Appunti per una prima lettura dell’art. 34, comma 1, lett. c), d) ed e): le sentenze di condanna e condanna al risarcimento dei danni.[1]

di

Andreina Scognamiglio

Prof. Ass. di diritto processuale amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università degli Studi del Molise

 

Sommario:  1. Il codice e i criteri direttivi della legge delega.  – 2. Generalità ed atipicità della tutela ordinatoria nell’art. 34, comma 1°, lett. c): i possibili contenuti della sentenza di condanna. -3. L’attuazione della pronuncia di condanna tra cognizione ed esecuzione: le indicazioni desumibili dall’art. 34, comma 1, lett. d. -4. (Segue): Le indicazioni desumibili dall’art. 34, comma 1, lett. e). -5. L’ambito della tutela adempitiva nei confronti della pubblica amministrazione: attività vincolata, diritti soggettivi e giurisdizione amministrativa. - 6. La condanna al risarcimento dei danni come materia di giurisdizione esclusiva. – 7. Incerto ambito di applicabilità delle sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro. – 8. Conclusione.

 

1. Il tema della tutela di condanna, disciplinata essenzialmente dall’art. 34, comma 1° lett. c), del codice, si collega con due questioni centrali per la interpretazione del nuovo testo normativo: quale modello di processo si è voluto realizzare, quali l’essenza ed i limiti ritenuti propri della giurisdizione amministrativa.

Entrambe sono state al centro di discussioni, che hanno assunto toni quasi polemici, già nella fase della redazione del codice. La prima, rimasta invero circoscritta alla cerchia degli addetti ai lavori, ha portato alla riformulazione della norma relativa alla giurisdizione, da parte della stessa Commissione incaricata di redigere il progetto del codice. La originaria proposta dell’art. 11, intitolato “giurisdizione amministrativa”, prendeva atto dell’avvenuto superamento del criterio di riparto fondato sulla natura della situazione azionata e riconosceva alla giurisdizione amministrativa la medesima latitudine della attività dell’amministrazione regolata dal diritto pubblico. La disposizione si limitava ad esplicitare il criterio che oramai vive nel nostro ordinamento, per effetto di scelte legislative forse episodiche, ma confermate dalla giurisprudenza costituzionale[1]. Il testo è sembrato però insoddisfacente e foriera di problemi di legittimità costituzionale. La proposta è stata perciò emendata, con il riferimento alla natura della situazione giuridica azionabile dinanzi al giudice amministrativo e al carattere eccezionale della giurisdizione amministrativa sui diritti soggettivi.

La seconda e più vivace, discussione è stata sollevata dalla limatura governativa dell’articolato steso dalla Commissione e dalla soppressione delle disposizioni che avevano introdotto l’azione di accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza, del rapporto giuridico contestato e l’azione di adempimento, per la condanna dell’amministrazione alla emanazione del provvedimento richiesto e illegittimamente negato[2]. L’intervento del Governo ha così rimesso in discussione quel principio dell’atipicità delle azioni e delle pronunce che il testo della Commissione  aveva espressamente adottato.

Le scelte, che hanno scandito la redazione definitiva del codice, vanno probabilmente nella stessa direzione: entrambe sembrano intese a costringere il processo amministrativo entro il solco, consegnato dalla tradizione, della verifica della legittimità dell’atto, su ricorso del titolare di un interesse legittimo leso, al fine di ottenere una pronuncia di annullamento.

Ci si potrebbe chiedere se tale soluzione corrisponda, o meno, alle indicazioni della legge delega, quali risultano dall’art. 44, comma 2, lett. b), n.4, della l. 59/2009. La risposta negativa pare scontata. L’art. 44, cit., pone, tra i criteri direttivi, la previsione di “pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”. Il programma del legislatore delegante era dunque ben più ambizioso. L’intenzione era stata quella di modellare un processo che fosse in grado di fornire una tutela piena, ovvero tale da attribuire al ricorrente “tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale gli garantisce” – secondo la formula chiovendiana  che bene esprime il principio della massima strumentalità del processo al diritto sostanziale[3].

I primi, e già numerosi, commenti al nuovo testo hanno evitato la questione, sottile, ma forse sterile, della legittimità costituzionale del decreto legislativo di attuazione: se cioè la non completa attuazione della delega abbia comportato o meno quella sostanziale elusione del programma e degli obiettivi fissati dal legislatore delegante, che può concretare il vizio di costituzionalità per difetto di delega.

La strada che si è scelto deliberatamente di percorrere è un’altra: quella di ricercare sotto traccia[4] o tra le pieghe dell’ordito normativo[5] indizi sufficienti a ritenere comunque vigenti quei principi della pluralità delle azioni e della strumentalità del processo al diritto sostanziale, la cui concreta realizzazione è carente nel testo definitivo del codice[6].

L’obiettivo è sicuramente favorito dall’art. 1, intitolato “Effettività”, per il quale “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva, secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo” e dall’art. 2, intitolato “Giusto processo”, che espressamente vuole il processo amministrativo conforme ai canoni dell’art. 111, comma 1°, della Costituzione.

Si tratta di norme di principio, che assumono un valore forte di orientamento interpretativo di tutte le disposizioni del codice poiché esprimono i valori dai quali lo stesso giudice non può prescindere nella gestione del processo.

Tuttavia l’enunciazione dei principi e anche l’affermazione che il processo li debba in concreto attuare non sono di per sé sufficienti ad assicurare l’obiettivo di un processo giusto. Si potrebbe difatti osservare che i principi della pienezza ed effettività della tutela sono già enunciati nella Costituzione, agli artt. 24, comma 1°, e 111[7].

2. E’ allora tra gli interstizi di alcune disposizioni del codice, che è sembrato preferibile andare a ricercare gli indizi del nuovo processo.

La norma che è finita sotto la lente di osservazione, è quella dell’art. 34, intesa a disciplinare i possibili contenuti delle sentenze di merito[8]. Secondo la disposizione contenuta nel comma 1°, lett. c): “In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: (….) condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la posizione giuridica dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 c.c.”.

La disciplina generale della tutela di condanna è senz’altro una novità significativa del codice. La novità non è rappresentata tanto dalle previsioni relative alla condanna al pagamento di somme di denaro, anche a titolo di risarcimento, e alla condanna al risarcimento in forma specifica, quanto dalla disposizione che attribuisce al giudice il potere di ingiungere alla amministrazione di adottare le “misure idonee a tutelare la posizione giuridica dedotta in giudizio”.

Invero il sistema normativo previgente conosceva alcune pronunce ordinatorie, in particolare nel giudizio sul silenzio rifiuto o nel giudizio per l’accesso ai documenti amministrativi[9]. Si trattava però di figure singolari, ammesse in quanto previste da una specifica norma, e non era sembrato possibile dedurre da quelle disposizioni speciali la vigenza di una forma generale di tutela di condanna.

L’art. 34, comma 1°, lett. c), positivizza il principio della generalità e della atipicità della tutela di condanna. Sotto questo profilo, la norma assume anche una rilevanza di sistema. Implicitamente, il legislatore ha preso le distanze dalla posizione favorevole a stabilire una correlazione necessaria o normale tra condanna e titolo esecutivo e dunque ad includere tra le sentenze di condanna solo quelle che hanno ad oggetto l’adempimento di obblighi patrimoniali, suscettibili di esecuzione forzata[10]. Nel codice del processo amministrativo, la tutela di condanna è una forma generale di tutela giurisdizionale, tramite la quale il giudice può imporre espressamente alla parte soccombente una condotta idonea a soddisfare la pretesa dedotta in giudizio, in ogni caso in cui ne abbia accertato la fondatezza.

Una prima osservazione mi pare possa essere formulata con certezza. La previsione di una tutela di condanna nei confronti della pubblica amministrazione consente di ovviare alla soppressione dell’art. 45 comma 2, che - nel testo proposto dalla Commissione – disciplinava le sentenze di accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio[11].

La ragione è semplice. L’accertamento rappresenta un momento logicamente necessario ed ineliminabile della sentenza che condanna la parte ad attuare l’obbligo corrispondente alla pretesa accertata[12].

Dunque, se  le sentenze di condanna sono ammesse, è possibile (e anzi necessario) che nel processo si svolga un momento preliminare di accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio o dell’esistenza del diritto.

Per sostenere la tesi, non mi sembra invece necessario ricorrere ad una interpretazione estensiva dell’art. 31, comma 3, e dunque ad una esigenza di simmetria con i poteri del giudice il quale, quando è chiamato a decidere del silenzio rifiuto, può pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza – secondo le previsioni della disposizione citata[13].

L’argomento, desumibile dall’art. 31, comma 3, rafforza una conclusione alla quale sarebbe comunque possibile giungere anche se mancasse la norma sul silenzio, perché la possibilità di una statuizione di accertamento è implicita nella stessa possibilità della sentenza di condanna.

Ciò premesso, la previsione di una tutela generale di condanna solleva due problemi: il possibile contenuto della condanna, i modi di concreta attuazione dell’obbligo corrispondente alla pretesa accertata.

Per l’art. 34, comma 1, lett. c), il giudice può condannare l’amministrazione “all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio”. La norma attribuisce dunque al giudice un potere di condanna atipico, quanto al contenuto. Tutte le misure sono ammesse, purché sia fornita una tutela acconcia alla situazione dedotta in giudizio.

Nella individuazione dei possibili e concreti contenuti delle misure, che il giudice può ordinare all’amministrazione, soccorre l’art. 34, comma 1, lett. a). La disposizione, dedicata alle sentenze di annullamento, non reca traccia della formula “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”, che era contenuta nell’art. 45 del t.u. e che era ritenuta tale da caratterizzare in senso ineluttabilmente demolitorio la sentenza di accoglimento del ricorso di annullamento. Se il contenuto degli ulteriori provvedimenti non è  fatto salvo, ovvero non è riservato all’amministrazione e all’inesauribile esercizio del potere, ciò significa che è il giudice stesso a determinarlo, nel momento in cui dichiara il diritto corrispondente alla pretesa accertata[14].

Il cerchio così si chiude. Una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni entrate in vigore nel settembre scorso consente di immettere nella formula generica impiegata dal legislatore, “le misure idonee”, la condanna ad un facere specifico rappresentato dal compimento di tutte le attività necessarie a soddisfare la pretesa dedotta in giudizio. In particolare, la sentenza che annulla un decreto di occupazione o di espropriazione, può contenere la contestuale condanna alla restituzione del bene. La sentenza che annulla un diniego, e che abbia accertato la sussistenza dei presupposti o l’assenza di cause impeditive al rilascio del provvedimento richiesto, può condannare l’amministrazione ad adottare il provvedimento positivo, illegittimamente negato.

La lettura favorevole ad assegnare alle sentenze di condanna dell’art. 34, comma 1°, lett. c), i medesimi contenuti propri di quelle pronunce di adempimento, non più previste nella stesura definitiva del codice, è diffusa nei primi commenti al nuovo testo normativo[15].

Resta da vedere come si atteggerà la giurisprudenza pratica; ovvero se prevarrà un atteggiamento di prudenza del giudice nell’adottare pronunce che possano risultare in qualche modo sostitutive di atti dell’amministrazione[16] o la consapevolezza che il processo amministrativo, se vuole essere giusto, nella accezione sopra ricordata[17], deve essere, quanto più è possibile, “inteso a provocare l’emanazione di un atto amministrativo, positivo speciale e concreto in favore del ricorrente”[18], che abbia dimostrato la propria ragione in giudizio[19].

3. A queste considerazioni si lega il secondo problema, che è sollevato dalla disposizione della lett. c) dell’art. 34, e che investe il momento della attuazione concreta dell’obbligo, corrispondente alla pretesa, la cui fondatezza sia stata accertata dal giudice.

Il quesito è se il giudice possa adottare, già in sede di cognizione, statuizioni sostanzialmente surrogatorie, dirette cioè alla produzione di effetti giuridici corrispondenti a quelli che il doveroso e legittimo esercizio dell’attività amministrativa avrebbe dovuto produrre, a vantaggio del ricorrente; se, in buona sostanza, possa disporre egli stesso le misure sostitutive, anziché limitarsi ad ordinarle.

In questo caso, le indicazioni, desumibili dal codice, non sono univoche. Da un lato, l’art. 34, comma 1°, lett. d), riserva l’esercizio di poteri sostitutivi alla giurisdizione di merito. E’ sempre nella sede dell’ottemperanza – o nella fase di esecuzione – che il giudice potrà adottare un nuovo atto legittimo, in luogo di quello illegittimo a viziato, ovvero modificare l’atto, così da emendare il vizio.

Il codice sembra dunque voler ribadire la necessaria scansione bifasica del processo e della tutela. Se anche l’accertamento ha posto alla amministrazione un vincolo non più eludibile, che investe lo stesso contenuto del provvedimento, il giudice non può provvedere in luogo della amministrazione. Una volta ottenuta la sentenza di merito favorevole, il ricorrente vittorioso dovrà comunque dar vita ad un nuovo giudizio per costringere l’amministrazione ad adempiere.

Secondo alcuni, la soluzione, dettata dalla lettera dell’art. 34, comma 1°, lett. d), è del tutto insoddisfacente. Si è osservato che “non è in linea con un sistema che si propone solennemente di assicurare effettività e celerità della tutela un processo nel quale il giudice si limita a rinviare alla amministrazione perché provveda[20].

Se l’accertamento ha posto un vincolo non più eludibile, che investe lo stesso contenuto del provvedimento, non ha senso rimettere l’adozione dell’atto alla amministrazione.

I principi di celerità ed effettività della tutela imporrebbero un’altra scelta. Il processo si dovrebbe chiudere con una sentenza la quale si ponga esse stessa come fonte autonoma di quel bene, che il giudice all’esito dell’accertamento svolto, ha ritenuto spettare al ricorrente. Così ad esempio, nel caso dell’autorizzazione all’apertura di un istituto di credito – atto a presupposto vincolato – il giudice, una volta accertata la sussistenza del diritto a svolgere l’attività, dovrebbe emanare lui stesso il provvedimento richiesto ed illegittimamente negato.

Al fondo, la convinzione che l’obbligo di rilasciare una dichiarazione di volontà (sottoscrivere un contratto o emanare un atto amministrativo) sia un obbligo fungibile e che, in quanto tale, la dichiarazione di volontà possa essere surrogata da un provvedimento del giudice, rivolto a produrre esso stesso gli effetti giuridici della dichiarazione di volontà non resa spontaneamente[21].

Probabilmente il punto debole della tesi per la quale il processo deve potersi concludere con una sentenza a struttura cognitiva e funzione esecutiva, sta proprio in questa premessa, e cioè nell’idea che la dichiarazione di volontà delle parti possa essere surrogata dal giudice.

Si tratta di un postulato, che a mio avviso, non è pienamente condivisibile. Quando il soggetto obbligato è un privato e la dichiarazione di volontà consiste in un contratto, osta a questa conclusione la titolarità in capo al privato di una posizione di autonomia privata. L’art. 2932 c.c., che autorizza il giudice a produrre gli effetti giuridici della dichiarazione di volontà non resa spontaneamente, è difatti norma speciale e si riferisce all’ipotesi del tutto particolare dell’inadempimento dell’obbligo, volontariamente assunto, di concludere un contratto. Quando l’obbligato è una pubblica amministrazione e la dichiarazione consiste in un atto amministrativo, il riconoscimento di un potere sostitutivo del giudice trova ostacolo non tanto nel principio della separazione dei poteri[22], quanto nel principio della responsabilità del funzionario per gli atti che adotta[23].

Incoercibilità dell’autonomia privata e principio di responsabilità stanno alla base della regola della tipicità della tutela costitutiva[24] e cioè della regola per la quale il giudice può costituire, modificare o estinguere rapporti, sostituendo la sua sentenza alla dichiarazione di volontà non resa dalla parte, solo quando una norma espressa glielo consente. Principio che è espresso dall’art. 2908 c.c. e dall’art. 113 Cost., e che trova la sua conferma nel carattere eccezionale e tassativo delle ipotesi di giurisdizione di merito.

Ci si potrebbe chiedere a questo punto se, nel processo amministrativo, la sentenza non possa mai porsi come fonte del bene che il giudice, all’esito dell’accertamento, ha ritenuto spettare al ricorrente.

A ben vedere, tale evenienza si può verificare in ogni caso in cui la legge collega direttamente al fatto il sorgere degli effetti voluti e la produzione di questi opera secondo lo schema norma- fatto- effetto, senza la necessaria intermediazione dell’esercizio di un potere amministrativo (sia pure vincolato). Si tratta delle ipotesi che, nel nostro diritto positivo, sono regolate dagli articoli 19 e 20 della legge generale sul procedimento ( dia – o scia – e silenzio assenso) e che la disciplina sostanziale riconduce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In tutti i casi in cui la produzione dell’effetto, corrispondente alla fattispecie legale, è contestata, su istanza di chi vi ha interesse il giudice può accertare l’esistenza del diritto ed i termini del rapporto giuridico, intorno al quale esiste incertezza tra le parti. La pronuncia dichiarativa, ponendo fine alla situazione di incertezza, è essa stessa idonea a soddisfare l’interesse dedotto in giudizio[25].

Tornando alla ipotesi nella quale la produzione degli effetti opera secondo lo schema norma – potere (sia pure vincolato) – effetto, la scelta del codice, quale emerge dall’ art. 34, comma 1°, lett. d), è stata dunque quella di rinviare alla fase propriamente esecutiva l’impiego di tecniche di tutela costitutive e l’utilizzo da parte del giudice di poteri sostitutivi per soddisfare in concreto la pretesa, la cui fondatezza sia stata accertata nel corso del giudizio.

4. La lett. e) dello stesso art. 34, comma 1, offre, al tempo stesso, indizi sufficienti per una diversa lettura del rapporto tra fase della cognizione e fase della esecuzione[26]. La disposizione citata autorizza il giudice a fissare, anche in sede di cognizione, “ le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle sentenze non sospese”. In particolare, il giudice può assegnare un termine per l’adempimento e nominare un commissario ad acta, il quale assumerà le funzioni automaticamente alla scadenza del termine stabilito.

Ci si potrebbe allora chiedere quale sia la struttura e al funzione di queste misure, che puntano ad assicurare l’attuazione dell’obbligo, nella realtà concreta, ma che non hanno quel carattere sostitutivo, proprio delle misure che il giudice può adottare nella fase esecutiva.

Può essere utile, a questo punto, ricordare che, accanto alle tecniche di coercizione diretta[27], la disciplina generale del processo conosce tecniche di coercizione indiretta, per la esecuzione delle sentenza di condanna. Queste ultime sono utilizzabili anche per l’esecuzione di quegli obblighi di fare infungibile, che le prime sono inidonee ad attuare. Esse difatti consistono nella minaccia di una lesione dell’interesse dell’obbligato più grave di quella che gli cagioni l’adempimento, allo scopo di influire sulla sua volontà ed indurlo ad adempiere spontaneamente l’obbligo al quale è tenuto[28].

Gli esempi di mezzi di questo tipo sono le astreintes del diritto francese[29], il contempt of court (disprezzo della corte) del diritto inglese[30], la condanna al pagamento di somme di denaro, di cui all’art. 614 bis c.p.c.[31].

Sul modello delle astreintes, l’art. 614 bis c.p.c. prevede che già nella sentenza di condanna all’adempimento di obblighi di fare infungibile o di non fare il giudice possa fissare la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

In questo quadro, è possibile dare un significato alla previsione relativa alle misure di esecuzione, quale possibile contenuto della sentenza di merito, ed individuare un contenuto di queste che sia coerente con il divieto per il giudice di adottare statuizioni costitutive, in una sede diversa da quella della esecuzione, ribadito dalla lett. e) dell’art. 34.

La sentenza, con la quale il giudice ordina all’amministrazione di adempiere l’obbligo corrispondente alla pretesa accertata, può contenere misure di coercizione indiretta.

Si deve dunque ritenere che assolve ad una funzione di coercizione indiretta, la nomina del commissario ad acta, prevista dall’art. 34, comma 1, lett. e), “con effetto dalla scadenza del termine assegnato per l’ottemperanza”. Il ruolo del commissario è, in questo caso, diverso da quello che gli compete nell’ambito del giudizio di ottemperanza. L’utilizzo della figura può sembrare anzi anomalo in questa sede perché il giudice, della fase di merito o di cognizione, non è ancora titolare di quei poteri sostitutivi che dovrebbe delegare al commissario.

Qui il legislatore avrebbe forse potuto prevedere una misura diversa da quella, invero un po’ abusata, della nomina del commissario. In particolare avrebbe potuto adottare la soluzione dell’astreint, che meglio si presta ad anticipare misure di esecuzione alla fase della cognizione.

A questo risultato, non esplicitato dunque nel testo normativo, sembra tuttavia possibile giungere anche in via interpretativa. L’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore (misure idonee ad assicurare l’esecuzione della sentenza), il rinvio aperto alle norme del codice di rito, nonché la oramai riconosciuta responsabilità da ritardo ed i criteri equitativi nella individuazione della somma dovuta a titolo di risarcimento aprono una strada in questo senso.

Su domanda di parte, la sentenza di condanna dell’amministrazione ad adempiere l’obbligo, corrispondente alla pretesa accertata, può allora indicare il termine entro il quale l’amministrazione deve porre in essere l’attività, alla quale è tenuta in forza della sentenza, e anche quantificare la somma che l’amministrazione è obbligata a corrispondere per ogni giorno di ritardo.

5. La condanna dell’amministrazione ad adottare i provvedimenti consequenziali, idonei a soddisfare la pretesa, la cui fondatezza è stata accertata in giudizio, incontra necessariamente i  limiti indicati dalla norma sul silenzio. L’ordine può essere impartito quando l’atto è per sua natura vincolato, o anche semivincolato o legato alla interpretazione di concetti giuridici indeterminati, quando i margini di discrezionalità riconosciuti alla amministrazione sono oramai consumati per essersi le parti confrontate su tutte le questioni o nel procedimento o nel processo, quando non è necessaria una ulteriore attività istruttoria dell’amministrazione.

Non mi convince l’idea che il codice abbia riconosciuto al giudice il potere di sostituirsi alla amministrazione nell’enunciare la regola di soluzione del conflitto tra più interessi e nell’apprezzare il miglior bilanciamento degli interessi in giuoco e dunque rispetto all’esercizio di attività discrezionale[32]. Né mi sembra irresistibile l’argomento che fa leva sull’art. 122 c.p.a., ovvero sulla norma che disciplina i poteri del giudice chiamato a decidere della sorte del contratto, in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione. Senza affrontare il problema della natura autenticamente discrezionale della valutazione demandata al giudice dall’art. 122 c.p.a., che meriterebbe ben altro approfondimento[33], comunque il rito è speciale[34] e tale considerazione mi pare debba escludere di per sé la possibilità di trarre dalla norma indicazioni di ordine generale.

Mi sembra, invece, che l’art. 31, comma 1°, renda esplicito un limite che è intrinseco alla natura stessa della funzione giurisdizionale. Rappresenta ancora un dato positivo di sistema l’idea che non sia compito del giudice disporre degli interessi pubblici, “come un gestore o un amministratore”. E che “alla risoluzione del problema amministrativo il giudice possa, e debba, concorrere solo indirettamente, in quanto è tenuto a definire le questioni giuridiche insorte tra le parti, dichiarando ciò che il diritto vuole riguardo al caso”[35].

Circoscrivere alle ipotesi di attività vincolata l’ammissibilità di una pronuncia ordinatoria specifica, per l’adozione del provvedimento richiesto e negato, non significa svilire la portata della norma. Quella della attività vincolata non è una ipotesi residuale o di scarsa importanza. L’attività vincolata è anzi sempre più frequente sia per effetto del diritto comunitario[36] sia per effetto della distinzione tra competenze politiche ed amministrative[37]. Il diritto europeo vuole imporre l’uniformità  e perciò tende ad elidere la discrezionalità. La distinzione tra politica e amministrazione attira nella prima sfera – quella della politica – le scelte discrezionali.

La previsione della giurisdizione amministrativa sugli atti vincolati, e dunque su atti che fronteggiano diritti, implicita dunque nella tutela di condanna[38], sancisce il massiccio ingresso dei diritti soggettivi nella giurisdizione generale del giudice amministrativo[39].

Questa constatazione rende del tutto astratta la previsione del citato art. 7, che si preoccupa di ribadire il carattere eccezionale e tassativo delle ipotesi di devoluzione di diritti al giudice amministrativo.

In realtà, al di là delle enunciazioni di principio e nella concretezza delle sue disposizioni, il codice segna una ulteriore e forse decisiva tappa verso il superamento del riparto per situazioni giuridiche soggettive e per l’affermazione del criterio della normativa applicabile alla controversia[40].

 

6. Costituisce una ulteriore e decisiva conferma di questa conclusione, la disciplina della giurisdizione sulle domande di risarcimento dei danni cagionati dall’esercizio del potere amministrativo.

Quella del risarcimento dei danni rappresenta una ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[41]. Non era così nel regime precedente, dove l’art. 7 della legge tar [42] si limitava ad attribuire al giudice amministrativo - già investito della giurisdizione – il potere di somministrare una ulteriore forma di tutela, quella risarcitoria.

Oggi la giurisdizione sulle domande di risarcimento dei danni è riservata al giudice amministrativo.

Non è convincente l’opinione contraria[43], che trae argomento dalla mancata inclusione delle controversie in materia di risarcimento dei danni, nell’elenco dell’art. 133. L’elenco dell’art. 133, che raggruppa oltre trenta ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha solo un valore ricognitivo, come risulta dall’inciso iniziale, che fa salve le “ulteriori previsioni di legge”. L’inciso lascia intendere che se una norma di legge qualifica la giurisdizione esclusiva, questa è tale, anche se la materia non è compresa nell’elenco dell’art. 133 c.p.a.. Nel caso del risarcimento dei danni, la previsione normativa espressa è inclusa nello stesso codice ed è contenuta nel comma 6 dell’art. 30, c.p.a., il quale afferma che “di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesione di interessi legittimi e, nelle materie di giurisdizione esclusiva di diritti soggettivi, conosce esclusivamente il giudice amministrativo”.

Mi sembra, però, che la ragione, per la quale il risarcimento del danno è oggi da ricomprendere tra le materie di giurisdizione esclusiva, travalichi la stessa espressa previsione del comma 6, dell’articolo 30. La connota come tale la disciplina speciale introdotta dallo stesso articolo 30[44].

Il contrasto tra pregiudiziale amministrativa e autonomia della domanda risarcitoria è stato risolto con una soluzione di compromesso e il compromesso è rappresentato dalla specialità del regime della responsabilità dell’amministrazione. La disciplina della responsabilità della pubblica amministrazione è speciale sotto il profilo essenziale del termine, che è di centoventi giorni dal fatto dannoso  o dalla conoscenza del provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo. Il termine è qualificato di decadenza. Ma la dizione probabilmente non è corretta. Sia il regime del termine, che la ratio della sua previsione, dovrebbero indurre a parlare di prescrizione breve. Il regime del termine risponde difatti alle previsioni dell’art. 2943 c.c., perché la proposizione della domanda giudiziale di annullamento ne impedisce il decorso[45]. E pure la ratio è quella propria della prescrizione, perché l’esigenza, che la previsione del termine mira a salvaguardare non è quella della certezza dei rapporti giuridici ( non compromessa dalla tutela riparatoria per equivalente[46]), ma piuttosto quella di evitare che il patrimonio del soggetto passivo del rapporto possa restare troppo a lungo assoggettato a pretese patrimoniali altrui[47].

Di fronte al regime speciale della responsabilità della p.a. tracciato dall’art. 30, se anche mancasse una qualificazione normativa espressa, dovremmo sempre arrivare alla conclusione che si tratta di una ipotesi di giurisdizione esclusiva.

La ragione è che non avrebbe senso prevedere una disciplina speciale scandita da un termine breve dinanzi al giudice amministrativo se poi fosse possibile per la parte rivolgersi al giudice ordinario entro il termine di prescrizione.

Il quesito che ci si può semmai porre è se la forza centripeta della specialità della disciplina non sarà tale da riuscire ad attrarre nell’ambito del regime speciale e della giurisdizione amministrativa anche quei (pochi) casi di responsabilità della pubblica amministrazione, che l’attuale giurisprudenza della Corte regolatrice ascrive alla giurisdizione ordinaria (responsabilità da omessa vigilanza responsabilità da attività materiale della pubblica amministrazione).

D’altro canto la ratio che sostiene le ragioni della specialità del regime della responsabilità da illecito esercizio del potere, di evitare che il bilancio pubblico resti troppo a lungo assoggettato a pretese patrimoniali altrui, dovrebbe valere per tutti i casi in cui una pretesa risarcitoria è avanzata nei confronti della pubblica amministrazione.

7. Secondo l’espressa previsione dell’art. 34, comma 1, lett. c) le sentenze di condanna al risarcimento rientrano nella categoria più ampia delle sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro. Costituiscono una sub categoria di queste. Difatti recita l’art. 34, comma 1 lett. c) “il giudice condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno”-

La norma si riferisce evidentemente alla possibilità per il giudice di emanare sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro di cui l’amministrazione risulti debitrice, già previste dall’art. 26, comma 3, l. tar..

Una lettura congiunta dell’art. 34, comma 1°, lett. c), e dell’art. 30, comma 1°, per il quale “l’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad ogni altra azione o, nei casi di giurisdizione esclusiva (oltre che nel caso del presente articolo che tratta del risarcimento del danno) anche in via autonoma” sembra suggerire che la domanda per la condanna al pagamento di somme di denaro è proponibile, in ogni caso, congiuntamente ad altra domanda e, nei casi di giurisdizione esclusiva, anche in via autonoma.

Quest’ultima conclusione sembrerebbe avvalorata dall’art. 118 che contempla la possibilità di proporre al giudice amministrativo un ricorso per decreto ingiuntivo, attingendo poi al codice di procedura civile per la disciplina.

Se il codice non dicesse null’altro, dovremmo pensare che il legislatore abbia voluto sanare quella improvvida frattura tra gli aspetti patrimoniali e quelli non patrimoniali del rapporto introdotta dall’art. 5 della legge Tar[48] e ribadita dalla sentenza 204 del 2004 della Corte costituzionale.

E dovremmo anche ritenere che il legislatore abbia previsto la possibilità di una tutela autonoma dei diritti soggettivi di credito dinanzi al giudice amministrativo.

Questa conclusione è però immediatamente smentita dall’art. 133 comma 1°, lett. b) e c) che – con formula analoga a quella dell’art. 5, l. tar - sottrae le controversie relative a indennità, canoni ed altri corrispettivi alla giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di concessioni di beni e servizi.

Stando così le cose, non è però chiaro quale potrà essere il possibile ambito di applicazione dell’istituto; se la domanda per la condanna al pagamento di indennità canoni ed altri corrispettivi possa ( o debba) essere proposta dinanzi al giudice amministrativo, ove questo sia comunque investito della cognizione del rapporto; se, e in quali casi, potrà essere proposta una domanda autonoma di condanna al pagamento di somme di cui l’amministrazione risulti debitrice.

Anche in questo caso, spetterà alla giurisprudenza ricondurre a sistema le norme, seguendo il criterio direttivo della concentrazione delle tutele, conformemente alle regole del giusto processo[49].

8. Forse un testo normativo che si afferma ispirato al principio del giusto processo regolato dalla legge e che si propone di far progredire la certezza delle regole processuali, avrebbe dovuto elaborare scelte più esplicite[50]. Le disposizioni che regolano il nuovo processo sono a volte lacunose e non del tutto coerenti tra di loro. Si presentano spesso con la modestia di un “riassunto delle precedenti puntate legislative e giurisprudenziali”, più che con l’ambizione e l’apertura delle disposizioni di un codice[51].

Tuttavia una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di tutela di condanna, conferma la possibilità di rinvenire nel codice, sia pure sotto traccia e tra le pieghe dell’ordito normativo, agganci normativi sufficienti a colmare gli spazi lasciati vuoti dal legislatore, immettendo nelle disposizioni entrate in vigore il 16 settembre scorso contenuti coerenti la direttiva della massima strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale, imposta dal principio del giusto processo.

L’attesa di molti è che la giurisprudenza sappia farsi interprete dei principi, per completare l’opera del legislatore, o, magari, per correggerla[52].     .



[1]  Testo, rielaborato e corredato di note, della relazione al convegno “Incontro di studio: prime riflessioni sulla riforma del processo amministrativo”, Campobasso, 24 novembre 2010, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli studi del Molise.



[1]  L’attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno ingiusto e la riconosciuta attitudine del medesimo giudice ad offrire piena tutela ai diritti, anche fondamentali, segnano il superamento del criterio tradizionale di riparto e, in definitiva, della stessa contrapposizione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, “per sostanziale incorporazione della prima nella seconda”, secondo la suggestiva immagine proposta da F. SATTA, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., VI Agg., Milano, 2002, 416 ss. In linea con i principi dell’effettività della tutela e della ragionevole durata del processo, la regola che conforma oggi il sistema della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione è quella della concentrazione, dinanzi ad un unico giudice, dell’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio del potere discrezionale o vincolato di questa. Il dubbio se una soluzione di questo tipo sia compatibile con la Costituzione è risolto in senso positivo da buona parte della dottrina. Secondo VERDE, Introduzione, a La giurisdizione Dizionario del riparto, diretto da VERDE, Bologna, 2010, spec. 17 ss., l’evoluzione dell’ordinamento ha decretato il sostanziale svuotamento della portata precettiva dell’ art. 103 Cost., che è disposizione “cedevole” rispetto agli artt. 24 e 111 Cost., e dunque rispetto ai principi di effettività della tutela e ragionevole durata del processo. MERUSI, Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione dopo il codice del processo?, Relazione al 56° Convegno di studi amministrativi, Varenna 23-25 settembre 2010, in www.giustamm.it, 1.10.2010 suggerisce invece una lettura dell’art. 103 costituzionalmente orientata al principio del giusto processo, sancito dall’art. 111. Alla luce del principio della concentrazione delle tutele, desumibile dall’art. 111, l’art. 103 deve essere interpretato nel senso che la giurisdizione amministrativa sussiste in ogni caso in cui la controversia coinvolge diritti ed interessi. Mentre, solo nelle ipotesi individuate espressamente dalla legge, possono essere devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie che coinvolgono unicamente diritti soggettivi. In tal modo, la cognizione del giudice amministrativo si estende naturalmente ad entrambi i  possibili tipi di rapporti che si instaurano tra cittadino e amministrazione, scanditi il primo dalla sequenza interesse legittimo – potere, il secondo diritto –obbligo. Afferma peraltro l’A. l’interpretazione adeguatrice, ai canoni del giusto processo, già applicata all’art. 103 Cost., deve essere praticata anche nei confronti dell’art. 7 c.p.a.. Sul mutamento del criterio di riparto, come portato di una esigenza di concentrazione dei giudizi e delle tutele, sia consentito rinviare anche a A. SCOGNAMIGLIO, Tutela anticipatoria dei crediti pecuniari e questione di giurisdizione, in Cons. Stato, 2000, 2056 ss, e Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1072 ss..

[2] Cfr. MERUSI, “In viaggio con Laband…”, in www.giustamm.it, 19.4.2010; ROMANO TASSONE, Così non serve a niente,  ivi, 15.4.2010; SAITTA, Il codice che poteva essere, ivi, 16.4.2010.

[3] Sul canone della effettività della tutela giurisdizionale come massima espressione della strumentalità del processo nei confronti del diritto sostanziale, cfr.: CAPONI, La riforma del processo amministrativo: primi appunti per una riflessione, in Foro it., 2010  V, 271

[4] CLARICH, Le azioni, in Giorn. Dir. amm., 11/2010, 1121

[5] CAPONI, La riforma, cit.,  271.

[6] A favore della possibilità di una interpretazione adeguatrice ed evolutiva delle disposizioni del codice anche PATRONI GRIFFI, Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustizia-amministrativa.it,  14.12.2010.

[7] In altre parole, già la completa realizzazione del diritto di azione e di difesa sancito dall’art. 24 “esige che il sistema di tutela giurisdizionale sia organizzato in modo da garantire il pieno giudizio sul “bene della vita” intorno al quale si contende e da consentire al vincitore di conseguirlo”, così F. SATTA, Giustizia amministrativa, cit.,  419.

[8] Valorizzano la disposizione di cui all’art. 34, comma 1°, lett. c), GISONDI, La disciplina dell’azione di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it;2010;  CLARICH, Le azioni, cit. e Le azioni nel processo ammnistrativo tra reticenze del codice e aperture a nuove tutele, in www.giustizia-amministrativa.it; CINTIOLI, Il sindacato sulla discrezionalità nel codice del processo amministrativo, Relazione al Convegno Il codice del processo amministrativo. Prime analisi dei profili problematici, Tar Lazio, 4 novembre 2010.

[9] Non è forse un caso che alcune forme di tutela adempitiva siano state in primo luogo introdotte per assicurare la tutela piena dei diritti garantiti all’amministrato – nei confronti dell’amministrazione dalla legge 241/1990. Su questi aspetti, cfr. PASTORI, La disciplina generale dell’azione amministrativa, Relazione al Convegno Astrid, “Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione”, Roma, 22.3.2002; sia consentito anche rinviare a A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004, spec. 130ss e  284 ss.

[10] La critica alla tesi della necessaria  o normale correlazione tra sentenza di condanna ed esecuzione forzata e le premesse per la costruzione di una figura generale di tutela di condanna, in PROTO PISANI , Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir .proc. civ., 1976, spec. 1143 ss e Appunti sulla tutela di condanna (trentacinque anni dopo), in Foro it., 10/2010, V, 257.

[11] La soppressione dell’art. 36, dell’articolato steso dalla Commissione, non autorizza a revocare le conclusioni già raggiunte dalla giurisprudenza favorevole ad ammettere le azioni di accertamento, destinate a sfociare in pronunce dichiarative, ove alla situazione di incertezza, che concreta l’interesse ad agire in mero accertamento, sia possibile porre rimedio tramite la pronuncia dichiarativa del giudice, cfr. TONOLETTI, Mero accertamento e processo amministrativo: analisi di casi concreti, in dir. proc. amm., 2002, 595 ss..

[12] Sull’accertamento della fondatezza della pretesa come elemento centrale ed insopprimibile della sentenza di condanna, cfr.: POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. II, Padova, 2001, 173-174.

[13] L’argomento della simmetria con i poteri attribuiti al giudice nel giudizio contro il silenzio mi sembra sia utilizzato anche da CINTIOLI, cit. Nello stesso senso, TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Nona edizione, Torino, 2010, 212, il quale non sembra ritenere superabile in via interpretativa l’argomento deducibile  dalla “volontà espressa dal Governo nel testo finale del codice di non introdurre un’azione  di adempimento a carattere generale”, e tuttavia osserva che la previsione di una pronuncia di adempimento nel giudizio contro il silenzio determina una incoerenza di fondo del codice. Osserva l’A.,“non si capisce perché il giudice possa conoscere della fondatezza dell’istanza nel caso del ricorso contro il silenzio, e non invece nel caso in cui sia impugnato un provvedimento dell’amministrazione che abbia respinto l’istanza del cittadino”

[14] Valorizzano la soppressione dell’inciso “salvi gli ulteriori provvedimenti”, al fine di accentuare il carattere doveroso della attività amministrativa che segue la sentenza di annullamento e definire il possibile contenuto della statuizione di condanna, CLARICH, Le azioni, cit. e FOLLIERI, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it 29.11.2010.

[15] Cfr: M. A. SANDULLI, Anche il processo amministrativo ha finalmente un codice, in www.federalismi.it, 14 luglio 2010, MERUSI, “In viaggio con Laband…” in www.giustamm.it, 19.4.2010; oltre agli Autori citati supra a nt. 7.

[16] Sottolinea questo aspetto, che poi riflette l’esigenza “sempre assai desta nella sensibilità del giudice amministrativo, di mantenersi giudice dell’amministrazione e di evitare di diventare lui stesso amministratore”, E. FERRARI, sub. Art. 26, l tar, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. ROMANO, Padova, 1992.

[17] Cioè tale da attribuire al ricorrente vittorioso in giudizio tutto quello che il diritto sostanziale gli attribuisce.

[18] Cons. Stato, Ad. Plen., 10 marzo 1978, n. 10 in Riv. dir. proc., 1979, 395, con nota di GRECO, Silenzio della pubblica amministrazione e problema di effettività della tutela degli interessi legittimi.

[19] Conformemente ad una esigenza di satisfattività della tutela da tempo sottolineata dalla dottrina, cfr: MERUSI, Verso un’azione di adempimento?, in Il processo amministrativo, Scritti in onore di MIELE, Milano, 1979, 331 ss.; M. NIGRO, Giustizia amministrativa,  6° ed., Bologna, 2002, 89 ss.

[20] Così VERDE, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, Relazione al Convegno della Associazione fra gli studiosi del processo amministrativo “Verso il nuovo processo amministrativo”, Perugia, 14-15 maggio 2010, in Dir. proc. amm., 3/2010, 797 ss. e anche MERUSI,

[21] L’obbligo di rilasciare una dichiarazione di volontà è una obbligazione fungibile e surrogabile da un provvedimento del giudice ( a struttura cognitiva, ma a funzione esecutiva), secondo PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna (trentacinque anni dopo), cit., 266.

[22] Per VERDE, Sguardo panoramico, cit., 799 la scelta del codice di non delegare al giudice del merito il compimento di attività amministrativa si radica, al fondo, sul principio della divisione dei poteri o su di una malintesa accezione di questo.

[23] Rinviene nel principio di responsabilità il limite al riconoscimento di poteri sostitutivi in capo al giudice, LEDDA, La giurisdizione amministrativa raccontata ai nipoti, in Scritti giuridici, Padova, 2002, spec. 394 ss., il quale sottolinea come al giudice non possa essere addossata la responsabilità dell’amministrazione perché la “irresponsabilità” del giudice è condizione della sua indipendenza.

[24] Merita di essere ricordata sul punto l’opinione di CAVALLO PERIN, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 1168, per il quale la tipicità della tutela costitutiva trova in ogni caso la sua giustificazione nella “garanzia dell’autonomia giuridica riconosciuta ai soggetti”. La spiegazione del carattere eccezionale della tutela costitutiva sarebbe cioè la stessa per i soggetti privati o pubblici. Al tempo stesso l’A. rinviene la ragione della attribuzione al giudice amministrativo dei soli poteri costitutivi rivolti alla  estinzione dei rapporti ( e non alla loro costituzione o modificazione) nella minore invadenza della sentenza meramente demolitoria rispetto alla autonomia giuridica dell’amministrazione.

[25]  Nelle ipotesi disciplinate dagli articoli 19 e 20, in assenza di provvedimenti lesivi dell’amministrazione suscettibili di impugnazione, può sussistere una incertezza su situazioni giuridicamente definite e può sussistere anche l’interesse delle parti a risolverla tramite una pronuncia dichiarativa. Cfr.: Cons. Stato, sez. v, 9 febbraio 2009, n. 717 in Urb. e appalti, 2009, 572; Id., sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139, in Giorn. Dir. amm., 2010, 624; Id. sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2558 in Riv. giur. edilizia, con nota di ZAMPETTI, Natura giuridica della d.i.a. (oggi scia) e tutela del terzo, alla quale rinvio per completi richiami di dottrina e giurisprudenza. La giurisprudenza si è in particolare occupata della posizione del terzo, leso dall’attività avviata in base a dia, ed ha ammesso che costui possa tutelarsi tramite una azione di accertamento , esperibile dinanzi al giudice amministrativo, per ottenere una pronuncia che dichiari l’inesistenza dei presupposti per svolgere l’attività. Allo stesso modo – mi sembra – si debba ammettere l’esperibilità di una azione di accertamento da parte del titolare della situazione giuridica determinata dalla autodichiarazione, o dal silenzio dell’amministrazione, in ogni caso in cui l’esistenza di questa sia in qualsiasi modo contestata. In questo secondo caso, anzi, la pronuncia dichiarativa è realmente essa stessa satisfattiva dell’interesse dedotto in giudizio, essendo idonea a porre fine a quella situazione di incertezza, che consegue alla contestazione. Mentre l’effettività della tutela del terzo, leso dall’attività intrapresa ai sensi degli artt. 19 e 20, richiede necessariamente una pronuncia di contenuto inibitorio (il divieto di svolgere l’attività e l’ordine di rimuoverne gli effetti). Pronuncia che deve essere adottata dall’amministrazione e non dal giudice, secondo quanto afferma la giurisprudenza sopra citata, con un orientamento non pienamente condivisibile.

[26] Cfr. LIPARI, L’effettività della decisione tra cognizione ed ottemperanza, Relazione al 56° Convegno di Studi di Varenna, 23-25 settembre 2010, in www.federalismi.it.

[27] Tramite l’esecuzione forzata è possibile l’esecuzione degli obblighi consistenti nel pagamento di una somma di denaro, nel rilascio di una cosa immobile o mobile determinata fungibile, in un fare fungibile. L’esecuzione forzata si rivela invece inadeguata per la esecuzione degli obblighi di fare infungibile, e di quegli obblighi di fare che, pur potendo essere considerati fungibili, presentino tuttavia caratteristiche tali da poter essere difficilmente eseguiti da parte di un terzo, nonché per la esecuzione degli obblighi di non fare.

[28] Cfr. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim dir. proc. civ., 1976, 1142.

[29] La misura dell’astreinte consiste nell’autorizzare il giudice, allorché emana una sentenza di condanna ad un fare o ad un non fare, a fissare la somma di denaro che l’obbligato sarà tenuto a pagare per ogni giorno di ritardo. La somma è commisurata all’entità ritenuta dal giudice idonea a privare l’obbligato dell’interesse ad adempiere.

[30] Il contempt of court consiste nel consentire al creditore di fare istanza allo stesso giudice che pronunciò la sentenza allo scopo di far dichiarare il convenuto colpevole di contempt e farlo condannare all’arresto.

[31] Articolo aggiunto al codice di rito dall’art. 49, comma 1° della l. 18 giugno 2009, n. 69.

[32] Così, invece, TORCHIA, Le nuove pronunce nel codice del processo amministrativo, Relazione al 56° Convegno di studi amministrativi, Varenna 23-25 settembre 2010, in www.giustiziamministrativa.it.  

[33] Nega il carattere discrezionale dei poteri attribuiti al giudice amministrativo dagli artt. 121, co. 2, 122 e 125, co. 2, c.p.a., F.G. SCOCA, Considerazioni sul nuovo processo amministrativo (relazione tenuta a Lecce il 9 luglio 2010), in www.giustamm.it,  9.2.2011.

[34]  Sulla specialità del rito, cfr: FOLLIERI, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 1067 ss..

[35] Così LEDDA, Efficacia del processo e ipoteca degli schemi, in Scritti, cit., 308. L’affermazione che il giudice può determinare compiutamente tutti gli aspetti dell’atto amministrativo solo quando l’atto è vincolato, cioè voluto con quel contenuto dalla legge, corrisponde ad un orientamento costante nella interpretazione dei rapporti tra giudice amministrativo ed amministrazione, cfr.: E. FERRARI, sub Art. 26, cit., 725.

[36] Quello elisione della discrezionalità, come portato della uniformità imposta dal diritto europeo, è un aspetto sul quale MERUSI, ha richiamato l’attenzione, in numerosi scritti, tra cui Variazioni su tecnica e processo, in Dir. proc. amm., 2004, 974.

[37] Così VERDE, Sguardo panoramico, cit., 799.

[38] E difatti ricorda E. FERRARI, op. cit., 726, come in origine “l’esclusione delle sentenze di condanna da quelle ammissibili nel processo amministrativo fosse interpretata dalla giurisprudenza non come una limitazione ai poteri della Quarta sezione, quanto come un logico corollario della riserva al giudice ordinario delle questioni attinenti a diritti”.

[39]  Si ha qui il sovvertimento di un altro postulato della giustizia amministrativa classica, e cioè dell’idea per la quale sui diritti, che fronteggiano l’attività amministrativa non discrezionale o vincolata, è competente il giudice ordinario, mentre la giurisdizione amministrativa sarebbe limitata all’attività discrezionale e quindi alle situazioni di interesse. Non c’è dubbio, peraltro, che il sistema si sarebbe potuto sviluppare in una direzione diversa da quella seguita dal legislatore. L’alternativa avrebbe potuto essere quella indicata da A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, spec. 294 ss.: la rivitalizzazione del ruolo del giudice ordinario nelle controversie inerenti a diritti e poteri vincolati dalla legge sostanziale e la riserva al giudice amministrativo del sindacato sulla discrezionalità pura. E’ una alternativa che si sarebbe posta in linea con il criterio tradizionale di riparto, fondato sulla natura della situazione dedotta in giudizio, e con il principio della giurisdizione unica del giudice ordinario sui diritti soggettivi. La diversa evoluzione del sistema forse non è casuale e trova la sua spiegazione proprio nei limiti del criterio tradizionale di riparto, nelle sue difficoltà applicative, nella sua atipicità, nel quadro europeo.

[40] Cfr. nota 2.

[41] Secondo la tesi, ampiamente condivisibile, sostenuta da VILLATA, L’azione di risarcimento dei danni nel nuovo processo amministrativo,  Relazione al Convegno Il Codice del processo amministrativo. Tar Lazio, 4 novembre 2010.

[42] Per il quale “In ogni caso in cui ha giurisdizione il giudice amministrativo può condannare l’amministrazione al risarcimento del danno”

[43] Sostenuta da FANTINI, sub art. 30 in Codice del processo amministrativo, a cura di GAROFOLI e FERRARI, Nel diritto editore, 2010., 508.

[44] Qualifica speciale il regime della responsabilità amministrativa, quale risulta dalla disciplina del codice, PORTALURI, Le “macchine grigie ed il codice ben temperato, Relazione al Convegno “Il codice del processo amministrativo”, Tar Lecce, 12-13 novembre 2010, in www.giustizia-amministrativa.it .

[45]  La questione non è nominalistica. Se si tratta di prescrizione vale ad interromperne il decorso, non solo la proposizione dell’azione di annullamento (così come espressamente previsto dall’art. 30, comma 5), ma – si deve ritenere - l’esperimento di ogni altra forma di tutela prevista dall’ordinamento (ad esempio la proposizione del ricorso gerarchico).

[46] Contra: SORICELLI, Il punto sulla disciplina legislativa della pregiudiziale amministrativa alla luce del Codice del Processo Amministrativo, in www.giustamm.it, 26.8.2010, per il quale “la decadenza dell’azione risarcitoria degli interessi legittimi sembra essere stata prevista dal legislatore per raggiungere lo scopo dell’interesse pubblico della stabilità dell’azione amministrativa”. Ma la tesi non tiene conto del fatto che la tutela risarcitoria per equivalente monetario non incide sulla stabilità dell’atto, a differenza della tutela costitutiva demolitoria.

[47] Con il conseguente obbligo dell’amministrazione pubblica di accantonare in bilancio somme rivolte a far fronte alla eventuale condanna.

[48] Esprime accenti fortemente critici sull’art. 5 e sulla scissione che la norma determina tra gli aspetti non patrimoniale e quelli patrimoniali del rapporto, deducibile dinanzi al giudice amministrativo, E. CANNADA BARTOLI, La legge sui tribunali amministrativi regionali ed i limiti alla giurisdizione amministrativa,in  Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 1970ss.

[49] Cfr. Cass., Sez. Un., ord. 10 febbraio 2010, n. 2906.

[50] MERUSI, Giurisdizione e amministrazione, cit. e G.D. COMPORTI, Il codice del processo amministrativo e la tutela risarcitoria: la lezione di un’occasione mancata, in www.judicium.it 12.1.2011.

[51] Cfr. CAPONI, La riforma del processo amministrativo, cit., 267.

[52] Così non mi sembra che si possa assegnare un peso decisivo alla volontà chiaramente espressa dal Governo nel testo finale del codice di non introdurre una azione di adempimento. Una certa discrepanza tra le intenzioni del legislatore ed il concreto funzionamento del processo sembra rappresentare, del resto, una costante delle leggi di giustizia amministrativa., come osserva GIANNINI, in una pagina del Discorso generale sulla giustizia amministrativa,in Riv. dir. proc. 1964, così come è una costante della evoluzione del sistema quel ruolo creativo della giurisprudenza, che il giudice amministrativo orgogliosamente rivendica, da ultimo DE LISE, Relazione sullo stato della giustizia amministrativa, 11 febbraio 2011..