L’estinzione del processo per inattività, con
particolare riferimento al giudizio amministrativo
di
Aniello
Cerreto
Consigliere di
Stato
Pubblicato il
18 febbraio 2011
Sommario: 1.Rilevanza del decorso
del tempo; 2.L’esigenza di una rapida conclusione dei processi; 3.L’estinzione
del processo per mero decorso del
tempo nel diritto romano; 4.Caratteristiche dell’estinzione del giudizio per
decorso di un triennio dalla litis contestatio nel periodo giustinianeo; 5.La
perenzione d’istanza; 6.Estensione della regola della perenzione d’istanza; 7.La
perenzione nel giudizio amministrativo prima dell’istituzione dei TAR; 8. L’estinzione del giudizio secondo il codice di procedura
civile approvato con R.D. n.1443/1940 e le
successive modificazioni; 9.La perenzione nella legge n.1034/1971,
istitutiva dei TAR. 10.La nuova perenzione di cui all’art. 9 legge n.205/2000,
come modificato dall’art. 54 D. L. n.112/2008 (convertito dalla L. n.133/2008) e
ulteriormente integrato dall’art.
1.Rilevanza del
decorso del tempo.
L’ordinamento
giuridico non può tollerare, tra l’altro, che un diritto (disponibile) venga
esercitato per un tempo indeterminato (V. art. 2934 c.c. sull’estinzione dei
diritti per prescrizione) ; che un reato venga perseguito all’infinito (V. art.
157 c.p. sulla prescrizione dei reati) o che una condanna alla pena della
reclusione e della multa o dell’arresto e dell’ammenda venga eseguita con
eccessivo ritardo (V. artt. 172 e 173 c.p. sull’estinzione delle relative pene);
che la carcerazione preventiva abbia una durata indefinita (V. art.13, ultimo
comma, Cost. ed art. 297 c.p.p. sui termini di durata massima della carcerazione
preventiva); che un processo,
qualunque sia la natura degli interessi o dei diritti in esso dedotti,
abbia una durata irragionevole (V.
artt.24[1]
e 111, Cost., in coerenza con l’art. 6,
primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4
agosto 1955, n. 848, nonché la
legge 24 marzo
2001, n. 89); che l’inattività delle parti
nel processo si protragga all’infinito (V. art. 307 c.p.c.
sull’estinzione del processo civile per inattività delle parti ed art. 40 R. D.
20 giugno 1924 n.1034 sulla perenzione dei ricorsi davanti al Consiglio di Stato
per mancanza di un atto di procedura nel termine
prescritto).
2.L’esigenza
di una rapida conclusione dei processi.
Un efficace
sistema processuale tende a tutelare non solo il corretto funzionamento
dell’amministrazione della
giustizia ma anche la certezza dei rapporti giuridici ed è aspirazione di ogni
ordinamento. Invero nessuna posizione giuridica di vantaggio può dirsi
pienamente ed effettivamente tutelata se al suo titolare non è riconosciuto il
diritto alla tempestività di una decisione sul merito della propria domanda
giudiziale.
Il processo, fisiologicamente destinato a
svolgersi nel tempo, è “giusto” solo se si definisce tempestivamente, ad opera
di un giudice terzo e nel rispetto
dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio.
Costituisce
indiscutibile acquisizione comune della attuale cultura giuridica, economica e
politica, la valutazione per la quale la lunghezza dei processi condiziona
pesantemente l’equilibrio della società civile, il suo sviluppo economico e la
possibilità di attenuare le diseguaglianze sociali.
Il problema della eccessiva durata
dei processi non è solo un fatto italiano nonostante la presenza di diverse
norme sollecitatorie[2],
benché in Italia assuma particolare
drammaticità[3].
Se appare indispensabile
individuare meccanismi di riduzione dei tempi di svolgimento del processo, il
perseguimento dell'obiettivo di celerità della giustizia- valore fondamentale,
espressamente tutelato dall'articolo 111 della Costituzione italiana- non deve,
tuttavia, portare all'indiscriminato sacrificio dell'istanza, virtualmente
confliggente, di un approfondito vaglio giurisdizionale dell'oggetto del
giudizio.
Peraltro, la eccessiva durata dei
processi ha conseguenze che vanno ben al di là dei costi, e degli sprechi, di un
servizio inefficiente e si estendono alla fiducia dei cittadini, alla
credibilità delle Istituzioni democratiche, allo sviluppo e alla competitività
del Paese.
La sfiducia mette in discussione
proprio i caratteri fondamentali della Giustizia che sono: la necessarietà della
funzione, la natura di servizio essenziale, la capacità di funzionare come un
sistema aperto che sia parte integrante dello sviluppo e della crescita della
collettività[4].
Se viene a mancare la convinzione
che si possa ottenere Giustizia in tempi certi, con modalità trasparenti ed
efficienti, in misura eguale su tutto il territorio, il rischio è una pericolosa
“fuga” verso forme di giustizia “diverse”, che nel migliore dei casi sono più
vantaggiose per chi dispone di più mezzi e svantaggiano, invece, il cittadino
comune.
La crisi si riflette, poi,
inevitabilmente, sui suoi operatori, che invece di essere visti come tecnici e
professionisti che assicurano un servizio essenziale, vengono percepiti come
titolari di un potere autoreferenziale, chiuso alle ragioni dei cittadini e
della comunità e responsabili di gravi sprechi di risorse, che il Paese, oggi
più che in precedenza, non si può permettere.
Infine, se
Un allungamento dei tempi dei
processi si traduce in un vulnus all’idea stessa di imparzialità, nel pericolo
di dissolvimento di questo fattore di legittimazione, in ultima analisi in un
ulteriore indebolimento della democrazia, accrescendo a dismisura l’impatto
disgregante di singoli episodi patologici.
In un contesto di inefficienza
della giustizia può intervenire anche il passaggio verso l’abuso del processo,
per il raggiungimento di scopi diversi dalla soluzione della lite[5].
Si assiste sempre più spesso,
infatti, ad un fenomeno di distorsione nell’utilizzo del processo, non più come
strumento per risolvere una controversia ed accertare la regola applicabile al
caso concreto, ma piuttosto come strumento di dilazione dei tempi
nell’adempimento di obbligazioni e, ancor peggio, di strumento volto ad
assicurare utilità del tutto estranee alla funzione del processo stesso. Se la
tutela dell’interesse sostanziale è la ragione della attribuzione della potestas
agendi e ne segna il confine, l’esercizio dell’azione in forme eccedenti, o
devianti, rispetto alla tutela attribuita configura abuso del processo e lede il
principio del giusto processo, inteso come risposta alla domanda[6].
L’abuso della situazione
sostanziale, in quanto attuata nel e tramite il processo si risolve in abuso
dello stesso e viola il precetto dell’art. 111 Cost. .
Viceversa un efficiente
funzionamento del sistema giudiziario è idoneo a realizzare un naturale effetto
deflattivo in quanto la preventiva conoscenza di una tale situazione rende più
prevedibile l’esito del processo e scoraggia le iniziative avventate o
temerarie.
3.L’estinzione
del processo per mero decorso del
tempo nel diritto romano.
In tutti i tempi si
è avvertita la necessità di disciplinare i processi in modo da garantirne una
sollecita definizione, essendo un danno sociale che le situazioni giuridiche
restino a lungo incerte e non definite e non potendosi impegnare a lungo gli
organi giurisdizionali sul loro dovere di rendere
giustizia.
Lo strumento
maggiormente utilizzato per tentare di ridurre i tempi processuali è stato
quello dell’estinzione del processo per inattività[7],
che però ha subìto una lunga e complessa evoluzione, di cui si tenterà di
enunciare le tappe fondamentali.
Nelle fonti romane già si parlava
di mors litis o expiratio judicii, in conseguenza di un limite di tempo posto
alla durata del processo, determinato originariamente per gli iudicia legittima
in 18 mesi e per gli iudicia imperio continentur in dodici mesi in relazione
alla durata annuale dell’elezione del pretore[8].
Originariamente, l’azione concessa dal Pretore terminava
con lo scadere dell’anno dei suoi poteri e ciò comportava l’estinzione
delle relative azioni[9].
Ma poi se il Pretore successivo continuava a promettere la medesima azione nel
suo editto, la doveva facilmente consentire a coloro che l’avevano acquisita nel
corso dei poteri del predecessore[10].
Nell’età imperiale tutti i giudizi divennero imperio
continentia, ma i magistrati venivano nominati dall’Imperatore a vita, non più
eletti dal popolo annualmente, e inoltre la litis contestatio perpetuava
l’azione. La lex Iulia del
Teodosio II
stabilì il principio per cui, dopo la litis contestatio, la prescrizione
dell’azione si sarebbe compiuta allo scadere dei trent’anni. Ne derivava una
significativa innovazione, anche se non esplicitata dal legislatore: la litis
contestatio acquistava efficacia meramente interruttiva della prescrizione, che
riprendeva il suo decorso in caso di abbandono della lite. Peraltro, la
disposizione, se regolava in modo pressoché esaustivo la materia delle
prescrizioni, unificandole, non affrontava, però, in maniera specifica il
diverso problema della durata delle liti, e dunque della ‘perenzione
d’istanza’.
Alcuni anni dopo, Valentiniano III, con una Novella del
452, negò alla litis contestatio l’effetto interruttivo sancito da Teodosio:
ratio della norma era evidentemente quella di evitare che, per esempio,
l’interessato promuovesse l’azione nel corso del ventiquattresimo anno senza poi
coltivarla, e che avesse a disposizione altri trent’anni per riproporla. Si
dispose, perciò, che il processo, se veniva cominciato entro i venticinque anni
dalla spettanza dell’azione, doveva comunque essere portato a termine entro il
trentennio, mentre, se aveva inizio dopo i venticinque anni, si accordava una
proroga quinquennale (oltre il trentennio), affinché fosse
definito.
La problematica fu affrontata con maggiore organicità da
Giustiniano al fine di realizzare il contenimento dei tempi processuali, da
perseguire mediante una efficace azione di contrasto nei confronti della
tradizionale funzione preminente rivestita dall’attore nello svolgimento del
processo, e della corrispondente «limitatezza del ruolo del giudice
relativamente alla determinazione della litispendenza».
Giustiniano volle innanzitutto garantire la serietà
delle domande, scoraggiando le citazioni meramente emulative e calunniose;
impose, perciò, all’attore l’assunzione dell’obbligo, nei confronti del
convenuto, di addivenire entro due mesi alla litis contestatio; operò la
diversificazione tra prescrizione dell’azione e perenzione (o estinzione) della
causa. Nel 528 l’Imperatore emanò una importante disposizione, relativa alla
prescrizione delle azioni reali: il decorso del tempo trentennale o
quarantennale, qualificato sia dall’inerzia del titolare che dalla longa
possessio del convenuto, conduceva all’estinzione
dell’azione.
Ancora con riguardo ai giudizi di primo grado,
Giustiniano, nel 529, modificò la legge di Teodosio, elevando a quarant’anni il
termine per la prescrizione delle azioni abbandonate in corso di giudizio. Poi,
un anno dopo, nel 530 d.C., con la celebre costituzione Properandum (definita
«una specie di summa legislativa dei problemi inerenti all’inattività») affrontò
il problema della protrazione dei procedimenti, ponendo la regola che i giudizi
dovessero chiudersi perentoriamente nell’arco del triennio. La disposizione
aveva di mira la restituzione al processo della sua funzione di difesa della
certezza del diritto, mediante la rapida eliminazione delle controversie. Si era
constatato, infatti, che la protrazione delle liti produceva una inaccettabile
situazione di incertezza. Più in particolare, con la lex Properandum
l’Imperatore dispose una durata massima triennale per tutte le cause civili (ad
eccezione dei giudizi in materia fiscale e pertinenti alle funzioni pubbliche),
stabilendo il decorso dei tre anni dalla litis contestatio, con l’espressa
finalità di evitare il rischio che le cause superassero la durata della vita
umana, ‘divenendo quasi eterne’ (fiant paene immortales)[11].
La scaturigine di questa grave disfunzione era da collegarsi alla possibilità,
che fino a quel momento avevano avuto le parti in causa, di regolare i tempi del
procedimento, senza che un concreto potere di direzione del giudice intervenisse
per sventare tali manovre dilatorie. Giustiniano volle quindi introdurre un
sistema idoneo a provocare una rapida decisione della lite, mediante
accorgimenti quali la condanna della parte assente alle spese processuali, o
disposizioni di carattere coercitivo nei confronti del convenuto
contumace.
Giustiniano non affermò chiaramente in che senso il
decorso del termine triennale comportasse l’estinzione del giudizio, ma la
maggioranza della dottrina ritiene che comunque non si verificava l’estinzione
del diritto di azione[12],
salva l’operatività della prescrizione.
Invero, la conseguenza dell’abbandono della lite da
parte dell’attore era costituita dall’assoluzione del convenuto dall’osservanza
del giudizio, (con condanna dell’attore alle spese), quando cioè gli elementi
acquisiti si rivelavano insufficienti a fondare una pronuncia nel merito; e, in
questo caso, è possibile che all’attore fosse riconosciuto il diritto di
riproporre l’azione. La perdita del diritto di riproporre l’azione si verificava
invece, solo quando l’attore abbandonava la lite e il convenuto veniva assolto a
seguito di un processo contumaciale. Tale provvedimento era da intendersi come
definitivo, in quanto l’attore non poteva riproporre l’azione, né interporre
gravame[13].
4.Caratteristiche dell’estinzione del giudizio per
decorso di un triennio dalla litis contestatio nel periodo giustinianeo.
L’estinzione del giudizio di primo grado per decorso del
triennio non aveva carattere generale, in quanto non riguardava le cause penali,
per le quali inizialmente nel diritto romano non era prevista neppure la
prescrizione del reato[14],
e non si estendeva neppure a tutti i giudizi civili, essendone escluse le
cause fiscali e quelle pertinenti alle funzioni
pubbliche; per l’appello poi vi
erano termini più brevi;
L’estinzione del giudizio era collegata non a qualche specifica inattività delle
parti o dell’organo giudicante ma
al semplice fatto obiettivo che la lite non era terminata nel triennio, anche se
di fatto le parti e/o il giudice non erano rimasti inerti;
L’estinzione del giudizio non comportava normalmente la perdita dell’azione, che
poteva riproporsi nei limiti della prescrizione del diritto, che all’epoca era
di durata trentennale o quarantennale.
In quella prima forma l’estinzione del giudizio si
presenta come istituto politico-sociale, piuttosto che giuridico, come
sottolineato da Lodovico Mortara, che ne evidenziò “l’aspetto grossolano e
primitivo ed inconciliabile con le condizioni posteriori di svolgimento del
processo civile e dei rapporti tra l’organo giurisdizionale ed i litiganti”[15].
Giudizio negativo aveva espresso in precedenza anche
Luigi Borsari, rilevando che
“ è fra i più gravi doveri del legislatore preordinare
in guisa gli eventi del processo da occupare il minor tempo possibile; ma non
potrebbe fare di più senza premere di troppo sulla libertà, mettendo in pericolo
i più grandi interessi della giustizia”[16]
.
Invero, una volta che lo Stato
assume come funzione propria ed esclusiva quella di rendere giustizia
(assunzione che avviene nelle società sviluppate gradualmente, vietandosi nel
contempo ai privati di farsi giustizia da sé con il ricorrere a vie di fatto[17])
ne consegue anche il dovere degli organi giurisdizionali (sanzionato penalmente,
disciplinarmente e civilmente[18]) di concludere i relativi giudizi, per
cui una loro eventuale estinzione per decorso del tempo non può che essere connessa
all’inattività delle parti protratta per un congruo periodo di tempo in modo da
desumerne il tacito abbandono e non a quella degli organi giurisdizionali cui
competa il dovere di procedere d’ufficio.
Per cui è da condividere
l’affermazione di S. Satta che considera “inverosimile” l’imposizione a carico
del Giudice di decidere la controversia entro un certo termine pena l’estinzione
del processo[19].
5.La perenzione d’istanza.
A seguito della sistemazione giustinianea, i legislatori
successivi si ispirarono in qualche modo
alla lex Properandum ponendo limiti di tempo, anche più brevi del
triennio, per la conclusione dei giudizi, ma erano termini non sempre osservati,
ritenendosi che le parti potessero di comune accordo prorogarli[20].
Incominciò quindi a delinearsi l’istituto della
“perenzione d’istanza”, che comportava la decadenza dal giudizio per inattività
triennale delle parti, introdotta in Francia da un’ordinanza del 1539 e poi
seguita da altri provvedimenti di identico contenuto[21],
finchè non fu recepita nel codice di procedura civile francese del 1806, ove fu
precisato che la perenzione concerneva tutti indistintamente gli atti del procedimento perento e non aveva luogo di diritto.
I redattori di quel codice ritennero di adeguarsi al
diritto giustinianeo, ma in realtà costruirono un istituto nuovo in quanto
considerarono la perenzione come effetto dell’abbandono tacito dell’istanza da
parte dell’attore (che ne doveva sopportare le spese) purchè il convenuto
manifestasse la propria volontà conforme mediante la domanda diretta a far
dichiarare la perenzione. Per cui il codice di procedura civile francese non
ammise che la perenzione operasse di diritto ed al concetto giustinianeo del
limite di tempo imposto al giudice per la definizione del giudizio sostituì una
specie di sanzione per l’inattività delle parti protratta per un triennio,
esigendosi solo che uno dei litiganti facesse sapere al giudice, almeno una
volta ogni tre anni, che intendeva mantenere vivo il processo [22].
Il modello francese
fu seguito dagli Stati italiani prima dell’unificazione (con la sola eccezione
del codice di procedura civile toscano che riprodusse sostanzialmente la lex
Properandum), ma se ne discostò il codice ginevrino, che prescrisse
l’operatività di diritto della
perenzione, subordinandola però all’eccezione di parte e con le spese a
carico di entrambi i litiganti [23].
I codici sardi
seguirono il codice ginevrino e lo stesso fece il codice di procedura civile
italiano del 1865, che dedicò alla perenzione d’istanza “se nel corso di tre
anni non siasi fatto alcun atto di procedura” gli articoli 338-342, con
riduzione del periodo di tempo della metà per giudizi commerciali (art. 887), ad
un anno per i giudizi davanti al pretore (art. 447) e a sei mesi per quelli davanti al
conciliatore (art. 464), precisandosi che la perenzione non estingueva l’azione,
né gli effetti delle sentenze pronunciate, né le prove che risultassero dagli
atti, ma rendeva nulla la procedura, su eccezione della parte che intendeva
approfittarne purchè avanzata espressamente prima di ogni altra
difesa.
Il Mortara rilevò
che la perenzione d’istanza colpisce il processo e non l’azione che può essere
riproposta nei limiti della prescrizione (soggetta all’epoca nell’art. 2135 cod.
civ.. del 1865 ad un periodo di trenta anni); che la perenzione opera di diritto
e di conseguenza può essere opposta sia dall’attore che dal convenuto; che la
perenzione ha origine dalla volontà delle parti, per cui non possono rientrare
nella perenzione gli intervalli di tempo e fasi di giudizio in cui alle parti
non è richiesto di eseguire alcun atto per attestare la loro volontà di tenere
in vita l’istanza, nonchè gli intervalli che per necessità di legge sono
assegnati all’opera del giudice (con la conseguenza che non vi poteva essere
perenzione nel giudizio di Cassazione e nel processo fallimentare); che gli atti
di procedura che interrompono la perenzione comprendono tutti gli atti delle
parti che per la loro funzione siano idonei a mantenere pendente la causa,
mantenendo in attività il rapporto processuale senza distinguere dal punto di vista della loro validità o
nullità (salvi i casi di nullità non sanabile)[24].
6.Estensione della
regola della perenzione d’istanza.
L’estensione
avvenne inizialmente con la legge
26 maggio 1887 n.4501, per le istanze davanti alla Corte dei
conti nei casi in cui per il corso di tre anni non fosse stata presentata
domanda di fissazione di udienza o non sia stato fatto alcun altro atto di
procedura, con esclusione dei giudizi di conto la cui presentazione costituiva
l’agente dell’amministrazione in giudizio[25]
e perciò vi è il dovere del giudice di procedere
d’ufficio.
Istituita
Successivamente, con
la legge 7 marzo 1907 n. 62, nell’istituire
La perenzione fu
estesa poi anche ai giudizi avanti al Tribunale delle acque con l’art. 36
del Regolamento di procedura 24
gennaio 1917 n.85 che la fissava inizialmente nel periodo di un anno[28].
7.La perenzione nel
giudizio amministrativo prima dell’istituzione dei TAR.
Il principio
processuale civile secondo cui la perenzione non estingue l’azione, fermo
restando la prescrizione del diritto da far valere, è applicabile anche nel
giudizio amministrativo ma con adeguamento alle caratteristiche di esso,
considerando che le posizioni
soggettive tutelate in tale processo sono normalmente di interesse legittimo e
solo eccezionalmente di diritto soggettivo (pur dovendosi riconoscere che
progressivamente le situazioni di diritto soggettivo si sono notevolmente
incrementate con l’estensione delle materie di giurisdizione esclusiva). Per
cui, se il diritto non è prescritto, il ricorso può essere riproposto nei limiti
della prescrizione, ma se si tratta di interesse legittimo l’azione di
annullamento è comunque consumata in quanto dichiarato perento il giudizio il
ricorso non può essere ripresentato per decorrenza del termine perentorio di
impugnativa[29].
La particolarità
della perenzione nel giudizio amministrativo (il cui periodo venne ridotto da
tre anni a due anni dall’ art.
Di conseguenza,
viene a mancare il principale argomento che era stato addotto dai fautori della
teoria soggettiva della perenzione nel processo civile (che ne rinvenivano
il fondamento nella presunzione di
una concorde volontà delle parti di abbandono della causa), essendo comunque prevalente nel processo
amministrativo la teoria oggettiva che riconduce la perenzione all’interesse
pubblico ad una sollecita definizione del giudizio, al fine di evitare che le
controversie in questa materia si protraggano senza limiti temporali[32].
Inoltre, anche se a
fatica, è stato chiarito che la perenzione non può essere ammessa in quei
procedimenti nei quali non competa alle parti lo svolgimento di qualche attività
per la prosecuzione del processo, per essere nelle competenze esclusive
dell’organo giudiziario l’impulso processuale. Invero, in un primo tempo
l’orientamento del Consiglio di Stato era stato nel senso che il termine di
perenzione decorresse dal giorno di presentazione della domanda di fissazione di
udienza da parte del ricorrente per
l’ipotesi in cui nel prescritto triennio (poi biennio) non avesse compiuto alcun
atto di procedura e non fosse
intervenuto da parte dell’organo giurisdizionale il provvedimento di fissazione
dell’udienza[33].
Tale restrittivo orientamento venne immediatamente criticato da parte della
dottrina, la quale evidenziò che ammettere la perenzione anche quando la parte
avesse compiuto tutti gli atti di procedura richiesti dalla legge (presentando
anche la domanda di fissazione di udienza) e l’inerzia fosse solo dell’organo
giurisdizionale significherebbe creare un istituto simile a quello giustinianeo
rimettendo all’arbitrio del giudice la cessazione del processo, che
assolutamente contrasterebbe con quello voluto dal nostro legislatore[34].
Per cui oggi è pacifico che in tanto la domanda di fissazione di udienza perde
la propria efficacia ed inizia a
decorrere un nuovo termine di perenzione in quanto l’udienza venga fissata con
le prescritte modalità, occorrendo che siano stati consumati gli effetti
dell'istanza di fissazione d'udienza presentata [35], pur in mancanza di
ulteriori atti procedurali[36].
Peraltro, una volta
tenuta l’udienza, va presentata una nuova domanda di fissazione di udienza nel
caso di cancellazione della causa dal ruolo o nel caso di decisione istruttoria,
della cui esecuzione (o mancata
esecuzione)
Diversa deve
ritenersi invece l’ipotesi del rinvio della causa a data da destinarsi, la quale
lascia intatta la domanda di fissazione precedente e solo ne rinvia la
discussione ad altra data[38].
Tale conclusione è implicitamente confermata dall’art. 71,comma 1, del Codice
del processo amministrativo, che prescrive la presentazione di una nuova domanda
di fissazione di udienza solo per l’ipotesi della cancellazione della causa dal
ruolo.
E’ stato invece fin
dall’inizio ben chiaro che non potevano essere assoggettati a perenzione i
ricorsi da trattarsi in camera di consiglio[39]
(ad es., ricorsi avverso il diniego di autorizzazione a stare in giudizio per
gli enti morali ed in materia di spedalità e ricoveri ed ora v. art. 87 del Codice del processo
amministrativo)[40]
o per i quali vi era impulso
d’ufficio non sussistendo, dopo il deposito del ricorso, alcun atto di procedura
da compiere dalle parti (V. ora artt.119 per speciali controversie e art 129 per
il contenzioso elettorale del codice del processo
amministrativo).
Ad evitare la
perenzione nel giudizio davanti al Consiglio di Stato è sufficiente (fino
all’introduzione del Codice del processo amministrativo) il susseguirsi di un
atto di procedura almeno ogni due anni (oltre la sospensione feriale di cui alla
L. n.742/1969[41]),
ma per la definizione effettiva del giudizio è indispensabile la domanda di
fissazione di udienza, salvi i casi di fissazione d’ufficio[42].
Per il concetto di
atto di procedura idoneo ad interrompere il periodo di perenzione, la
giurisprudenza amministrativa e la dottrina, sia pure con tentennamenti, si sono
sostanzialmente allineate a quelle ordinaria sull’analogo istituto del codice di
procedura civile del 1865, sottolineando che in quanto atti diretti al giudice e
influenti sul corso dell’azione potevano considerarsi atti di procedura il
deposito di documenti attinenti alla causa[43]
o la presentazione di una memoria o di un mandato ad altro avvocato in
considerazione dei criteri di larghezza ed equità sempre applicati in materia[44],
nonchè il deposito di un ricorso incidentale, l’istanza per la notifica per
pubblici proclami, la richiesta di mezzi istruttori, gli atti procedurali posti
dall’interveniente[45].
Mentre non sono tali la richiesta di un certificato alla Segreteria[46]e
la domanda di ammissione al gratuito patrocinio presentata in corso di causa[47].
Per quanto concerne la domanda cautelare proposta separatamente dal ricorso, è
da riconoscerle la natura di atto procedura[48],
ma essa non può equivalere a domanda di fissazione di udienza essendo
l’incidente cautelare una fase autonoma
e distinta rispetto al giudizio principale[49].
Relativamente alle
formalità della domanda di fissazione di udienza è stato precisato che essa può
essere presentata da qualunque parte costituita (anche dall’interventore) ma non
è idonea quella formulata nel contesto dell’atto introduttivo, occorrendo invece
un’autonoma e separata istanza[50],
la quale deve contenere segno di ricezione da parte dell’Ufficio ai sensi
dell’art. 51 R. D. n.642/1907[51].
8. L’estinzione del
giudizio secondo il codice di procedura civile approvato con R.D. n.1443/1940 e
le successive modificazioni.
All’epoca in cui la
dottrina andava maturando la riforma del codice procedura civile del 1865,
l’istituto della perenzione continuava ad avere sempre più numerosi avversari,
perché il modo come era regolato, richiedendo la produzione di un semplice atto
di procedura ogni tre anni, aveva provocato notevoli ritardi nella conclusione
dei processi civili in considerazione del deplorevole abuso dei rinvii a
ripetizione concordati tra le parti e quindi concessi dal Giudice. Fu perciò
avvertita dal nuovo legislatore la prevalenza dell’interesse pubblico alla
sollecita definizione del giudizio verso la sua meta naturale, che è la
sentenza; non consentendosi più alle parti di ritardare con la loro inerzia il
corso del procedimento, anche se in caso di controversia su diritti disponibili
non può essere loro negato il diritto di farlo cessare per rinunzia o inattività
delle parti[52].
Per cui all’istituto
della perenzione d’istanza del codice procedura civile del 1865 subentrò
l’estinzione per inattività delle parti di cui all’art. 307 del c.p.c. del 1940,
il quale nel prevedere le specifiche cause di inattività (per mancata
rinnovazione, prosecuzione, riassunzione e integrazione del giudizio),
attribuiva al Giudice il potere di dichiarare anche d’ufficio l’estinzione del
processo, in coerenza con la tendenza di quel legislatore a rafforzare i poteri
di direzione del Giudice sull’andamento del processo civile[53]
.
Peraltro,
nell’impostazione del codice di procedura civile del 1940, il sistema
dell’estinzione era alquanto rigido, poiché essa si verificava immediatamente in
seguito alla omissione di determinati atti ed era rilevabile d’ufficio.
Ciò ebbe a suscitare
vivaci proteste specie nella pratica forense, poiché in sostanza fin dal suo
nascere il processo era esposto alla continua minaccia della prematura fine,
essendo sanzionabile qualsiasi svista o ritardo[54].
Per cui con la legge
14 luglio 1950, n. 581, nota come “novella del ‘50” vennero introdotti notevoli
temperamenti, modificando così, sotto vari aspetti, le norme disciplinatrici
dell’istituto ed in particolare fu sottratta la dichiarazione di estinzione
all’officium judicis, facendone oggetto di una eccezione che la parte
interessata doveva sollevare prima di ogni altra difesa.
Ma poi con l’art.
46, comma15 lett. c, legge 18
giugno 2009, n.69, i poteri di direzione del Giudice sul processo civile sono
stati di nuovo intensificati e vi è stato sostanzialmente un ritorno alla
formulazione del 1940, prevedendosi che “l’estinzione opera di diritto ed è
dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con
sentenza del collegio”.
9.La perenzione
nella legge n.1034/1971, istitutiva dei TAR.
Nonostante le
critiche mosse alla perenzione d’istanza nel processo civile, tale istituto è
stato mantenuto fermo dalla legge n.1034/1971, che però si è limitata a
ridisciplinarlo soltanto nel giudizio di primo grado, statuendo negli 23, 25 e
29 quanto segue:
-“la discussione del
ricorso deve essere richiesta dal ricorrente ovvero dall’amministrazione o da
altra parte costituita con apposita istanza da presentare entro il termine
massimo di due anni dal deposito del ricorso”;
-l’istanza di
fissazione dell’udienza deve essere rinnovata dalle parti o dall’amministrazione
dopo l’esecuzione dell’istruttoria”;
-“i ricorsi si
considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di
procedura”;
-“al giudizio di
appello si applicano le norme che regolano il processo davanti al Consiglio di
Stato”.
Viene introdotta,
perciò, una disciplina parzialmente differenziata per il giudizio di primo
grado, dal momento che l’art. 23, comma 1°, della legge TAR ricollega la
perenzione direttamente alla mancata presentazione della domanda di fissazione
nel biennio dal deposito del ricorso, ancorchè in tale periodo di tempo vengano
compiuti degli atti di procedura[55].
Peraltro, la legge istitutiva dei TAR, nel prevedere una nuova domanda di
fissazione di udienza dopo l’esecuzione dell’istruttoria, non ha precisato che
la rinnovazione debba avvenire nel biennio, con la conseguenza che riprende
vigore dopo l’esecuzione dell’istruttoria in primo grado, in considerazione
dell’eccezionalità delle norme che stabiliscono decadenze, il principio vigente
in sede di appello, riconfermato dall’art. 25 legge TAR, in base al quale è
sufficiente ad impedire la perenzione qualsiasi atto di procedura
infrabiennale[56]
.
Peraltro il
principio ex art. 25 legge TAR (abbandono dei ricorsi se nel corso di due
anni non sia compiuto alcun atto di procedura) in tanto può operare in
quanto non sia presente anche il
dovere delle parti di presentare domanda di fissazione di udienza entro il
biennio, che una volta assolto trasferisce l’impulso processuale nella
disponibilità del Giudice. Con la conseguenza che la perenzione
ex art. 25
Legge TAR può intervenire nei soli
casi in cui, esauriti gli effetti
della domanda di fissazione originaria (come nell’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo),
l’impulso processuale torni alle parti, che hanno l'onere, per evitare la
perenzione, di attivarsi mediante "nuovi atti di procedura"[57]
10.La nuova
perenzione di cui all’art. 9 legge n.205/2000, come modificato dall’art. 54 D.
L. n.112/2008 (convertito dalla L. n.133/2008) e ulteriormente integrato
dall’art.
L’art. 9, 2° comma, della L. n. 205/200 ha
disposto quanto segue:
“A cura della segreteria è notificato alle
parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei
ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti
di presentare nuova istanza di fissazione dell'udienza con la firma delle parti
entro sei mesi dalla data di notifica dell'avviso medesimo. I ricorsi per i
quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il
decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di
cui all'ultimo comma dell'art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034,
introdotto dal comma 1 del presente articolo”.
E’ stata prevista, perciò, per la prima
volta, ferma restando la tradizionale perenzione biennale, una particolare forma
di perenzione di carattere misto, prendendo in considerazione da una parte il
decorso di un determinato periodo di tempo dal deposito del ricorso (dieci anni,
poi ridotto a cinque anni dall’art. 54 D.L n.112/2008, convertito dalla L.
n.133/2008), che prescinde dall’eventuale attività sollecitataria svolta delle
parti (alla stregua della perenzione giustinianea), e dall’altra la mancata
presentazione a cura delle parti ricorrenti di una nuova domanda di fissazione
di udienza, con la firma delle parti stesse, nel termine perentorio di sei mesi
dalla notifica di apposito avviso a cura della Segreteria.
Mentre il periodo di perenzione tradizionale (biennale
dal 1950 ed ora annuale) è pacificamente sottoposto alla sospensione feriale di
cui alla L. n.742/1969[58],
invece il decennio (poi quinquennio) di pendenza del ricorso, che
costituisce il presupposto per
l’invio dell’avviso di perenzione da parte della Segreteria, fuoriesce dalla
nozione di termine processuale, in quanto la norma prende in considerazione un
determinato lasso di tempo in sè senza richiedere l’intervento di un particolare
atto di procedura[59].
L’istituto della sospensione feriale ritorna poi applicabile al periodo
semestrale concesso alle parti ricorrenti per il rinnovo della domanda di
fissazione di udienza[60]
, che abbisogna della sottoscrizione anche del difensore[61].
.
Nonostante la norma parli di “notifica”, l’avviso di
Segreteria (che deve recare l’indicazione del ricorso e l’avvertenza che entro
sei mesi, tenuto conto della sospensione feriale, deve essere rinnovata la
domanda di fissazione di udienza) può essere spedito -come per il decreto di
fissazione di udienza (art.
Occorre sottolineare
che il requisito (mero decorso di un determinato periodo di tempo,
sufficientemente lungo, dal deposito de ricorso) non potrebbe costituire il
presupposto unico per l’estinzione del giudizio[62], in quanto in tal modo verrebbe ad essere
violata la garanzia del diritto di azione ex art.24 Cost., che non
si esaurisce al momento dell’accesso al processo, ma va configurato, anche in
virtù dell’art.111 Cost. che ne
assicura la ragionevole durata, come diritto ad ottenere una tutela effettiva in
tempi ragionevoli mediante una
pronuncia sul merito della controversia[63].
Correttamente perciò è stato
individuato un secondo requisito che ricollega sostanzialmente all’inattività
delle parti ricorrenti protratta per sei mesi, a seguito di specifico avviso
della Segreteria, l’estinzione per perenzione del giudizio. Il che appare
conforme agli orientamenti della Corte costituzionale, la quale ha escluso
l’esistenza in via di principio sul piano costituzionale di un divieto di
introdurre nel processo un onere generalizzato di istanza di trattazione o
fissazione di udienza, con comminatoria di estinzione del processo decorso un
periodo ragionevole di inattività processuale, salvo a verificare se in concreto
siano stati introdotti adempimenti
vessatori , di difficile osservanza o insidiose complicazioni processuali tali
da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di
difesa o lo svolgimento di attività processuale, ovvero modalità assolutamente
irragionevoli, tenuto conto dello specifico sistema processuale[64].
La
disposizione appena citata delinea in sostanza un meccanismo generale di
verifica della persistenza dell’interesse alla decisione ai fini dello
smaltimento dell’arretrato, rimettendo al ricorrente la manifestazione di una
rinnovata volontà di proseguire il processo, attraverso il deposito di una
"nuova istanza" di fissazione dell'udienza di discussione, che rechi, oltre alla
sottoscrizione del difensore (come per l'ordinaria domanda di fissazione
dell'udienza), anche "la firma delle parti ricorrenti "[65].
Peraltro, la
disposizione che richiede la sottoscrizione della nuova domanda di fissazione
anche da parte del ricorrente ha destato nella dottrina dubbi di
costituzionalità, in quanto verrebbe a gravare in modo vessatorio la parte, nel
cui ricorso era già presente una domanda di fissazione di udienza, richiedendo
inutilmente una conferma dell’interesse alla decisione, con aggravamento della
difficoltà nei ricorsi collettivi in quanto con il passare degli anni si
affievoliscono i rapporti tra il difensore ed i soggetti patrocinati[66].
La giurisprudenza ha chiarito che
il legislatore ha voluto assicurare, per evidenti motivi di economia dei mezzi
processuali, che gli strumenti di tutela non siano inutilmente forniti per la
trattazione di cause per le quali non residua ulteriore interesse. Per cui,
essendo presumibile che cause pendenti da lungo tempo abbiano perso incidenza
sugli interessi delle parti, ha imposto di assicurare al giudice l'attuale
utilità del suo intervento. Atteso peraltro che tale valutazione spetta in primo
luogo alla parte sostanziale, che dispone dell'interesse dedotto in giudizio, ha
imposto a quest'ultima di dichiarare personalmente la permanenza dell'interesse
alla decisione, mediante una nuova domanda
di fissazione dell'udienza di trattazione[67].
Ha riconosciuto al difensore di
sottoscrivere personalmente la nuova domanda di fissazione di udienza almeno nel
caso di procura speciale con il conferimento del relativo specifico potere, non
essendo sufficiente il mandato difensivo originario [68].
Né appare condivisibile la
enunciata preoccupazione con riferimento ai ricorsi collettivi, i quali
costituiscono in effetti impugnative autonome tra loro connesse ex art. 103
c.p.c., che vengono riunite in un
solo ricorso solo per esigenze di economia processuale, ferma restando che per
ciascun ricorrente debbono sussistere i presupposti per ottenere una decisione
di merito. Invero, nel
ricorso collettivo le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti rispetto
all'atto impugnato o al rapporto controverso non si comunicano agli altri. È
dunque possibile che alcuni ricorrenti abbiano interesse alla prosecuzione del
giudizio e decidano quindi di firmare l'istanza di fissazione di udienza ex art.
9, secondo comma, L. n. 205 del 2000 ed altri, invece, di non coltivare più il
giudizio[69].
Peraltro, nell’assicurare l’applicazione generalizzata
della regola della esplicita manifestazione di interesse delle parti
sostanziali, la giurisprudenza ha inizialmente affermato che per evitare la
perenzione decennale (poi quinquennale) la nuova domanda di fissazione di
udienza doveva essere sottoscritta dal rappresentante legale
dell’Amministrazione pubblica ricorrente anche nel caso di soggetti
istituzionalmente difesi dall’Avvocatura dello Stato[70].
Tale tesi è stata opportunamente rivista in considerazione del fatto che
l’Avvocatura dello Stato espleta l’attività istituzionale di rappresentanza e
difesa in giudizio senza alcun mandato specifico, per cui deve ritenersi
legittimata a presentare una nuova domanda di fissazione di udienza allo scopo
di evitare appesantimenti inutili[71].
La
nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta dalle parti
ricorrenti, per cui è inidonea quella con sottoscrizione dell’ interventore o delle parti resistenti (compresa
l’amministrazione pubblica nei cui confronti è rivolta l’impugnativa)[72].
Peraltro, occorre tener conto del
ricorso incidentale, il quale può assumere valenza autonoma nel giudizio
amministrativo nel senso che può non essere subordinato all’accoglimento del ricorso
principale e quindi per lo meno in tal caso il ricorrente incidentale ha titolo
a ricevere il preavviso di perenzione da parte della Segreteria, potendo
presentare per proprio conto la domanda di fissazione di udienza[73].
A conferma della qualificazione di parte ricorrente del “ricorrente incidentale”
va richiamata la recente normativa sul contributo unificato, che ha esteso il
relativo onere contributivo anche a carico del ricorrente incidentale che
introduca domande nuove ai sensi dell’art. 3, comma 11°, dell’allegato 4 del
Codice del processo amministrativo, approvato con il D. L.vo n.104/2010.
Inoltre, nel
caso che l’impugnativa sia proposta da una società, la nuova domanda di fissazione di
udienza va sottoscritta dagli attuali amministratori e non da quelli che hanno
proposto l'originario ricorso, se nelle more non ne abbiano più la
rappresentanza [74].
La giurisprudenza, con
orientamento discutibile, aveva ritenuto che non poteva essere deciso un ricorso, per il
quale era stata fissata l’udienza di merito, nel caso in cui esso fosse stato
depositato da oltre 5 anni e non risultasse l’adempimento della nuova domanda di
fissazione di udienza di cui all’art. 9 della legge n.205/2000[75].
Ma poi è intervenuto l’art.
Per
cui deve ritenersi
che, nel caso in cui il ricorso ultraquinquennale giunga alla discussione, non
sia necessario attivare il procedimento diretto ad acquisire le dichiarazioni
personali delle parti ricorrenti, ma sia sufficiente una manifestazione di
interesse resa dalla difesa di una qualunque delle parti costituite.
11. Le perenzioni nel Codice del processo
amministrativo, approvato con il D. L.vo
n.104/2010.
Il Codice del
processo amministrativo ha in qualche modo tenuto presente l’enorme contenzioso
pendente in primo grado (circa 511.000 ricorsi) ed in appello (circa 23.000
ricorsi in Consiglio di Stato ed
Le misure
ordinarie sono:
a)perenzione
annuale
-prevista, implicitamente, per
effetto del dovere a carico delle parti costituite di chiedere la fissazione
dell’udienza con apposita istanza, non revocabile, da presentare entro il
termine massimo di un anno dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della
causa dal ruolo (art.71, comma1, del Codice);
-comminata espressamente se nel
corso di un anno non sia compiuto
alcun atto di procedura su iniziativa delle parti costituite. Il termine non
decorre dalla presentazione dell’istanza di cui all’ articolo
71, comma 1, e finché
non si sia provveduto su di essa, salvo quanto previsto dall’ articolo
82 (art.81 del Codice).
Dette disposizioni,
anche se ricalcano gli art. 23,1° comma, e 25 legge TAR, in sostanza introducono
un istituto nuovo in quanto:
-vengono stabilite
le medesime regole sia per il giudizio di primo grado che per quello di appello per effetto
del rinvio interno operato dall’art. 38 del Codice;
-per ottenere la
pronuncia collegiale sulla domanda cautelare è indispensabile la presentazione della domanda di
fissazione di udienza (come già avveniva per prassi nel precedente regime) ,
salvo che essa debba essere fissata d’ufficio (art. 55, comma 4°, del Codice);
-viene preclusa la
facoltà di revocare la domanda di fissazione di udienza (in quanto nel regime
precedente tale revoca aveva provocato inconvenienti principalmente nel caso di
accoglimento del’istanza cautelare);
-viene ridotto ad
un anno il termine della presentazione della domanda di fissazione di udienza
con decorrenza dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal
ruolo (per adeguarlo al termine annuale di perenzione);
-viene precisato,
in adesione alla giurisprudenza prevalente, che il termine annuale per il
compimento di almeno un atto di procedura, non decorre una volta presentata la
domanda di fissazione di udienza e finchè non si è provveduto su di essa, salva
l’ipotesi della perenzione dei ricorsi ultraquinquennali di cui all’art.
82;
-non è riprodotta
la disposizione che stabiliva il rinnovo della domanda di fissazione di udienza
dopo l’esecuzione dell’istruttoria (art.23,comma 6° legge TAR) in quanto ora con
norma applicabile a tutte le controversie è stabilito che in caso di ordinanza
collegiale istruttoria occorre indicare contestualmente la data della successiva
udienza (V. art. 65,comma 2°, del Codice).
Essendo un istituto
che si fonda sulla mancanza per un anno di atti di procedura o della domanda di
fissazione di udienza, la perenzione annuale non può che decorrere dal 16
settembre 2010 (entrata in vigore del Codice) e quindi si applica solo ai ricorsi depositati da tale data
in poi.
Inoltre, in tanto
sussiste la perenzione annuale in quanto vi sia, come già avveniva nel
precedente regime, il dovere delle parti di presentare la domanda di fissazione
di udienza; il che comporta la sua inoperatività per i ricorsi che vanno decisi
in camera di consiglio (V. art. 87 del Codice) e per quelli per i quali è
prescritta la fissazione d’ufficio dell’udienza di merito (V art.85, comma 8°,
art.120, commi 6° ed 11°, art.125, comma 1°, art. 129, commi 6° e 9°,
art.130,comma 2°, art.131 ed art.132,, del Codice).
Il termine annuale
di perenzione è dimezzato nei riti abbreviati di determinate materie (V. art.119
comma 2° , del Codice) e sia l’anno che il semestre, in quanto termini
processuali, sono soggetti alla sospensione
feriale.
Occorre infine
rilevare che una volta presentata la domanda di fissazione di udienza entro un
anno dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo ai
sensi dell’art.71, 1° comma, del Codice, la regolazione dell’iter processuale è
demandata all’iniziativa del Giudice e perciò non può intervenire perenzione
annuale, che presuppone un’inattività imputabile alle parti.
Ma si innesta a
questo punto il problema del coordinamento con l’art.81 del Codice, che sancisce
la perenzione del ricorso per difetto di un atto di procedura
infrannuale.
La problematica è
analoga a quella emersa sotto il precedente regime con gli artt. 23,comma 1°, e
25 legge TAR.
La conclusione da
preferire, al fine di evitare appesantimenti irragionevoli, è che la perenzione
per mancanza di un atto di procedura nell’anno non può che valere per le ipotesi
(con andamento anomalo dell’iter processuale) in cui l’iniziale domanda di
fissazione dell’udienza esaurisca i suoi effetti e conseguentemente l’onere di
impulso processuale viene di nuovo a ricadere sulle parti e non vi sia il dovere
di presentare una nuova domanda di fissazione di udienza entro l’anno[77].
Tra tali ipotesi anomale non rientra più il caso della cancellazione della causa
dal ruolo, la quale comporta ora per le parti la necessità di rinnovare la
domanda di fissazione dell’udienza entro l’anno, che rende inutile l’obbligo di
compiere un atto di procedura infrannuale.
b)perenzione per i
ricorsi ultraquinquennali.
L’art. 82 del
codice prevede quanto segue:
“1.Dopo il decorso di cinque anni
dalla data di deposito del ricorso, la segreteria comunica alle parti costituite
apposito avviso in virtù del quale è fatto onere al ricorrente di presentare
nuova istanza di fissazione di udienza, sottoscritta dalla parte che ha
rilasciato la procura di cui all’articolo
24 e dal suo difensore, entro centottanta giorni dalla
data di ricezione dell’avviso. In difetto di tale nuova istanza, il ricorso è
dichiarato perento.
2. Se, in
assenza dell’avviso di cui al comma 1, è comunicato alle parti l’avviso di
fissazione dell’udienza di discussione nel merito, il ricorso è deciso qualora
il ricorrente dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere
interesse alla decisione; altrimenti è dichiarato perento dal presidente del
collegio con decreto.”
Le citate
disposizioni riproducono, con alcuni aggiustamenti, la perenzione dei ricorsi
ultraquinquennali di cui all’art. 9, comma 2°, L. n.205/2000 e successive
modificazioni. Per cui, è introdotta a
regime nel Codice la verifica
della persistenza dell’interesse alla decisione dei ricorsi depositati da oltre
cinque anni ai fini dello smaltimento dell’arretrato[78].
Ferme restando
le considerazioni di carattere generale formulate nel par.10, si segnalano i
seguenti aspetti:
-l’avviso
della Segreteria ex art.82 del Codice concerne i ricorsi che hanno maturato
cinque anni dal deposito, che può essere intervenuto sia prima che dopo il 16
settembre 2010 (data di entrata in vigore del Codice). Invero l’art. 82 è
senz’altro applicabile ai ricorsi depositati dopo il 16 settembre 2010 ma,
avendo per presupposto unicamente la pendenza quinquennale di un ricorso, ciò
vale anche per i ricorsi depositati prima dell’entrata in vigore del Codice,
tenuto conto anche della
disposizione transitoria di cui all’art. 2 dell’Allegato 3 del Codice, la quale
prevede che “per i termini che sono in corso alla data dell’entrata in vigore
del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”, tra cui
appunto l’art. 9,comma 2°, L. n.205/2000 e successive modificazioni. Tanto è
vero che detto art. 9 non rientra tra le ulteriori disposizioni abrogate
dall’art.4 dell’Allegato 3 del Codice.
-è stato
precisato che l’avviso è “comunicato”, alle parti costituite, mentre prima era
stato adoperato impropriamente il termine “notifica”;
- è stato
precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta
dalla parte ricorrente “che ha rilasciato la procura di cui all’art.
-è stato
precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere sottoscritta
anche dal “difensore”, in conformità all’orientamento prevalente della
giurisprudenza precedente[79];
-è stato
precisato che la nuova domanda di fissazione di udienza deve essere presentata
entro centottanta giorni dalla data di ricezione dell’avviso, invece dei sei
mesi previsti precedentemente, ad evitare contestazioni sul calcolo del
termine;
-è stato
precisato, infine, che in caso di avvenuta fissazione dell’udienza di merito ed
in assenza del’avviso della Segreteria, il soggetto legittimato a dichiarare
l’interesse alla decisione, anche in udienza a mezzo del difensore, è solo la
parte ricorrente, mentre prima la legittimazione era estesa in tale particolare
ipotesi a tutte le parti costituite.
c)perenzione transitoria per i ricorsi ultraquinquennali
pendenti alla data del 16 settembre 2010.
L’art.
1 delle norme transitorie dell’allegato 3 del Codice prevede quanto
segue:
“1. Nel
termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice, le
parti presentano una nuova istanza di fissazione di udienza, sottoscritta dalla
parte che ha rilasciato la procura di cui all’ articolo 24 del codice e dal suo
difensore, relativamente ai ricorsi pendenti da oltre cinque anni e per i quali
non è stata ancora fissata l’udienza di discussione. In difetto, il ricorso è
dichiarato perento con decreto del presidente.
2. Se
tuttavia, nel termine di centottanta giorni dalla comunicazione del decreto, il
ricorrente deposita un atto, sottoscritto dalla parte personalmente e dal
difensore e notificato alle altre parti, in cui dichiara di avere ancora
interesse alla trattazione della causa, il presidente revoca il decreto
disponendo la reiscrizione della causa sul ruolo di
merito.
3. Se, nella
pendenza del termine di cui al comma 1, è comunicato alle parti l’avviso di
fissazione dell’udienza di discussione, il giudice provvede ai sensi
dell’articolo 82,comma 2, del codice.”
Tale perenzione transitoria è una
novità del Codice in quanto vengono sottoposti a verifica di persistenza di
interesse i ricorsi pendenti da oltre cinque anni alla data del 16 settembre
2010 e per i quali non è stata ancora fissata l’udienza di discussione, senza il
previo avviso della Segreteria e perciò in via automatica.
La persistenza di interesse va
manifestata almeno da una della parti costituite mediante una nuova domanda di
fissazione di udienza, sottoscritta dalla parte e dal suo difensore, entro 180
giorni dal 16 settembre 2010 e cioè entro il 15 marzo
2011.
In difetto di tale nuova domanda
al 16 marzo 2011, il ricorso va dichiarato perento con decreto
monocratico.
Peraltro, in via recuperatoria è
consentito solo alla parte ricorrente (principale ed incidentale con posizione
autonoma) di dichiarare di avere ancora interesse alla decisione depositando,
entro 180 giorni dalla comunicazione del decreto di perenzione, atto
sottoscritto dalla parte medesima e dal suo difensore e notificato alle altre
parti. La notifica è giustificata nell’ambito di detto procedimento dalla
necessità di riaprire il giudizio e consentire alle altre parti di difendersi
anche con riferimento alla validità della dichiarazione di persistenza di
interesse.
In quest’ultimo caso il
Presidente revoca (con altro decreto monocratico) il decreto di perenzione,
disponendo la reiscrizione della causa nel ruolo di
merito.
Se nella pendenza del termine
della nuova domanda di fissazione di udienza è comunicato alle parti l’avviso di
fissazione di udienza, si applica la regola di cui all’art. 82,comma 2, del
Codice e perciò il
soggetto legittimato a dichiarare l’interesse alla decisione, anche in udienza a
mezzo del difensore, è solo la parte ricorrente.
d)perenzione
biennale ad esaurimento.
Come è noto,
prima dell’approvazione del Codice, la perenzione del ricorso già operava di
diritto in base al dato fattuale del mancato compimento di atti di procedura per
il periodo di due anni (artt. 40, secondo comma, del t.u. n. 1054/1924; 45 del
r.d. n. 642/1907; 25 della legge TAR) o per la mancata presentazione della
domanda di fissazione di udienza entro due anni dal deposito del ricorso
(art.23, comma 1°, legge TAR) e poteva essere rilevata d’ufficio[80].
Con la conseguenza che i ricorsi
che si trovano in queste condizioni al 16 settembre 2010 sono comunque
suscettibili di perenzione biennale sulla base della precedente disciplina, in
considerazione del carattere dichiarativo del decreto di perenzione adottato
successivamente a tale data.
e)perenzione
transitoria per effetto della disposizione di cui all’art. 2 dell’Allegato 3 del
Codice
Tale
disposizione prevede che “per i termini che sono in corso alla data dell’entrata
in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”, per
cui vanno dichiarati perenti tutti i ricorsi, per i quali il termine di
perenzione, in corso al 16 settembre 2010, dovesse maturarsi dopo tale data, con
applicabilità ai ricorsi suscettibili di perenzione biennale e di perenzione
ultraquinquennale con i relativi periodi di tempo ancora incompleti.
12.Osservazioni
conclusive.
Sono state
delineate nel precedente paragrafo le varie ipotesi di perenzione previste dal
Codice, per cui il problema che si pone in sede applicativa, principalmente in
questa fase transitoria, è la sussistenza o meno di criteri di priorità nella
loro scelta in caso di contemporanea presenza dei presupposti per procedere in
un senso o nell’altro.
Occorre
osservare che il Codice non fornisce alcun criterio di priorità, per cui si
rende necessario procedere con criteri di logica e di
semplificazione.
E’ evidente
che se un ricorso è suscettibile di perenzione biennale, occorre procedere a
tale forma di perenzione anche se dovessero essere presenti i presupposti per la
perenzione ultraquinquennale ex art.82 o ex art.1 Allegato
Più complessa
è l’ipotesi di un ricorso suscettibile sia di perenzione ultraquinquennale ex
art.82 sia di perenzione ex art.1 Allegato
In questo caso
Comunque per
evitare sorprese è opportuno che i difensori si affrettino a depositare in
Segreteria in tempo utile (e comunque non oltre il 15 marzo 2011) nuova domanda
di fissazione di udienza, sottoscritta da loro e dalla parte che ha rilasciato
la procura, per i ricorsi depositati da oltre cinque anni alla data del 16
settembre e per i quali non hanno notizia dell’intervenuta fissazione di
udienza.
[1] Il diritto alla tutela dei propri diritti ed interessi
ex art. 24 Cost. implica una ragionevole durata del processo dal momento che il
compimento del processo entro termini ragionevoli è in funzione del primario
interesse alla realizzazione della giustizia, come affermato dalla Corte cost.
nella sentenza 22 ottobre 1999 n. 388 nonché nella sentenza 29 ottobre 1987
n.345.
[2] V. E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per
l’eccessiva durata del processo, pubblicato in internet, che ricorda: il VI
emendamento della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America del 17
settembre 1787, dove si afferma che “in ogni processo penale l’accusato avrà il
diritto ad un procedimento pronto e pubblico,…”; l’ordinamento tedesco, che prevede il
dovere degli organi giurisdizionali di decidere entro uno spazio di tempo
ragionevole e riconosce che tale
dovere «è violato per esempio da
un’omissione o da un ritardo ingiustificato specialmente in caso di omessa
fissazione d’udienza, mancata assunzione di un mezzo di prova o omessa
pronuncia, sebbene la causa sia matura per la decisione, tanto in fatto che in
diritto», concedendo all’interessato vari rimedi oltre al risarcimento; l’art.
24, 2°comma, della Costituzione spagnola del 27 dicembre 1978, che statuisce il diritto di ognuno ad un
processo senza indebite dilazioni, inoltre, secondo l’art. 121 Cost., i danni
conseguenti al funzionamento anomalo dell’amministrazione della giustizia
attribuiscono, a norma di legge, il diritto ad un indennizzo a carico dello
Stato; l’ordinamento francese ove i giudici hanno in più occasioni condannato lo
Stato per la lentezza dei processi, stabilendo che in tali casi sono lese più disposizioni (
l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’art. 4 del
Code civil, secondo cui il giudice che si rifiuti di giudicare con il
pretesto del silenzio, dell’oscurità o dell’insufficienza della legge, potrà
essere perseguito come colpevole di diniego di giustizia,
[3] Come sottolineato nella Relazione del Primo Presidente
della Corte di Cassazione (E. Lupo) sull’amministrazione della giustizia
nell’anno 2010 “Il Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa, nella risoluzione del 2 dicembre
Invero, in Italia sono stati proposti dal 2002 ad oggi
circa 40.000 ricorsi per equa riparazione per eccessiva durata dei processi ,
che a loro volta hanno generato altri processi per lentezza dei pagamenti dei
relativi indennizzi, per un ammontare complessivo finora di circa 82 milioni di
euro (V. l’articolo di Ignazio Marino, in Italia Oggi del 10 febbraio
2011.
[4] V.
Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione (V. Carbone)
sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008.
[5] V. Relazione per il 2008, citata.
[6] V. Relazione per il 2008, citata.
[7] Altro strumento utilizzato negli ultimi tempi è quello
del tentativo facoltativo o obbligatorio di conciliazione, che è stato
introdotto nelle controversie di lavoro (v. art.410 c.p.c.) ed in materia di
condominio, diritti reali, successioni ereditarie, ecc. ai sensi dell’art. 5 del
D.L.vo 4 marzo 2010 n.28. Ma si tratta di espediente che finora non ha prodotto
l’effetto sperato, per aver provocato solo un rinvio della controversia
giudiziale.
[8] V. F. Serafini, Istituzioni diritto romano, vol. I.,
1899, pag. 263, nota 2.
[9] Come è noto, nell’ordinamento giuridico romano l’actio
conformò l’jus, che esisteva se e in quanto vi fosse uno strumento di tutela
giudiziaria atto a garantirne la realizzazione . Dunque, il ‘diritto soggettivo’
costituiva un posterius, e non un prius, come ai nostri giorni, rispetto alla
protezione processuale: V. P. Cogliolo, Filosofia del diritto privato, 1891,
pag. 116.
[10] V. P. F. Girard, Manuale elementare di diritto romano,
traduzione italiana di C. Longo, 1909, pag. 741 e nota 2;
[11]. La lex in parola si limitava a disciplinare la durata
dei processi civili di primo grado. Sussisteva anche un termine (oscillante,
nelle fonti, tra un anno e due anni) entro il quale si doveva proporre (e,
presumibilmente, anche concludere) il giudizio
d’appello.
[12] V. V. Scialoja, Procedura civile romana, 1884, pag.
462; P. F. Girard, op. cit., pag. 1090; E. Costa, Profilo storico del processo
civile romano, 1919, pag.184.
[13] V. L. Solidoro Maruotti, La perdita dell’azione civile
per decorso del tempo nel diritto romano, 2010, pubblicato in
internet.
[14] La prescrizione dei reati inizialmente non prevista in
diritto romano, fu poi ammessa gradualmente, prima per il reato di adulterio e
poi per alcuni “crimina publica”: V. P. Tuozzi, Corso di diritto penale, vol I,
1890, pag. 515.
[15] V. Commentario al Codice procedura civile, vol. III,
1905, pag.868.
[16] V. Codice di procedura civile annotato, parte I, 1869,
pag. 442.
[17] V. F. Serafini, che ricorda i vari provvedimenti
legislativi intervenuti in diritto romano sia in sede penale che civile per
precludere l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e le relative deroghe,
op. cit. pagg. 233-234.
[18] V. F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale
civile, vol.III, 1923, pagg. 429 e segg.
[19] V. S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile,
vol. I, 1966, pag. 430.
[20] V. E. Borselli, Voce “Perenzione”, in Nuovo Digesto Italiano, vol. IX, 1939, pag.
849.
[21] V. E. Borselli, op. cit., pag. 849.
[22] V. E. Borselli, op. cit. pagg.
849-850.
[23] V. L .Mortara, op. cit. pag.
869.
[24] V. L. Mortara, op. cit. pagg.
866-912.
[25] La
disposizione è stata riprodotta nell’art.76 T. U. 12 luglio 1934 n. 1214, con la
riduzione del periodo di perenzione da tre anni ad un anno. Recentemente è stato
precisato che nel giudizio pensionistico successivo alla riforma D.L.
n.453/1993, convertito dalla L. n.19/1994 è inapplicabile l'istituto
dell'abbandono previsto dall'art. 75 del T.U. n.1214/1934 dato che l'art. 6 del
medesimo d.l. n. 453 del 1996 pone a carico del Presidente della Corte il
potere-dovere di fissare l'udienza di trattazione nonché l'onere di comunicarla
alle parti costituite V. Cass. Sez. I, sent. n. 3782 del
21-02-2006.
[26] La dottrina parlò di lacuna deplorevole per non aver
previsto
[27] Sia consentito il richiamo del mio scritto “L’istituzione della V Sezione del Consiglio
di Stato e le altre innovazioni introdotte dalla L. 7 marzo 1907 n.62, con
accenno alle questioni fondamentali emerse nella giurisprudenza della V Sezione
nel periodo 1907-
[28] Nei giudizi dinanzi ai Tribunali regionali e al
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche l'art. 186 del T.U di cui al R. D. n.1775/1933 prevede
la perenzione in ipotesi di inattività protratta per sei mesi. Tuttavia
in difetto di specifica previsione nel suddetto testo unico, l'eccezione di
perenzione è soggetta alla disciplina prevista dall’art. 307 c.p.c.; Cass. Sez. U., sent. n. 45 del 08-02-2001
(orientamento che deve ritenersi superato per effetto della recente modifica dell’art. 307 c.p.c.
con l’art. 46 della legge n.69/2009).
[29] V. Cons. St. 30 aprile 1940 n.574, in Giustizia Amm.
1940, parte II, pagg. 398-401.
[30]V. Cons, St., sez. IV, 3 settembre 1911, n.
[31] V. Cass. Sez. 1°, 20 maggio 1957, n.
[32] V. Cons. St., Sez. VI, 13 lugio1954, n.632; A. P., 2 maggio 1955, n.11, in Rass. Cons. St,
1955, maggio, pagg. 562 e segg.; A. M. Sandulli, Manuale di diritto
amministrativo, vol.II, 1989, pag. 1480.
[33] V. Cons.
St., sez. IV, 22 giugno
[34] V. S. Lessona, Perenzione dei ricorsi alle sezioni
giurisdizionali del Consiglio di Stato,
in Riv. Dir. Proc. Civ. , 1924, II, pagg.
375-385;
[35] V. Cons. St., sez. VI, 10 maggio 1956, n. 620 e sez. V,
4 maggio 2004, n.2686, rispettivamente
in Rass. Cons. St. 1956, ottobre, pag 1250 e 2004, maggio, pag.997; Cons.
St. Sez. IV, 19 maggio 2010, n. 3165.
[36] V. Cons. St. , Sez V, 21 maggio 1960 n.371 (in Foro
Amministrativo, 1960, pag. 928); Sez.. IV, 19 maggio 2010, n.3165. In tal senso
dispone ora espressamente l’art.81 del Codice del processo
amministrativo.
[37]
[38] Favorevole a detta tesi è A. M. Sandulli, il Giudizio
cit. pag 372, nonché Cons. St. Sez. IV,
2 dicembre 2003, n. 7864 e 13 marzo 2009, n. 1520 ; Cons. giust. Amm.
Sic., 22 ottobre 2009, n.984, e implicitamente . Cass. S. U. 23 dicembre 2005,
n. 28507. Di diverso avviso appare, invece, Cons. di St. Sez. V, 4 ottobre 2007 n. 5155, che accomuna con
obiter dictum il rinvio a data da destinare alla cancellazione della causa del
ruolo ma in una fattispecie in cui in effetti vi era stata quest’ultima ipotesi.
[39] La richiesta di sospensione del provvedimento impugnato
non poteva considerarsi finora equivalente alla domanda di fissazione di udienza
stante la diversità (per natura e finalità) dell’atto di accesso alla tutela
cautelare rispetto all’impulso di parte richiesto per evitare la perenzione ( V.
Cons. St. Sez. V, 17 marzo 1998, n.294, in Rass. Cons. St. 1998, marzo, pagg.
389 e segg.). Il problema è ora sostanzialmente risolto dall’art. 55, comma 4°,
del Codice del processo amministrativo, stabilendosi che la domanda cautelare è
improcedibile finchè non è presentata domanda di fissazione dell’udienza di
merito, salvo ch essa debba essere fissata
d’ufficio”.
[40] V. Cons. St. Sez. V, 24 novembre 1911, n. 514 e 2
giugno 1937, n. 743, rispettivamente,
in Giustizia Amm. 1911, pag.439 e. 1937, pag.487. Per i giudizi da
trattare attualmente in camera di consiglio si rinvia all’art. 87 del Codice del
processo amministrativo.
[41] V. Cons. St. Sez.
IV, 13 ottobre 1980, n. 535; 22 dicembre
1978, n.1278.
[42] V. A.M- Sandulli, il Giudizio cit., pag. 370.
[43]
[44] V. Cons. St. sez. IV, 15 gennaio 1941 n.24, in
Giustizia Amm. 1941, pagg. 221-222.
[45] V.
G.
Vacirca,
Perenzione
nel giudizio amministrativo, in. Enc. Giur. Treccani, XXIII,
1990.
[46] V. Cons. St. sez. IV, 15 gennaio 1941, n.24, in Giustizia Amm. 1941, pagg.
221-222.
[47] V. G. Vacirca, Perenzione cit, pag.
3.
[48]
V. G. Vacirca, Perenzione cit. pag. 3 par. 7 e, implicitamente, Cons. St., Sez. V, 14
febbraio 1984, n.
[49] V. Cons.
St. A. P., 28 settembre 1984, n.19 e 27
febbraio 1985, n.
[50]
[51]
[52] V. Relazione al codice di procedura civile del ministro
Grandi, pagg. 18-20.
[53] V. Relazione citata,
pag.18.
[54] V. S. Satta, op. cit.,
pagg.434-435.
[55] La diversità di disciplina per il giudizio di primo
grado e per quello di appello in tema di perenzione è riconducibile alla
stratificazione della legislazione in materia, che non è stata coordinata in
occasione dell’istituzione dei TAR (V. Cons. St. Sez. IV, 3 marzo 2000, n.
1123).
[56] V. V. Caianiello, Lineamenti del processo
amministrativo, 1979, pagg. 467-468; F. Caringella e M. Protto, Codice del nuovo
processo amministrativo, settembre 2010, pag. 748.
[57] V. TAR Lazio, Sez.I, 5 novembre 2008 e Cons. Stato, Sez.V, 4 ottobre 2007, n. 5155,
che però erroneamente equiparano “la cancellazione della causa dal ruolo” al
“rinvio dell’udienza a data da destinarsi”, in qaunto quest’ultima ipotesi non
comporta la perdita di efficacia dell’originaria domanda di fissazione di
udienza, come precisato al paragrafo 7.
[58] V.,
recentemente, Cons. St. Sez.
V, 23 maggio 2003 n. 2788 e 10 febbraio
2010 n. 654.
[59] V. G. Vacirca, Principali innovazioni nel processo
amministrativo introdotte dalla L. n.205/2005, nel sito del Consiglio di Stato,
studi e contributi.
[60]
[61] V. Cons. St., A. P. n.4/2004, già citata, punto 4 della
motivazione.
[62] Come nel caso del recente disegno di legge sul
c.d. processo breve, che tra
l’altro sancisce l’estinzione del processo per responsabilità contabile e del
processo penale (con esclusione dei reati più gravi) per il solo fatto che siano
stati superati predeterminati periodi di tempo per la pronuncia conclusiva (atto
senato n.1880 del 20 gennaio 2010), prima accantonato per “improponibilità di
una riforma così concepita” (V. l’articolo di Vittorio Grevi, sul
corriera della sera dell’8 settembre 2010 dal titolo: “Il processo breve non
deve dare l’impunità”) ed ora
riproposto(V. l’articolo di Dino Martirano, sul corriera della sera
dell’8 febbraio 2011 dal titolo: “Processo breve, il PDL accelera , in aula a
marzo, voto ad aprile”).
[63] Sull’effettività della tutela ex art.24 della
Costituzione, V. Corte cost. 16 aprile 1998, n. 111, nonchè quanto osservato in
precedenza nel paragrafo 4.
[64] V. Corte cost, n.111/1998, già citata, e
13 luglio 2000, n. 276.
[65] V.Cons. St. A. P.
, 23 marzo 2004, n.6
[66] V. F. Caringella e M. Protto, op. cit. pag.
752.
[67] V. Cons. St. Sez. VI , 14 gennaio 2009 n.
133.
[68] V. TAR Lazio,Sez. I°, 19 dicembre 2005 n.
14085.
[69] V. TAR Lazio,Sez. III, 14 ottobre 2010, n.
32816.
[70]
[71] V. in tal
senso Cons. St., Sez. IV, 18 febbraio 2010 n. 936, anche se con qualche titubanza.
[72] V. TAR Lazio, Sez. III, 13 maggio 2009 n.
5123.
[73] V., sia pure implicitamente, Cons. St., Sez. V , 29
marzo 2010, n.1783
[74] V.TAR Lazio, Sez. II, 2 settembre 2005 n.
5535.
[75]
[76] Sono questi i dati che emergono dalla Relazione del
Pres. De Lise sull’attività della
Giustizia amministrativa nell’anno
2010, tenuta l’8 febbraio 2011.
[77] V. F. Caringella e M. Protto, op. cit., pag. 745..
[78] Un istituto analogo è stato recentemente previsto nel
disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri per il processo civile
limitatamente ai ricorsi in appello o in
Cassazione pendenti da oltre due anni, per i quali sussiste l'obbligo per le parti di ribadire espressamente la volontà
di definire la causa. Sarà la cancelleria ad avvisare le parti dell'onere di
presentare istanza di trattazione del procedimento. Se entro sei mesi (termine
perentorio) dalla ricezione dell'avviso, nessuna delle parti, con istanza
scritta, dichiarerà di avere ancora interesse alla trattazione della causa, il
ricorso si considererà abbandonato e il giudice dovrà pronunciare l'estinzione
del processo (V. G. Negri nell’articolo “seicento giudici ausiliari per
l’arretrato civile”, in sole 24 ore del 10 febbraio
2011.
[79] V. TAR Puglia Lecce, ord. 21 novembre 2002, n. 878, che
aveva ritenuto, in contrasto con la giurisprudenza prevalente, che la nuova
domanda di fissazione di udienza ex art.9,comma 2°, legge n. 205/2000 non doveva
essere sottoscritta dal difensore della parte.
[80]