Cons. St. Sez. V, 17 marzo 1998, n.294, in Rass. Cons. St. 1998, marzo, pagg. 389 e segg.). Il problema è ora sostanzialmente risolto dall’art. 55, comma 4°, del Codice del processo amministrativo, stabilendosi che la domanda cautelare è improcedibile finchè non è presentata domanda di fissazione dell’udienza di merito, salvo ch essa debba essere fissata d’ufficio”.

[40] V. Cons. St. Sez. V, 24 novembre 1911, n. 514 e 2 giugno 1937, n. 743, rispettivamente,  in Giustizia Amm. 1911, pag.439 e. 1937, pag.487. Per i giudizi da trattare attualmente in camera di consiglio si rinvia all’art. 87 del Codice del processo amministrativo.

[41] V. Cons. St. Sez. IV, 13 ottobre 1980, n. 535; 22 dicembre 1978, n.1278.

[42] V. A.M- Sandulli, il Giudizio cit., pag. 370.

[43] V. Cons. St. A.P. 22 aprile 1983, n. 6, in  Rass. Cons. St. 1983, aprile, pagg.379-381.

[44] V. Cons. St. sez. IV, 15 gennaio 1941 n.24, in Giustizia Amm. 1941, pagg. 221-222.

[45]  V. G. Vacirca, Perenzione nel giudizio amministrativo, in. Enc. Giur. Treccani, XXIII, 1990.

[46] V. Cons. St. sez. IV, 15 gennaio 1941,  n.24, in Giustizia Amm. 1941, pagg. 221-222.

[47] V. G. Vacirca, Perenzione cit, pag. 3.

[48] V. G. Vacirca, Perenzione cit. pag. 3 par. 7 e, implicitamente, Cons. St., Sez. V, 14 febbraio 1984, n. 129, in Rass. Cons. St., 1984, pag 171. .

[49] V. Cons. St. A. P., 28 settembre 1984, n.19 e 27 febbraio 1985, n. 4, in Riv. Dir. Proc. Amm.vo, 1985, pagg 381 e segg., con nota di R. Federici; nonché Sez. IV, 17 maggio 2010, n.3165, che ha ribadito che  la lite cautelare costituisce una fase autonoma e distinta rispetto al giudizio di impugnazione e non è idonea ad esplicare effetti sul rapporto processuale principale.

[50] V. Cons. St. A.P.,  28 settembre 1984, n.19, in Rass. Cons. St.

[51] V. Cons. St. A. P., 23 marzo 2004 n.6, in Rass. Cons. St. 2004, marzo, pagg. 474 e segg; Sez. IV 12 giugno 2009 n.3724 e Sez. VI 3 marzo 2010 n.82 e 27 aprile 2010 n.138. Il registro delle istanze di fissazione di udienza è ora confermato dall’art. 2, comma 1 lett. a dell’Allegato 2 al Codice del processo amministrativo

[52] V. Relazione al codice di procedura civile del ministro Grandi, pagg. 18-20.

[53] V. Relazione citata, pag.18.

[54] V. S. Satta, op. cit., pagg.434-435.

[55] La diversità di disciplina per il giudizio di primo grado e per quello di appello in tema di perenzione è riconducibile alla stratificazione della legislazione in materia, che non è stata coordinata in occasione dell’istituzione dei TAR (V. Cons. St. Sez. IV, 3 marzo 2000, n. 1123).

[56] V. V. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, 1979, pagg. 467-468; F. Caringella e M. Protto, Codice del nuovo processo amministrativo, settembre 2010, pag. 748.

[57] V. TAR Lazio, Sez.I, 5 novembre 2008 e Cons. Stato,  Sez.V, 4 ottobre 2007, n. 5155, che però erroneamente equiparano “la cancellazione della causa dal ruolo” al “rinvio dell’udienza a data da destinarsi”, in qaunto quest’ultima ipotesi non comporta la perdita di efficacia dell’originaria domanda di fissazione di udienza, come precisato al paragrafo 7.

[58] V., recentemente,  Cons. St. Sez. V, 23 maggio 2003 n. 2788 e 10 febbraio 2010 n. 654.

[59] V. G. Vacirca, Principali innovazioni nel processo amministrativo introdotte dalla L. n.205/2005, nel sito del Consiglio di Stato, studi e contributi.

[60] V. Cons. St., Sez. IV , 1° aprile 2004 n.1814.

[61] V. Cons. St., A. P. n.4/2004, già citata, punto 4 della motivazione.

[62] Come nel caso del recente disegno di legge sul c.d.  processo breve, che tra l’altro sancisce l’estinzione del processo per responsabilità contabile e del processo penale (con esclusione dei reati più gravi) per il solo fatto che siano stati superati predeterminati periodi di tempo per la pronuncia conclusiva (atto senato n.1880 del 20 gennaio 2010), prima accantonato per “improponibilità di una riforma così concepita” (V. l’articolo di Vittorio Grevi, sul corriera della sera dell’8 settembre 2010 dal titolo: “Il processo breve non deve dare l’impunità”) ed ora  riproposto(V. l’articolo di Dino Martirano, sul corriera della sera dell’8 febbraio 2011 dal titolo: “Processo breve, il PDL accelera , in aula a marzo, voto ad aprile”).

[63] Sull’effettività della tutela ex art.24 della Costituzione, V. Corte cost. 16 aprile 1998, n. 111, nonchè quanto osservato in precedenza nel paragrafo 4.

[64] V. Corte cost, n.111/1998, già citata,  e  13 luglio 2000, n. 276.

[65] V.Cons. St. A. P. , 23 marzo 2004, n.6

[66] V. F. Caringella e M. Protto, op. cit. pag. 752.

[67] V. Cons. St. Sez. VI , 14 gennaio 2009 n. 133.

[68] V. TAR Lazio,Sez. I°, 19 dicembre 2005 n. 14085.

[69] V. TAR Lazio,Sez. III, 14 ottobre 2010, n. 32816.

[70] V. Cons. St.,  Sez. V , ord. n. 4477 del 13 agosto2007

[71]  V. in tal senso Cons. St., Sez. IV, 18 febbraio 2010 n. 936, anche se con qualche  titubanza.

[72] V. TAR Lazio, Sez. III, 13 maggio 2009 n. 5123.

[73] V., sia pure implicitamente, Cons. St., Sez. V , 29 marzo 2010, n.1783

[74] V.TAR Lazio, Sez. II, 2 settembre 2005 n. 5535.

[75] V. Cons. St., Sez. V, 28 febbraio 2001 n. 1087.

[76] Sono questi i dati che emergono dalla Relazione del Pres. De Lise  sull’attività della Giustizia amministrativa  nell’anno 2010, tenuta l’8 febbraio 2011.

[77] V. F. Caringella e M. Protto, op. cit., pag. 745..

[78] Un istituto analogo è stato recentemente previsto nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri per il processo civile limitatamente ai ricorsi in appello o in  Cassazione pendenti da oltre due anni, per i quali sussiste l'obbligo per le parti di ribadire espressamente la volontà di definire la causa. Sarà la cancelleria ad avvisare le parti dell'onere di presentare istanza di trattazione del procedimento. Se entro sei mesi (termine perentorio) dalla ricezione dell'avviso, nessuna delle parti, con istanza scritta, dichiarerà di avere ancora interesse alla trattazione della causa, il ricorso si considererà abbandonato e il giudice dovrà pronunciare l'estinzione del processo (V. G. Negri nell’articolo “seicento giudici ausiliari per l’arretrato civile”, in sole 24 ore del 10 febbraio 2011.

[79] V. TAR Puglia Lecce, ord. 21 novembre 2002, n. 878, che aveva ritenuto, in contrasto con la giurisprudenza prevalente, che la nuova domanda di fissazione di udienza ex art.9,comma 2°, legge n. 205/2000 non doveva essere sottoscritta dal difensore della parte.

[80] V. Cons. St., Sez. VI, ord.za 22 settembre 2008, n. 4558 e Sez. IV, ord.za 31 marzo 2005, n. 1412.